Il Ciclope- Paolo Rumiz

Recensione

Questo bel libro di Paolo Rumiz è uscito nel 2015 per Feltrinelli. La scrittura naturalistica è ad alta tensione poetica e s’inquadra nella letteratura di viaggio, anche se le tre settimane primaverili trascorse dallo scrittore sul faro di un’isoletta persa nel Mediterraneo si potrebbero erroneamente immaginare statiche. Lui scrive invece di un viaggio che definisce “immobile”, unendo al nome l’attributo che genera l’ossimoro. L’Isola – con la maiuscola – pare una nave, e come quella naviga lasciando a poppa una scia di isolotti e di schiuma. Il faro a prua non è di quelli sempre accesi: la lampada inizia a ruotare di sera e si spegne quando fa giorno, grazie a una cellula fotoelettrica. La sua lampadina è di soli dodici watt per sessanta volt, come quella di un’automobile, ma alcuni prismi potenziano il suo raggio di luce fino a fargli bucare la notte per decine di miglia. Il clima dell’Isola è un’efficace rappresentazione icastica della concezione leopardiana del piacere: lì il bel tempo è solo la tregua tra due buriane. Gli unici animali non umani che Rumiz vi trova, a parte i prevedibili gabbiani, sono una gallina, alcuni gatti e un asino guercio pazzo per i limoni.

Quello di Rumiz è un racconto privo di dialoghi ma ricco di citazioni marinaresche, brani di discorsi o di scritti annotati nella memoria dell’autore o nel suo indispensabile taccuino. Sul nome dell’Isola, lui mantiene un silenzio piombato, anche se semina indizi e forse pure qualche blando depistaggio. Leggendo, si viene rosi dalla curiosità e si avvia l’inevitabile ricerca su Internet. Raccolgo qui gli indizi: l’Isola porta uno dei nomi del mare, ha una funicolare, una cappella dedicata a san Michele, una cisterna romana e, nella sua parte centrale, presenta un’area archeologica con i contorni di un rettile – la Lucertola. La torre del faro ha una base ottagonale che poi diventa tonda, la lanterna è un prisma a sedici lati protetta da sedici teste di leone ruggenti. Il faro fu costruito dall’ingegner Richard H. e in seguito vi fu annesso un osservatorio meteorologico. L’Isola fu anche raggiunta dal famoso esploratore Richard F. Burton e si dice che accolga la tomba di uno dei più famosi reduci della guerra di Troia.

L’autore c’informa che esistono tre tipi di fari: quelli comodamente piantati sulla terraferma, quelli abbarbicati su impervi promontori rocciosi e quelli spersi al largo, su isolotti disabitati. Il suo (e nostro) faro è di quest’ultimo genere. Rumiz cita molti fari abbandonati o remoti: quello dell’Asinara in Sardegna, di Capo Colonna e di Capo Trionto in Calabria, il faro di Punta Tamelos nelle Cicladi, di Pertusato a Bonifacio, quello di Fiscardo a Cefalonia, il faro di San Nicola in Istria. Questo ingloba una chiesa, e la cosa non paia strana: anche i fari sono luoghi sacri ove dimorano gli dèi, e il guardiano del faro è come un sommo sacerdote. Sul faro di Pelagosa, in Croazia, Rumiz riporta la citazione di un amico: «Quello è un luogo che ti fa capire che, oltre al lumino della tua esistenza, c’è l’incommensurabile nulla». Poi ci sono i fari non mediterranei come Cabo da Roca in Portogallo, Kork in Irlanda, Ar-Men in Bretagna, il noto e terrificante scoglio in balia delle burrasche che tutti abbiamo visto in foto e sui poster. Altre torri di luce sono meno decentrate e più placide, come il faro della Vittoria a Trieste, sotto il quale, nelle notti di vento forte, può volare via un amico – Rumiz lo sa bene, purtroppo.

Leggendo questo libro ho scoperto nella figura del farista la più calzante allegoria della solitudine perfetta. Una solitudine sana, che ammette le necessarie interazioni sociali. I guardiani dei fari, che ascoltano continuamente musica trasmessa via radio, non sono inquietanti misantropi con lo sguardo sempre proiettato nel nulla intorno. Il capitano e l’assistente che hanno accolto Rumiz tornano a casa al termine del loro turno mensile, e dà loro il cambio una famiglia di tre persone. I faristi sull’Isola hanno sempre un gran daffare: mantengono funzionanti le strutture e l’attrezzatura – generatore, cisterna, pannelli solari, anemometro, serramenti –, tosano l’erba, puliscono la lampada, accolgono ospiti e naufraghi, si occupano delle faccende domestiche, raccolgono finocchietto di mare, aglio, asparagi e capperi selvatici, coltivano l’orto e lo proteggono dai predatori volanti. Nell’Isola succede sempre qualcosa, e anche chi vi si trova come ospite non si annoia affatto. Rumiz elenca dettagliatamente le sue attività, di cui qui riporto solo una parte: «fare il pane, controllare il barometro, leggere il libro giusto nella lanterna del faro, uscire a pesca, cucinare un risotto». L’autore mostra una forte dedizione al cibo e al vino, e leggerlo è una vera goduria: del pane fatto in casa «ogni boccone è un’eucaristia», e quello caldo col miele è una delizia… Stuzzicano i sensi piatti elaborati come ossobuchi in umido e zuppa di pesce, ma forse ancora di più quelli frugali, come bruschette alle acciughe, formaggio di capra, olive. Rumiz beve vino resinato fresco, birre, calici di Malvasia (mi stupisce, però, che un palato fine come il suo allunghi il vino con l’acqua). Qualche volta si scopre canterino, oppure recita Catullo, con o senza alcol in corpo.

