Che cosa è superato è che cosa è attuale nel pensiero politico di Dante Alighieri

(Relazione svolta dal professor Claudio Angelini il 12 0ttobre 2008 nelle sale dell’hotel Bristol di Fiuggi (Frosinone) in occasione del Convegno d’autunno dell’Associazione ANPOSDI)

Non sembri fuori luogo parlare di Dante, del suo pensiero politico, in una riunione dell’Anposdi, associazione che intende salvaguardare e promuovere i dialetti d’Italia. Al riguardo voglio ricordare, infatti, che Dante fu il primo, nel nostro paese, che tentò, nel “De vulgari eloquentia”, una classificazione sistematica dei vari dialetti italiani. Inoltre, vivendo noi tutti oggi in un mondo che si definisce “globalizzato”, pur nel rispetto delle realtà locali rappresentate dai dialetti, intendo dimostrare con rapidi accenni (il tempo, al solito, è tiranno) che Dante già nella sua epoca intuì la necessità, per la coesistenza di culture diversissime all’interno d’un unico organismo che egli chiamava impero, d’una politica sopranazionale. Ma procediamo con ordine.
La vicinanza al luogo in cui ci troviamo della ridente cittadina di Anagni ci riporta alla mente un fatto che Dante rievoca nel XX canto del Purgatorio, il cosiddetto “Schiaffo d’Anagni”, verificatosi nel 1303, quando il potere imperiale in Italia era ormai in declino, e lo stesso potere papale, che pure aveva trionfato sull’impero, nella Lotta per le investiture, vede, nella figura di papa Bonifacio VIII, l’ultimo grande pontefice del medio evo. Dopo di lui, una lunga crisi travaglierà la Chiesa: il periodo della cattività avignonese, e lo scisma d’occidente. Cos’era dunque successo, nel 1303 ad Anagni? Parlando brevemente di quegli eventi potremo illustrare per sommi capi il pensiero politico di Dante, quale si ricava dal “Monarchia”, pensiero che era destinato poi a confluire nella “Commedia”, che ne rappresenta anche il superamento. Bonifacio VIII fu il papa che nel 1300 indisse il primo anno santo, o giubileo, della storia; suo scopo era affermare sul mondo il potere della Chiesa, dispensatrice per l’uomo, mediante il sacramento della penitenza, di salvezza o di dannazione eterna. Nel 1303 lo stesso papa promulga la famosa Bolla “Unam Sanctam” nella quale sosteneva la superiorità assoluta del potere papale su ogni altro potere della terra. Erano dichiarazioni che Dante non poteva accettare. Egli, il “ghibellin fuggiasco” sostenitore dell’impero, riteneva Bonifacio VIII uomo corrotto e indegno successore di Pietro. E tuttavia, nei versi del XX canto del Purgatorio, “ … veggo in Alagna entrar lo Fiordaliso / e nel vicario suo Cristo esser catto” si avverte lo sdegno del poeta contro il re di Francia Filippo IV il Bello e i suoi uomini di potere, in particolare Guglielmo di Nogaret e Sciarra Colonna; proprio quest’ultimo avrebbe inferto al papa l’umiliazione dello schiaffo. Bonifacio VIII, con tutti i suoi difetti, era pur sempre il rappresentante di Cristo in terra; come tale, la sua figura era sacra e inviolabile, da qui la condanna senza appello di Dante del gesto oltraggioso, segno che il poeta, pur mosso anch’egli da vivaci passioni, cercava sempre di giudicare ogni cosa con obiettività. La discordia fra il papa e il re di Francia era scoppiata quando Filippo IV, per finanziare le varie sue guerre, e in particolare quella che s’andava profilando spietata e immensa contro l’Inghilterra, la “Guerra dei cento anni”, aveva deciso di suo arbitrio d’incamerarsi in Francia i beni ecclesiastici, soprattutto quelli del ricchissimo ordine dei Templari, che furono da lui pressoché sterminati. Ma tornando alle affermazioni di Bonifacio VIII, contestate da Dante, il papa, a suffragio della sua tesi, adduceva argomenti scritturali, quale quello ad esempio del sole (il papa) e della luna (l’imperatore), oppure storici, come quello, poi rivelatosi del tutto falso, della donazione dell’imperatore romano Costantino a papa Silvestro I. Dante contro tutto ciò afferma che solo con l’impero si raggiunge la felicità sulla terra, felicità che nel suo poema è configurata dal Paradiso terrestre, al termine del Purgatorio. A Dante da San Tommaso veniva l’idea che l’impero, favorendo nell’uomo lo sviluppo delle virtù etiche e dianoetiche, cioè razionali, è quasi il presupposto delle virtù cristiane. E tuttavia la separazione fra i due poteri, quello politico e quello spirituale, nel “Monarchia”, è netta e totale. Dante non fu eccessivamente influenzato dalla visione del mondo di S. Agostino, quale emerge dal “De civitate Dei”, e cioè che la legge di Dio si attua lentamente nella realtà storica, fino a sostituire del tutto la legge dell’uomo, cosa che però avverrà alla fine dei tempi. Del resto, il poeta respingeva decisamente anche un altro giudizio del santo di Ippona, e cioè che l’impero di Roma fosse crollato perché fondato su iniquità e ingiustizia. Ma Dante era davvero così infatuato dell’idea d’un impero d’origine straniera, tedesca, qual era il Sacro Romano Impero? Nel “Monarchia” egli dice che l’ impero per antonomasia era stato quello attuato nella storia del mondo dalla città di Roma, che era a ciò predestinata. Comunemente, quando si afferma che il pensiero politico di Dante è superato, ci si riferisce al fatto che egli sosteneva l’idea imperiale, incarnata allora dal Sacro Romano Impero, fondato da Carlo Magno nell’800 ma poi passato a dinastie germaniche. Si vuol dire così che egli non avesse percepito l’impero come istituzione