di Luisa Caeroni
Con il proposito di spolverare laddove la mano non arriva mai, rinvenni vecchie cassette sonore che in tempi lontani e in momenti di ritrovata precisione, avevo riposto in una scansia. Una di queste cassette riportava la scritta Beethoven con voci in sottofondo. Incuriosita mi affrettai ad inserire il nastro in un vecchio lettore non ancora pronto per la discarica e mi misi in ascolto.
Durante la riproduzione della musica udii per diversi minuti i miei genitori conversare tra di loro e ripetuti piagnucolii di un bambino. Mi ricordai che mio padre amava registrare la musica classica o le opere liriche dalle trasmissioni radiofoniche e uno squarcio su quei tempi così lontani mi fece commuovere. Le parole non si distinguevano, neppure con l’orecchio appiccicato al riproduttore, ma dal tono pacato delle voci dialoganti si intuiva la qualità della loro vita condivisa. Affermare che da un interloquire con parole indistinguibili si possa captare il pregio di un’unione consolidata, potrebbe sembrare esagerato. Non è così: succede spesso che il tono della voce preluda il contenuto del discorso, anche se non sappiamo approfittare della magia dell’intuizione.
Comunque sia, queste voci mi riempierono di turbamento: una gioia mista a tristezza per familiari che ho tanto amato. Così in un momento ricomposi il puzzle. I vagiti del bambino erano di mio figlio che veniva loro affidato nelle mie ore di lavoro.
La sera rincasavo a lunghi passi sapendo che i miei genitori mi attendevano con ansia. A volte entravo di soppiatto e sostavo qualche secondo dietro la porta ad origliare, poi al momento buono: “Cettete”, con un balzo mi addentravo nella stanza. Nonni e nipotino ridevano felici: ”Ecco la mamma, la mamma!”
Quando ero fuori per lavoro, si occupavano i nonni di Andrea. L’impegno maggiore toccava alla nonna, ma anche il nonno era prezioso supporto, nonostante la sua ormai cronica mancanza di respiro. Per tenere tranquillo il bimbo, raccontava, con tutta l’enfasi di cui era capace, storielle inventate lì per lì, oppure inseriva una cassetta nello stereo e scandiva con le mani il ritmo della musica. Se invece le forze scarseggiavano, prendeva un libro di favole e leggeva. Quante volte li avevo pescati in quella simbiosi! Il nonno con la sua voce da attore protagonista e Andrea, attento a non perdere l’epilogo della fiaba.
-Padre, io ti ricordo così. Appoggiato con entrambe le braccia al tavolo, con i tuoi capelli ancora folti, ma tutti bianchi; con i tuoi grandi occhi azzurri che il tempo smorzava nella lucentezza senza attenuarne l’espressività; con il tuo respiro difficile; con la tua voce cavernosa che imponeva attenzione; con le tue mani scarne che mi accarezzavano la nuca; con il tuo sorriso bonario; con la tua voglia di affetto; con il tuo desiderio di distribuire a tutti un po’ di amore.
Padre, io voglio ricordarti così, com’eri negli ultimi anni della tua vita. Quanto non fu facile la tua esistenza! Ma ora è tardi per poterti testimoniare.-
Giuseppe era un uomo originale, con una personalità vigorosa ed estroversa. Non voleva essere secondo a nessuno. Al momento giusto sapeva intraprendere rapporti di simpatia e amicizia con chiunque. Era capace di grandi inventive che realizzava concretamente, ma anche di considerevoli negligenze. Quando una cosa lo interessava, sapeva essere il primo, come era capace di sottrarsi a responsabilità in situazioni a cui non voleva dare il giusto peso. Fin verso l’età matura succedeva che si lasciasse prendere dall’ira in modo incontenibile, ma subito dopo riversava sulla persona colpita una cascata di affetto e di comprensione. Trascinava indifferentemente il suo prossimo nella gioia e nel dolore. I suoi figli da piccoli lo temevano e non riuscivano a capire la profondità del suo affetto; da adulti non seppero apprezzare appieno la grandezza del suo animo.
Giuseppe nacque quando ancora la prima guerra mondiale devastava i corpi degli uomini al fronte, gli animi dei sopravvissuti e le già scarse risorse della gente comune. Sua madre si era spostata, dalla pianura mantovana, dove era nata, per lavorare in una delle numerose fabbriche tessili della Valle Seriana. Qui incontrò il futuro marito e padre dei suoi figli. Era una donna dolce e taciturna, piccola e gracile. La sua salute si rivelò presto precaria per una grave cardiopatia manifestatasi dopo pochi anni di matrimonio. Con il passare del tempo, molte amarezze peggiorarono le sue condizioni fisiche, finché prematuramente e lasciando uno struggente vuoto nei suoi figli, abbandonò questo mondo.