Sull’Isola lo scrittore trascorre molto tempo a ripensare ai suoi viaggi e alle persone speciali, tutte esperte di mare, che ha incontrato: biologi marini, velisti, skipper. Di uno di questi offre un ritratto romantico indimenticabile: Piero Tassinari naviga orientandosi con le stelle e con vecchi portolani, e canta l’Odissea recitandola a memoria. Tra i tanti racconti di viaggio ho trovato divertente, pur nella sua drammaticità, il tentativo fallito di Rumiz di raggiungere a piedi e in solitaria il vecchio faro del capo di Point Hope in Alaska. Soltanto al rientro sconsolato nel bar più settentrionale delle Americhe, da cui era partito baldanzoso dopo una birra, lo scrittore scoprì di essere stato sfacciatamente fortunato: gli orsi famelici della zona non avrebbero esitato a riempirsi la pancia con un italiano scriteriato. Racconto dalla suggestione gotica è quello dell’isola di Lavezzi, tra Corsica e Sardegna, dove i bastimenti affondati riemergono e risuonano dei lamenti strazianti dei naufraghi. Lì, al faro rosso, col canto ultraterreno delle berte, l’orrore diventa bellezza.

Nell’Isola, sotto un cielo carico di stelle, Rumiz cerca riferimenti noti, vuole nominare, riconoscere costellazioni, enumerare. Poi capisce che sapere non è sentire, che quello che conta non è il nome ma l’essenza. Tuttavia l’essenza esercita un’azione causale sul linguaggio, e si riflette nel nome. La costellazione dello Scorpione, cui lo scrittore perviene attraverso il suggerimento subliminale della Lucertola, porta nel nome la sua stessa sostanza, quella specifica segmentazione del continuum astrale. Ma chi sente non ha bisogno di sapere, né di capire.

Il Ciclope pare infuso di magia mediterranea: in esso i fari piangono e il mare ha il colore del vino. Sugli scogli disabitati e sperduti fa capolino il dubbio iperbolico: è la luna piena che fa ululare il cane, o è il verso del cane che genera la luna piena? Nel libro, non solo Isola, ma anche Luna e Sole sono scritti con la maiuscola, in un omaggio al sacro sempre rinnovato.
Rumiz guarda al mondo con una “percezione pelagica”, la stessa di chi nei secoli ha installato fari ovunque. Che non è quella nazionalistica e protezionistica delle gelosie e degli interessi locali, ma quella di chi vede nel mare un ponte. Per i Greci il pelagos era pontos.

L’afflato etico di Rumiz spazza via opportunismi e alibi, è come la Tramontana dolce e profumata che nel libro pulisce il cielo: lui s’indigna per la plastica che inquina, per le navi da crociera che rovinano e sporcano, per le atroci stragi di migranti, per le intollerabili usurpazioni di suolo di chi predica patria e religione, per l’inutile sofferenza degli animali, per la pesca industriale e sistematica che desertifica le acque. Ci scuote con il vergognoso paradosso che solo la guerra dà tregua al mare, e solo le zone militari salvano i luoghi dallo scempio turistico. Arrivo a immaginare il rigoglioso rifiorire del pianeta dopo di noi, «incapaci di sentire il grido della natura che boccheggia e dice “basta”». Penso che giungeremo all’estinzione con la stralunata incredulità del cavallo che finisce in mare e annega, nel racconto di una vecchia emigrata tunisina riferito da Rumiz.

Questo è uno di quei libri che vien voglia di leggere ad alta voce per assaporare bene le parole. Le suggestive similitudini, i disinvolti anacoluti, il lessico attento e raffinato, i tecnicismi essenziali mai spigolosi – i nomi delle vele, dei venti, delle costellazioni – regalano il piacere di una prosa poetica e seduttiva. Rumiz arriva a dire l’ineffabile: nelle notti di tregenda si fa esegeta del muggito furibondo del faro, dei suoi scricchiolii, dei suoi gemiti. Se ne lascia turbare come dal sublime dinamico kantiano.

Io credo di averlo trovato, il nome dell’Isola. So chi è l’ingegnere che costruì il faro, conosco il nome dell’eroe greco reduce da Troia che lì riposa. Non ci vuole molto, con Internet; oggi è anche più facile di quando il libro uscì. Ma mantengo il segreto, accogliendo l’invito di Rumiz e schivando la sua giocosa maledizione, nel dubbio che non sia poi così giocosa… Lui ci confonde nominando l’Isola almeno quattro volte, con nonchalance, insieme ad altri fari, o citando i versi di un linguista dalmata, o riportando l’avvistamento di un capitano afono. Io ho fatto come lui, ho buttato quel nome con indifferenza nella mischia degli altri, in questo testo. Ma ai più attenti non sarà sfuggito.
Rumiz lascia l’Isola senza voltarsi indietro, per non soffrire di quella nostalgia anticipata che i Greci e i loro miti raccontano così bene. Io faccio lo stesso riponendo di fretta il volume nella mia libreria, mentre ascolto in streaming Amore grande amore libero, di Federico Monti Arduini, e freno a stento l’impulso di correre in un porto e di prendere il largo.

Cristiana Bullita

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