di Wanda Montanelli

Senza caste, né privilegi, né disarmonia sociale ed ecologica, è il mondo che piace alle donne in cammino verso la dolce rivoluzione.

“Tuo marito non t’ingiuria?” era la domanda ricorrente rivolta a mia sorella ogni volta che partoriva un’altra femmina. Le vicine di casa, di un paesino alle pendici del Vesuvio, dove lei per uscire dal caos della città era andata ad abitare, si crucciavano per il fatto che non era nato il maschio e aggiungevano che dopo tre femmine da loro c’era anche la possibilità che il padrone di casa appendesse una cipolla sulla porta anziché il fiocco rosa.
Sembra anacronistico questo racconto, ma di fatto non lo è, e succede ancora, nel mondo delle divisioni preconcette sulle potenzialità di genere, il rammaricarsi per la nascita di una bambina. In Italia come in Cina, o in India dove il sesso del nascituro porta ad una serie di considerazioni sull’utilizzo sociale della femmina e sull’eventuale possibilità di scartarla a priori come in qualcuna delle civiltà qui citate si fa ancora.
E allora ci si domanda se noi, Paese progredito, a parte le contrade vesuviane o di altri entroterra rurali, abbiamo la consapevolezza del valore della donna, in quanto portatrice di crescita sociale e culturale, a prescindere del fatto che potrà dedicarsi a far figli e alla famiglia. Anche perché si è ampiamente dimostrato che il mondo femminile sa procedere per vie binarie che possono pure non incontrarsi mai, e sicuramente non sono intralciate dall’essere percorse dalla stessa persona.
Senza tornare sulle indecenti percentuali di presenza femminile nei posti dove si decide, né ripetere frasi di illustri esponenti della cultura e della politica (Norberto Bobbio, Andrew Samuels, lo stesso presidente Napolitano) i quali ritengono che il mondo debba cambiare attraverso una rivoluzione pacifica condotta dalle donne, è molto semplice dimostrare che ci vorrà poco in più per essere migliori, in un mondo governato anche dalle donne, dato che peggio di così è difficile davvero riuscire a fare.
Cominciamo dal fatto che nel dominio dei maschi manca, gran parte delle volte, quello “spirito elastico” che conduce a gestire il potere in modo laborioso, vigile, e mai distruttivo. Soprattutto manca la cognizione della fattibilità di un diverso tipo d’organizzazione politica, economica e sociale. Nuova, forte, sensibile verso i diritti delle persone, e senza sconti per i fattori che portano negatività al paese.
Tra questi, se analizziamo cosa avviene da noi in Italia, in molti settori malfunzionanti che sarebbe troppo complesso qui elencare rapportato alla sconcezza degli sprechi, è presto dimostrato che non serve altro che il senso di rispetto per i cittadini perché le cose vadano meglio.
Sì perché manca proprio il rispetto. A partire dal fatto di essere divenuti, i politici italiani, ormai una casta intoccabile con un’enorme assommarsi di privilegi ai quali nessuno intende rinunciare, salvo poi riempirsi la bocca di frasi e proposte per risanare il Paese che mirano a mettere le mani in tasca ora ad una ora all’altra categoria già il più delle volte penalizzata. E’ c’è un continuo rimpallo dei malcapitati che si vorrebbe ancora dimagrire delle loro povere risorse. Si va dai lavoratori dipendenti, agli artigiani, ai piccoli e grandi professionisti, fino a paventare, ogni tanto, di voler toccare il mondo delle rendite finanziarie. Che pure dovranno essere toccate, ma dopo aver fatto l’unica cosa saggia. Uscire dal paese di bengodi.
Non sanno gli enunciatori di dichiarazioni alle agenzie di stampa che l’unico modo perché essi si rendano credibili è rinunciare ai privilegi. Non regge la scusa che se pure si risparmiasse all’osso tra gli appannaggi di governanti, parlamentari, gestori della cosa pubblica a più livelli, le cifre non sarebbero tali da risanare il Paese. Sono in ogni caso una montagna di soldi, e se pure non sufficienti, non si può chiedere ai cittadini di sacrificarsi ed essere precisi nel pagamento delle tasse quando nessun buon esempio viene dalla casta maschile ed intoccabile dei politici italiani.
“Mettete le casalinghe a governare! – dice Franca Rame – perché abituate come sono a risparmiare il centesimo per mettere a tavola ogni giorno pranzo e cena sarebbero delle ottime amministratrici pubbliche”. C’è un fondo di verità in quanto propone, un po’ provocatoriamente, la nostra senatrice, perché è certo che se al governo ci fosse un numero tale di donne da poter contare e farsi valere, sarebbe da tempo spazzato via l’indecente adeguamento ai privilegi che sembrano ormai essere concessi per unzione divina. Ecco perché “La Casta” è intitolato il libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella* che si domandano: “Che futuro ha un Paese dove il Quirinale spende il quadruplo di Buckingan Palace? Dove conviene fiscalmente regalare soldi ad un partito piuttosto che ai bambini lebbrosi? Dove gli organici di presidenza nelle regioni sono moltiplicati per tredici volte in venti anni e le spese dei governatori sono fino a dodici volte più alte di quelle del presidente della repubblica tedesco?
In nostro è il Paese in cui candidati trombati hanno fino a cinque buste paga consolatorie, e dove sono migliaia le cariche nelle società pubbliche per sistemare gli ex qualcosa. E’ una casta, una razza a parte quella di chi una volta viene eletto e poi vita natural durante ha diritto di pretendere altre sistemazioni. Non discutiamo poi dell’agevolazione di ottenere la pensione in pochissimo tempo, mentre i salariati, usurati o no, comunque prima di sette lustri non maturano nulla.
La gente è stanca di benefit, auto blu, viaggi a spese dei contribuenti, lusso sfrenato alla faccia dei cococo e dei lavoratori senza futuro.
Buckingan Palace ha i conti on line. La regina Elisabetta descrive nei dettagli tutto quanto spende, fino all’ultimo centesimo. Da noi il bilanci del Quirinale sono vietati ai cittadini.
Questione di cultura. Giorgio III nel 1760, trent’anni prima della Rivoluzione francese, cedette al Tesoro i beni della monarchia in cambio di un appannaggio annuale detto della “Civil List”.
Ma anche da noi, i tempi delle “pere indivise” dovranno finire, se ha un senso il vecchio racconto di Ennio Flaiano sulla ricerca, da parte del presidente Einaudi, di un commensale che, durante una cena dividesse con lui una pera troppo grossa. Per non sprecarne la metà. Dopo di lui, non ci si è più preoccupati di risparmiare e rispettare il valore delle cose e la precarietà di molti, troppi italiani.

*La Casta, S. Rizzo, Gian A. Stella, Rizzoli, giugno 2007

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