di Wilma Vedruccio

Abele il suo nome, corporatura massiccia, semplice, affamato sempre.
La colazione del mattino, prima che uscisse con gli animali al pascolo, era uno dei compiti quotidiani più impegnativi per la giovane massaia.
Aveva provato con la zuppa di pane nel latte di pecora, caldo, appena munto, ma non bastava a riempire la voragine dello stomaco di quell’uomo, buono, forte, laborioso ma insaziabile. Non poteva cu-cinare pastasciutta di prima mattina, benedetto Iddio!
E poi doveva essere un pasto bastante a dare energia per tutte le ore del pascolo fino a sera, dopo il rientro del gregge al crepuscolo, dopo la mungitura, quando avrebbe mangiato da cristiano.
Sì, preparava anche qualcosa per le ore del giorno, uova sode, un pezzo di formaggio, due fette di pane, un po’ di frutta secca, ma il problema rimaneva al mattino, per la colazione erano gli scrupoli della donna.
Il pancotto fu la sua salvezza, un pentolone di pancotto caldo, cremoso e profumato che prepara-va al fuoco appena acceso nel mattino.
Tagliava a grossi pezzi una puccia di grano (se la provvista era finita, frantumava friselle), condiva con olio, sale, alloro, ricopriva d’acqua e metteva la pentola sul treppiede, soffiava sul fuoco che ancora non aveva preso e faceva fumo. A volte l’acqua era un problema a quell’ora, era finita ed era troppo fred-do per andare al pozzo, Abele si prestava a tirarla su e portarla in casa e intanto pregustava ciò che per lui si cuoceva.
Se il fuoco aveva preso, bastava poco perché il pancotto si amalgamasse e allora lo scodellava in un grande piatto bianco smaltato dove andava intiepidendo, trattenuto a malapena dall’orlo smaltato di blu del piatto.
La cucina veniva invasa dall’odore di buono che si sprigionava da quel piatto regale e intanto la crema di pane, colata di lava, si rapprendeva in superficie, nel mentre la bimba, silenziosa gattina, raschia-va e gustava la crosta dal tegame.
Si sedeva alla mensa l’Abele e, con piglio silenzioso e solerte, dava via alla fatica mattutina: col cuc-chiaio impugnato come uno scettro, da un angolo procedeva nell’avanzata e alla conquista di quel regno di pane, pochi grugniti per dire il piacere, brevi pause per rallentare la fine, un sorriso sornione ad accompa-gnare il suo “grazie” a cui l’allegro “prego” della donna faceva da contraltare. Il piatto bianco e vuoto, con l’orlo blu di smalto quale cornice, chiudeva la scena.

Wilma Vedruccio, La casa del sale, Storie di un altro Salento, Edizioni Kurumuny, 2013

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