Il padre di Giuseppe era al contrario un uomo duro, abituato a dirigere le operaie nella filande, obbligato per la mansione a lasciare da parte ogni tipo di comprensione per gli altri. La durezza del suo ruolo la replicava a casa con i figli: imponeva la sua autorità senza la minima indulgenza. Erano tempi in cui si riteneva che l’uso del bastone fosse efficace e non si conosceva la contropartita della carota.
“C’erano sempre botte a casa mia. Mio padre mi picchiava anche quando mangiavo in fretta, ma se mangiavo lentamente, sosteneva che uno pigro a mangiare è anche pigro a lavorare e mi picchiava. Quante botte ho preso!. Di notte, mentre i miei fratelli ed io dormivamo, faceva bliz rivoltando all’improvviso le coperte. Per noi non c’era mai un sorriso, un gesto di tenerezza, mai.”
Così Giuseppe racconterà dell’atmosfera che regnava in casa sua.
Giuseppe era il quarto nato dopo due maschi ed una femmina. La bambina era adorata dai genitori, perché femmina dolce e mansueta e perché andò manifestando fin dai primi anni una genialità da essere considerata un vero e proprio fenomeno. Mio padre aveva otto anni quando un luttuoso avvenimento trascinò la sua casa nella disperazione e introdusse una notevole recrudescenza nel carattere aspro del papà e silenzioso della mamma. In un pomeriggio caldo ed assolato un carro schiacciava sotto le ruote la ragazzina che, pochi istanti prima, vi si trovava sopra, senza che alcuno potesse ben definire la dinamica dell’incidente. La figlia prediletta dei Gualtieri era stata sottratta tragicamente ad una famiglia che solo attraverso lei riusciva a trasudare gocce d’amore.
Dopo questo dramma, la vita dei fratelli Gualtieri divenne insostenibile, tanto che a turno progettarono la fuga. Il primogenito, dal carattere pacato e sottomesso, non ebbe mai la forza di scappare. Il secondo figlio, a 11 anni fuggì verso Milano da parenti che gestivano un’officina per la riparazione di motori. Dopo che i genitori l’ebbero ripescato, ottenne di vivere dagli zii per imparare il mestiere di meccanico.
Giuseppe aveva soli nove anni quando decise di emulare il fratello. Preparò di nascosto un fagotto con qualcosa da mangiare e di buon mattino prese la via della campagna. La sua fuga non durò a lungo. I genitori mobilitarono tutti per ritrovare il piccolo scomparso e verso sera lo ripresero a 15 chilometri di distanza, sulla strada per Milano che era la direttrice passante fuori casa. Al rientro il padre lo riempì di botte, ma a lui dolse soprattutto il sapore amaro della sconfitta.
Il ragazzo era di natura ribelle e le percosse non riuscirono mai a piegarlo. Sua madre cercava di proteggerlo per risparmiargli un po’ di malmenate e umiliazioni, ma l’irrequietezza del figlio non facilitava il suo compito di mediatrice.
Il giorno di chiusura delle scuole è sempre una gran festa per i ragazzi, nelle vacanze si pensa solo al gioco e a godersi la libertà. Quella volta Giuseppe non stava più nei panni dalla gioia; aveva terminato con successo gli esami di quinta elementare ed era stato premiato con un bel paio di scarpe nuove. Due eventi insieme non di poco conto: il termine della scuola e un gesto d’amore di suo padre. Le scarpe bene o male le aveva sempre avute, ma a quella dimostrazione d’affetto di suo padre non c’era abituato. Per la prima volta gli si era avvicinato con confidenza e lo aveva elogiato.
“Sei stato promosso con buoni voti e questo è un bel paio di scarpe per te.”
Il ragazzino non seppe ringraziare in modo adeguato, anche se gli sarebbe piaciuto. Con la testa bassa e rosso in viso per l’emozione, prese le scarpe e balbettò:
“Vado all’oratorio a mostrarle ai miei amici”.
L’uomo si rabbuiò com’era suo costume:
“Ti raccomando, non rovinarle, se torni con le scarpe sciupate facciamo i conti!”
Giuseppe si presentò ai suoi compagni di gioco ostentando con orgoglio quanto erano belle le scarpe che aveva ai piedi, poi, come sempre, iniziò a giocare a football: nel ruolo di attaccante non c’era nessuno più bravo di lui.
