di Lionello Sozzi (per Maurizio Fontana)
rec. di Claudio Angelini Jero

Leggendo il libro, per tanti aspetti avvincente, di Lionello Sozzi “Il paese delle chimere” (Sellerio editore, pagg.420, € 24), non abbiamo potuto reprimere memoria delle conclusioni cui giunge Platone nel “Filebo” (IV secolo a.C.) indagando sulla natura e il significato del piacere. Egli afferma che nel mondo è in atto un processo di tutte le cose verso la sostanza, o perfezione, che è il vero piacere, o Bene; tale processo è ricerca che, sottoposta alla scienza, può superare il relativismo dell’opinione e attingere la verità; il piacere più grande consiste nel riconoscere con l’intelligenza una cosa vera e buona. Questo Platone sosteneva contro i sofisti, per i quali il piacere è al di fuori d’ogni ordinamento politico e umano e rimesso solo all’arbitrio dell’individuo. Perché ci tornava in mente tutto questo? Perché nel libro di Sozzi vengono genericamente definiti “chimere” i vari modi adottati dall’uomo nei secoli per rasserenare il proprio animo distogliendolo dal duro lavoro al fine di confortarlo nella contemplazione d’immaginarie “sovrarealtà”, opposte alla concretezza quotidiana, in cui tutto sia bello, ordinato, piacevole, corrispondente ai desideri più riposti del cuore umano. Ma ecco subito un problema d’ordine logico, o metodologico: l’uomo, con questo sistema, raggiunge o no lo scopo suddetto? Da come Sozzi presenta le cose si direbbe di sì. “Contra factum non valet argumentum”. Se l’effetto è raggiunto allora vuol dire che la sostanza di quelle “sovrarealtà”, o illusioni, non è poi tanto chimerica. E vorrebbe anche dire che, per quanto effimero e inappagante possa essere, il piacere nella vita umana esiste, è una realtà, non solo parvenza. Realtà che, per esser considerata seria, deve essere vagliata dalla critica non solo estetica, ma anche etica. Donde, l’attualità di quelle frasi di Platone che, formulate agli albori della conoscenza scientifica, sembrano già contenere tutti gli sviluppi della questione. Che è filosofica, quindi, non tale da poter poggiare solo su semplici, benché coinvolgenti, divagazioni. Questa è, secondo noi, la condizione che l’autore non si è preoccupato molto di garantire al suo discorso: assicurarlo su basi razionali più solide, conferendo al suo articolarsi maggior connessione e progressione. Senza tale presupposto, in che modo, ad esempio, si risponderebbe a una domanda come questa: “E’ da escludere che lo stesso lavoro abituale possa essere, o divenire, per l’uomo, di per sé un piacere? “ Ma muovendo ora dall’esperienza speculativa e umana d’un altro scrittore, che è figura centrale in un dibattito come questo, e cioè il Leopardi, allora potremmo impostare così la questione. Per il poeta di Recanati, il piacere esiste o no? L’uomo può farne esperienza, o è mera illusione? L’uomo, dice il Leopardi, per natura anela alla felicità, o piacere, che però egli vorrebbe fosse, per definirlo autentico, illimitato nella durata, e nell’estensione, quindi non circoscritto a questa o quella breve sensazione ma contenente in sé tutti i piaceri immaginabili. Poiché invece ogni piacere ha un limite, la ricerca di esso, rimanendo inappagata, genera infelicità. Posizione massimalista, se vogliamo, quella del poeta: o si ha tutto, o è come se non si avesse niente. Potremmo anche esprimerla così: ciò che dura, ciò che è eterno, è reale; ciò che non dura è illusione, perché (forse) non esiste. Probabilmente il Leopardi non s’accorse d’aver manifestato in questo modo una fortissima esigenza di metafisica, il cui senso ultimo (ma non a tutti chiaro) è proprio questo: solo ciò che è eterno, esiste. A ben guardare, è un problema insidioso; poiché nessuno di noi è eterno, può sperare di fondare un’etica permanente dell’istinto, dal momento che anche il più forte è destinato a esser fiaccato dalla vecchiaia e dalle malattie, bisognoso quindi dell’aiuto del più debole. E’ quello che non capì Nietzsche. Lo aveva intuito invece l’antico Platone, come abbiamo accennato, dichiarando che unicamente appagante per l’uomo è la pratica della virtù e della verità. In un mondo dunque dove inevitabile è il decadimento fisico, la sofferenza, la morte, il cristiano sperimenta la soddisfazione, la gioia più alta nell’ ordine morale: lenire il dolore degli altri nella speranza, legittima, che qualcuno lenisca il suo. Ciò tuttavia non toglie che esistano anche dei piaceri materiali, non meno legittimi, se intesi come momenti intermedi nel corso d’una vita laboriosa ed onesta. Ma riferiamoci particolarmente all’attività d’un artista, poeta pittore musicista; proprio costoro sono i più pronti a evocare nelle loro opere sentimenti quali malinconia, nostalgia, passione, sino a farne la sostanza stessa dell’arte. L’arte