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 GIORNALISMO DI INCHIESTA, MADE IN ITALY
Robert Owen-Wahl • BFK

Il punto di partenza è stata l’Ucraina, perché da lì, dalla Global Investigative Journalism Conference di Kiev del 2011, otto giovani giornalisti italiani sono tornati con tante idee nella testa, anche confuse, ma con un comune progetto: fare vero giornalismo d’inchiesta. Quel giornalismo che negli ultimi anni, complice la crisi e il taglio del personale nelle redazioni, si fatica sempre di più a ritrovare nella stampa italiana.
Nasce così IRPI – Investigative Reporting Project Italy, la prima associazione no-profit in Italia formata da giornalisti investigativi di grande esperienza che dal 2012, in modo indipendente, realizza inchieste (scritte e video), articoli e documentari web di denuncia in italiano e inglese. In cinque anni IRPI ha raccontato di corruzione, criminalità organizzata, ambiente, politica corrotta, diritti umani, malaffare, investigando a tutti i livelli grazie anche alla collaborazione di una fitta rete di contatti diffusa in tutto il mondo.
Portano anche la firma di IRPI inchieste come ‘I Panama Papers’ a cui hanno lavorato tre giornalisti del network, ‘Bahamas Leaks’, ‘Mafia Capitale e il tesoro di Massimo Carminati a Londra’ e molte altre ancora comparse nelle più autorevoli testate italiane e straniere. Perché IRPI, oltre che fornire un servizio di fixing (supporto e assistenza ai media e giornalisti stranieri in Italia) funziona così. Lo spiega Alessia Cerantola giornalista di IRPI.

Come lavora IRPI?
L’idea di un’inchiesta nasce di solito da una segnalazione, un’intuizione. Prima di iniziare presentiamo il nostro progetto a enti benefici o fondazioni internazionali per ottenere fondi o finanziamenti che possano sostenere il lavoro che questo progetto richiede. Realizzata l’inchiesta, contattiamo (se non l’hanno già fatto loro anticipatamente) le testate che potrebbero essere interessate a pubblicarla. Lavoriamo anche co-producendo inchieste con singole testate (sia italiane che estere) e ci autososteniamo anche con forme di crowdfounding.

Il modello lavorativo a cui vi ispirate è molto diffuso in Europa e negli Stati Uniti. Si potrebbe applicare alla realtà giornalistica italiana?
Gli ingredienti ci sono tutti, basterebbe solo sperimentare di più, adattandosi all’evolversi di questo mercato e alle richieste dell’audience. Forse in questi ultimi anni, come giornalisti, abbiamo perso un po’ il rapporto con il nostro pubblico e questo va di sicuro recuperato anche attraverso la capacità di dare maggiore professionalità a questo mestiere. Non è vero, come si sente spesso dire, che ‘il giornalista ormai non serve più’; al contrario, il giornalista oggi deve essere molto più preparato di prima perché, per poter dare un’informazione quanto più possibile accurata, è chiamato ad andare a fondo nelle cose e questo comporta necessariamente una maggiore preparazione.

Ora l’informazione è veloce, arriva dalle fonti più disparate e spesso non è neppure veritiera; in più l’attenzione dei lettori è frammentata e minima. Che futuro pensi possa avere il vostro progetto che invece va in direzione contraria (quella di un tipo di informazione approfondita, verificata, più lenta)?
La nostra è una sfida. Con il nostro modo di fare giornalismo speriamo di portare qualcosa di diverso che contribuisca a riconsegnare alla figura del giornalista, quella professionalità che sembra aver perso. Noi vogliamo offrire qualcosa di più a chi legge, quel valore aggiunto alla notizia che è ancora insostituibile. Né i social media, che possono essere degli ottimi strumenti da usare come fonti o come strumenti per raggiungere il pubblico, né i robot sono sostituti del nostro lavoro.

Nell’era del digitale in cui chiunque può improvvisarsi reporter, come si fa a guadagnarsi credibilità?
Con il tempo, tantissimo tempo. Solo questo dà la possibilità di sconfiggere tanti ‘nemici’ tra cui le notizie (e le stesse inchieste) false. E credo che se come giornalista riesci a fare un lavoro serio e approfondito, ponendoti in modo umile di fronte al lettore, alla fine la credibilità è quello che davvero ti resta, perché la prova che hai fatto davvero un buon lavoro, anche quando questo è di denuncia, è proprio il fatto di non essere smentito e portare prove solide della tua ricerca.

Come sono andati questi cinque anni?
Siamo partiti dal nulla, nessuno ci conosceva ed è stato difficile anche solo presentarci in giro e far capire il nostro lavoro. Adesso la sigla IRPI comincia a dire qualcosa, le testate riconoscono il nostro nome e spesso sono loro a contattarci per prime; in questo senso si sono rovesciati i ruoli. Inoltre, comincia a rafforzarsi la via della sostenibilità e questo è un’enorme conquista per chi, come noi, non può contare su fondi pubblici o sulla pubblicità.

Avete maggiore riscontro dalla stampa estera o da quella italiana? E perché?
Per ora la bilancia pende di più verso quella estera e sono tanti i motivi che spiegano questa resistenza da parte della stampa italiana. In parte perché da noi le testate sono spesso spaventate dall’aspetto dei costi. A un’inchiesta possiamo lavorare per mesi a volte anni e in tanti. Spesso ci avvaliamo anche delle competenze di esperti esterni non necessariamente giornalisti (persone che ne sappiano, ad esempio, della lettura o rielaborazione di dati, matematici, hacker, accademici…). Noi giornalisti in fondo siamo dei ponti, il tramite tra chi ne sa (l’esperto) e il pubblico; noi traghettiamo le informazioni rendendole digeribili e comprensibili al pubblico.
E poi si fatica ad investire su collaboratori esterni perché i giornali fanno prima il conto sul proprio personale. L’Italia non ha una tradizione di freelance intesi come professionisti capaci di offrire un prodotto di ugual valore rispetto a quello fornito dai giornalisti assunti nelle redazioni. Nella realtà, ad esempio quella anglosassone, spesso il freelance viene pagato di più proprio in quanto esterno, da noi è considerato più spesso il ‘giornalista di serie B’ o quello disoccupato. Un altro ostacolo viene dal fatto che a volte si fatica a capire quello che facciamo e spaventa che, per affrontare questo tipo di contenuti, al lettore venga richiesto un impegno maggiore, contrariamente a ciò che richiede l’informazione di oggi.

Consiglieresti a un giovane di fare il giornalista oggi?
Sì. Credo che in questo momento ci sia un bisogno assoluto di giornalisti di qualità, persone formate che abbiano voglia di mettersi a fare un giornalismo di un certo tipo, quello che ti chiede di stare anche mesi senza pubblicare nulla ma che dopo tanta fatica, ti permette di uscire con un lavoro di valore.

Francesca Forzan

http://www.unipd.it

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