Quel pomeriggio i suoi compagni si attardarono nella gara; il buio era ancora lontano quando Giuseppe si accorse che a quell’ora avrebbe dovuto essere già a casa. Sulla via del ritorno si accorse con disappunto che una delle due scarpe aveva una scucitura su di un lato. Fu colto dalla disperazione. Come poteva ritornare da suo padre e nascondere quello scempio. Quanto sarebbe stato picchiato per quella disgraziata circostanza. Meditò sul da farsi e, arrivato davanti a casa, decise di non varcare quella porta. Proseguì verso la campagna. I suoi l’attesero inutilmente.
Lo cercarono la notte e il giorno successivo, ma non rinvenendo traccia del ragazzo i genitori si misero veramente in allarme e chiesero ai carabinieri di intervenire nelle ricerche. Non avrebbero dovuto cercare molto lontano perché il fuggiasco era nascosto in un pollaio a pochi passi da casa. Dopo la seconda notte, preso dai morsi della fame e intirizzito dal freddo per i pochi indumenti indossati, ritornò sui suoi passi. All’uscio di casa il ragazzo si affacciò con il sorriso di chi fa buon viso a cattivo gioco; di chi non può mostrare di essere battuto e sa che l’aspettano cose turpi. Si era rassegnato ad affrontare le ire del padre, ma contrariamente al previsto, nessuno lo aggredì. Gli occhi della mamma erano comprensibilmente tristi e inaspettata la tenue reazione del padre. Giuseppe maturò così l’idea di aver tanto spaventato i genitori con la sua fuga, da spingerli ad essere più comprensivi nei suoi riguardi. Solo il fratello maggiore, seminascosto dietro l’angolo della credenza, aveva gli occhi sbarrati e persi nel vuoto. Il piccolo gli fece un risolino di convenienza senza aspettarsi alcuna reazione; poi si accorse che quegli occhi inebetiti erano anche un po’ arrossati, come quelli di chi ha appena smesso di piangere. Non poteva certo immaginare il significato di quelle lacrime e nemmeno si pose il problema, tanto era la confusione in quel momento.
La sera mangiò abbondantemente e si coricò con il pensiero che gli era proprio andata bene: non si sarebbe mai aspettato tanta premura dopo una marachella così grossa. Aveva dato una bella lezione a suo padre! Si addormentò e dormì profondamente.
Il mattino seguente fu svegliato di buon’ora. Gli ordinarono di lavarsi con cura e di indossare gli abiti migliori. Giuseppe non chiese spiegazioni ed obbedì. Il padre impugnò una valigia dove erano risposti molti indumenti del figlio ribelle, preparata chissà quando e gli disse:
“Saluta tua madre e tuo fratello.”
“Perché?” chiese impallidendo il ragazzino.
“Ti aspetta San Carlo.”
“San Carlo?”
“Si, San Carlo. L’hai voluto tu.”
San Carlo era chiamato collegio, ma si trattava di un riformatorio. Era un complesso sorto per volontà di un sacerdote che nei primi dell’800 andava raccogliendo per strada i ragazzi senza famiglia e li teneva in casa propria. Poi alcuni benefattori permisero la costruzione e il funzionamento di una grossa struttura. Così San Carlo divenne un centro di raccolta di ragazzi abbandonati e traviati. I fanciulli erano educati ai principi della religione e veniva loro insegnato a leggere, scrivere e fare di conto. Apprendevano pure lavori artigianali come il calzolaio, il fabbro, il falegname, il sarto. Con gli anni però divenne un vero e proprio collegio di rieducazione.
Era consuetudine dei genitori, quando i figli combinavano qualche guaio, minacciarli: “attento, ti mando a San Carlo”. Oggi quel collegio non esiste più. In quel luogo sorge un centro residenziale di prestigio il cui ingresso, mantenuto nella struttura originale, riporta la vacua epigrafe ‘porta quae vitae accipit patriam petentes omnes’.
Giuseppe aveva undici anni e mezzo quando fu buttato nella peggiore mischia per sette lunghi interminabili anni. Egli nominerà più volte quel posto ai suoi figli. “Sette anni sono stato a San Carlo e quello che ho subito là dentro non si può raccontare”. Essi non capivano, la cosa non li riguardava. Non potevano immaginare che ‘là dentro’ qualcuno fu stuprato e piegato nell’orgoglio a suon di percosse. Non potevano immaginare come, umiliazioni e maltrattamenti inturgidirono il carattere di un bambino di undici anni e mezzo. Non potevano immaginare attraverso quali tormenti in quella giovane vita si delineò in modo indelebile la mappa del suo divenire uomo.
Luisa Caeroni
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