finisce con l’essere espressione del dramma dell’uomo, l’eterno insoddisfatto, colui al quale la realtà sfugge in perpetuo, colui che vorrebbe vivere in una realtà soprasensibile dove tutto sia più conforme al suo anelito. E l’arte, figlia della natura, non è stata inventata proprio per questo? Perché rappresenti ai sensi dell’uomo una natura, un mondo più armoniosi, più rivolti a un fine preciso, anziché quell’informe caos che spesso sono? A chi non torna all’orecchio il famoso verso di Baudelaire, “il vegetale irregolare”? E quel fine non può essere che l’edificazione sensibile e spirituale dell’uomo, la sua felicità, insomma, perché l’artista dà vita a una natura immaginaria ma sempre conforme alle sue umane esigenze. Altrimenti non sarebbe arte. Dunque (come negarlo?) l’arte è fonte di piacere; la poesia, la musica, la pittura saranno anche veicolo di struggimento e di pathos, ma certamente elevano l’animo verso sublimi altezze.
Sozzi, sin dal capitolo introduttivo al suo volume, ci ricorda la suggestiva affermazione di Rousseau, secondo cui il paese delle chimere è l’unico degno di essere abitato (e Leopardi per tutto un periodo della sua vita consentirà con lui); più avanti distinguerà fra illusione e utopia, quest’ultima avendo più connotazioni di carattere politico e ideologico. Tanti regimi politici, ritenuti utopici, hanno nella storia avuto applicazione presso le nazioni. Per l’illusione, il discorso è più complesso, perché essa, dicevamo, è già per metà applicata; applicarla per intero, questo sembra impossibile. Strano che Sozzi non faccia, a proposito d’utopia politica, il nome di Machiavelli, di certo il più eloquente esempio di pensatore in cui il massimo del realismo convive con, forse, il massimo dell’utopismo. Riguardo al caso dell’illusione poetica, riteniamo estremamente significativo l’episodio del giardino di Armida, nella “Gerusalemme” del Tasso, peraltro citato e ben commentato da Sozzi. In esso infatti è palpitante e commovente il discorso del poeta sul trascorrere inesorabile del tempo, ma è anche affascinante la trasfigurazione sentimentale di tutto ciò che trascorre, nella natura. Donde una poesia altissima, che è malinconica, indubbiamente, ma che crea intorno al lettore la suggestione d’un mondo incantato, dove il tempo e lo spazio sono “altri” da quelli fisici. Nel capitolo primo, dove si parla dell’illusione diabolica, cui l’uomo soggiacque sin dall’inizio della sua storia, Sozzi sviluppa ed estende il tema già impostato. Le immagini seducenti del mondo, dice egli in sostanza, sono atte a dar l’illusione di quanto sarebbe bello vivere possedendole per sempre. Ma anche se vi riuscisse in minima parte, l’uomo, ben lo sapeva Leopardi, si espone alla triste realtà della noia, essendo la sua psiche inadeguata a contenere e a vivere la molteplicità del piacere, che è concetto trascendente, al di sopra dell’umana comprensione. E tuttavia il serpente sedusse Eva promettendole l’eternità. Altre volte illusione, fantasia e tendenza alla realtà sembrano coordinate l’una all’altra. Che meraviglia fa se Montaigne, il grande razionalista e scettico del Cinquecento, riprendendo per caso Platone, asseriva che “… la nostra veglia è più addormentata del sonno, e la nostra saggezza meno saggia della follia”? Voltaire, e gli altri filosofi illuministi, ben si ricorderanno del solitario saggista di Bordeaux e del suo razionalismo analitico; del suo scetticismo non troppo. Con fare in apparenza sprezzante, l’autore del “Dizionario filosofico” esclama: “O Platone, non hai creato che delle favole…“ Ma quanto furono utili, quelle favole, nel secolo dei lumi, per aver “fede” nella ragione, cioè in una realtà delle cose alternativa all’ordine vigente! Dopo aver esposto, nei capitoli successivi, varie fasi dell’evolversi dell’illusione nella letteratura europea e occidentale (l’illusione che il mondo sia immagine d’una realtà superiore spirituale e perfetta, o la convinzione romantica secondo cui la natura non è altro che il segno d’un assoluto, trascendente o immanente), Sozzi cerca di ricavare dalla sua ricerca, e dalla messe delle sue citazioni, una conclusione soddisfacente. A tal fine, si chiede come possano, da errori e da inganni, nascere positive acquisizioni, indispensabili al compiersi di quelle che il Leopardi (sempre lui!) chiamava “magnifiche sorti e progressive”. Ed arriva a consentire con noi. “ Più convincente è pensare che (…) errore e (…) inganno in realtà non erano tali, che almeno in parte nascondevano una verità. Le chimere, trasvolando (…) sulle vicende degli uomini, vi lasciano un segno, hanno un senso che è misterioso (…) ma non del tutto indecifrabile.”

Claudio Angelini Jero
http://www.claudioangelini.it

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