Un terzo dei film in rassegna sono firmati da registe.
“Un caso” ha commentato il direttore del festival Alberto Barbera. “Era ora” reagiscono le dirette interessate.
Francesca Comencini – Foto di Ada Masella
In concorso. Fuori concorso. In Orizzonti. Alle Giornate degli Autori. Alla Settimana della critica. Non c’è sezione della 69esima Mostra del Cinema in cui le donne siano assenti. «Un caso» ha dichiarato il direttore Alberto Barbera, che assicura di essersi reso conto solo a selezione conclusa che venti dei sessanta film presenti a Venezia dal 29 agosto al 9 settembre sono diretti da donne. Certo, buon segno rispetto all’ultimo festival di Cannes, dove di donne in concorso non c’era nemmeno l’ombra.
La Laguna, invece, dopo l’apertura con The Reluctant Fundamentalist della veterana Mira Nair, si appresta a ospitare in Concorso una debuttante, l’israeliana Rama Burshtein che, in Fill the Void, posa lo sguardo sulla propria comunità, quella ultraortodossa. E sempre in concorso si incontrano la portoghese Valeria Sarmiento e la statunitense Jessica Woodworth (che ha lavorato a quattro mani con il belga Peter Brosens) e la nostra Francesca Comencini con Un giorno speciale. Haifaa al-Mansour, nella sezione Orizzonti, è la prima donna regista dell’Arabia Saudita (dove l’industria cinematografica è praticamente inesistente). Fuori concorso, dalla Danimarca, non poteva mancare un’habitué come Susanne Bier che, dopo aver affrontato molti dilemmi morali, con Love Is All You Need gira una commedia e chiede a Pierce Brosnan di interpretare il ruolo principale. «È un dato importante» dice Francesca Comencini, tra le promotrici del movimento “Se non ora quando?”.
«Era ora che la creatività femminile fosse rappresentata. Nel cinema il racconto è ancora troppo spesso declinato al maschile». Non è un caso che molte attrici scelgano di passare dall’altra parte della macchina da presa: Sarah Polley, canadese, enfant prodige (primo film a sette anni, primo cortometraggio da regista a venti), porta alle “Giornate” Stories We Tell, un film sulla famiglia e la memoria. Hiam Abbass, un curriculum di rango, da Munich di Steven Spielberg a film-evento come L’ospite inatteso e Il giardino di limoni, accompagna il suo primo lungometraggio, Heritage. «Passare alla regia per me è stata una necessità» spiega. «Avevo bisogno di raccontare la mia storia, con un film personale, denso di elementi che conosco bene». Ecco che allora tutto ruota attorno a una grande famiglia palestinese che vive nel nord d’Israele, la regione di provenienza di Abbass: «Padri, figli, cugini si ritrovano riuniti per il matrimonio della nipote più piccola. Un film corale che racconta tanti percorsi individuali in un contesto di guerra che è la somma di tutte le guerre che ho vissuto nella mia vita».
A Venezia le donne non parlano solo di donne: La Cinquième saison di Jessica Woodworth tratta il rapporto uomo/ natura, un giorno speciale di ragazzi in cerca di lavoro e di valori per la vita da adulti che provano a intraprendere, Linhas de Wellington di Sarmiento è un film storico incentrato su una battaglia campale. Xan Cassavetes, chiude la “Settimana della Critica” con Kiss of the Damned, una storia di vampire, Haifaa al-Mansour racconta le astuzie di una ragazzina che sogna una bicicletta in un paese dove alle donne non è permesso andare in bici. Temi diversi, diverse sensibilità: ha senso parlare di un denominatore comune? «Il fatto che il punto di vista sia femminile è già una caratteristica fondamentale» sostiene Comencini. «Lo è un certo modo di lavorare» aggiunge Giada Colgrande, alle “Giornate” con il documentario Bob Wilson’s Life And Death of Marina Abramovic. «A me piace collaborare con persone con cui si crea un’atmosfera intima, di vicinanza: una tendenza che ho riscontrato in altre colleghe». “Vicinanza” per Francesca Comencini significa lavorare con donne, quando può: «Anche la collaborazione con gli uomini mi arricchisce, ma visto che loro sono più presenti, se posso preferisco favorire le signore. Credo nella differenza».
Anche in una rassegna chiaramente più rosa della media come quella veneziana, però, le italiane si contano sulle dita di una mano. Non siamo ancora un paese per donne? Per Comencini «nel nostro settore la situazione non è peggiore che altrove». Colagrande non è d’accordo: «In paesi come la Francia o l’Argentina il cinema è molto più femminile. Noi, dietro alla macchina da presa, arriviamo appena al cinque, sei per cento. Forse perché il ruolo di regista viene considerato di potere. E in Italia il potere è in mano agli uomini». Hiam Abbass, per fare il suo piccolo film, ha saputo mettere insieme produttori separati da frontiere di solito invalicabili. «Heritage è un film franco- israeliano-turco» spiega. «Ma non mi chieda se ho usato la mia notorietà di attrice, non mi piace rispondere a questa domanda. Voglio pensare a me stessa senza etichetta: attrice, regista, uomo, donna. È dal 1967, dallo scoppio della Guerra dei Sei Giorni – ed ero solo una bambina – che mi interrogo sulla mia identità. E alla fine, da palestinese con nazionalità israeliana che ha scelto di vivere a Parigi per amore, mi sono detta che la mia sola identità è il mio film, che non ha genere e per passare i confini, a differenza di me, non ha bisogno di documenti». (di Anna Maria Speroni e Paola Piacenza ).
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