ormai superata, e che le realtà del futuro erano quelle locali, i Comuni, (come aveva intuito il Petrarca), destinate a evolversi in Signorie e Principati. Ma Dante non era così ingenuo. Nel canto XV del Paradiso, quando parla del suo antenato Cacciaguida, ricorda come un comune italiano, quello di Firenze, potesse essere saggiamente amministrato nei tempi andati ( verso l’anno mille ) grazie agli antichi ideali civili e religiosi, pur essendo già attivamente inserito nell’ordine politico dell’impero. Ebbene, dietro tutto questo è presente un pensiero (non espresso nel “Monarchia”) più moderno di quanto si possa credere. L’impero è istituzione che ispira fiducia a Dante solo se concepito secondo principi romani, consistenti nel valorizzare e assimilare la cultura del “diverso”. Non c’è dubbio che Dante, in tal modo, prefiguri e precorra il concetto di sopranazionalità, o governo “super partes”, da cui provenga un organismo politico in cui possono coesistere le popolazioni e le culture più varie, ognuna delle quali dia un contributo a tale organismo, e in cui sia possibile praticare le virtù etiche e dianoetiche su accennate. Roma per la prima volta nella storia, infatti, al contrario di quello che facevano altre nazioni, che sterminavano i popoli conquistati per paura del diverso (secondo il principio dell’ “O sei come me, o non sei“) ebbe rispetto delle civiltà straniere, dei loro usi e costumi, da assimilare, non da estirpare. Fu questo un principio assolutamente innovativo nella storia delle nazioni. Lo stesso San Tommaso ammette che se così non fosse stato, non avrebbe potuto diffondersi la nuova civiltà cristiana. E tuttavia nel “Monarchia” Dante , abbiamo detto, sostiene che potere temporale e potere spirituale agiscono su piani totalmente distinti. Ma questa è certamente la parte più caduca e fragile del pensiero politico dantesco, perché ne discenderebbe che la felicità terrena sia fine a se stessa. Tale dovette essere l’idea di Dante infatti relativamente al periodo in cui il “Monarchia” fu composto; il suo pensiero pertanto si trasfigura e riassume tutto nella Commedia. Del resto, l’episodio dello schiaffo d’Anagni fornì a Dante occasione per una rimeditazione sul significato, a questo mondo, del potere politico in generale. Quello che non era riuscito a vari sovrani tedeschi, cioè sottomettere il papato, né a Enrico IV che nel 1077 dovette umiliarsi a Canossa a Gregorio VII, né a suo figlio Enrico V che dovette accettare il Concordato di Worms (1122) a conclusione della Lotta per le investiture, né a Federico Barbarossa sconfitto a Legnano dai comuni lombardi nel 1176, né infine a Federico II di Svevia, detto lo “Stupor mundi”, il cui partito fu definitivamente travolto a Benevento nel 1265, riuscì invece a un re di Francia, la nazione primogenita della Chiesa, Filippo IV. Costui si impossessò dei beni ecclesiastici, umiliò Bonifacio VIII e costrinse papa Clemente V a trasferirsi in Francia, ad Avignone. E Dante, che tanto aveva auspicato nel 1311 la discesa in Italia di Enrico VII, dopo il fallimento dell’impresa di quell’imperatore, dovette in parte rivedere le sue idee a proposito dell’impero e dei suoi fini. Il “Monarchia” era stato concluso nel 1315, proprio poco dopo la morte di Enrico VII (1313). Orbene, la Commedia fu conclusa poco prima della morte del poeta, avvenuta nel 1321. E non vuole essa dimostrare che ogni ideale umano, anche di felicità, perde valore e significato quando l’uomo si pone in una prospettiva eterna? Se con la netta separazione fra i due poteri Dante sembra anticipare qualche aspetto del pensiero laico europeo (autonomia della politica dalla religione, ecc.), con la Commedia egli ha un unico fondamentale obiettivo: riportare l’uomo caduto nel peccato, qualunque uomo, anche l’imperatore, anche il papa, sul cammino della redenzione cristiana. Si è scritto di tutto, sul significato e sul fine del capolavoro dantesco, che però in fondo si riduce a questo. Infine, ricordiamo ancora, egli sostiene che il vero impero, o potere politico in generale, sull’esempio di Roma, deve mirare a valorizzare le varie culture, non ad annullarle. L’apporto di ciascuna è infatti indispensabile alla sopravvivenza di tutte. E questa è una concezione del potere rivelatasi attualissima, ripresa infatti dalla politica di oggi quando vuol essere politica illuminata, quando cioè va alla ricerca di ciò che unisce e affratella le popolazioni più varie, non di ciò che le divide.
Oggi, grazie alla scienza e conoscenza globalizzata, la cultura, la mentalità di popoli diversi da noi non è più un mistero. Il problema semmai consiste essenzialmente in un punto: accettarla. Spesso vediamo in che modo reagiscono culture tanto diverse quando vengono in contatto fra loro; l’intolleranza è in agguato. Bene, proprio la scienza oggi, col sussidio della tecnica, ci dovrebbe convincere d’un fatto, a prescindere da ogni differenza, e cioè che sussistono esigenze fondamentali uguali per tutte le genti e nazioni della terra: la libertà, la giustizia, la sacralità della vita, i diritti individuali, il rispetto reciproco e così via. Nella Commedia di Dante, potere politico e potere religioso finalmente convergono e collaborano ad un unico fine, pur restando ciascuno dei due autonomo rispetto all’altro: la trasformazione dall’interno della realtà di questo mondo, in senso cristiano, con conseguenti progresso, benessere, e felicità dell’uomo. Ovviamente, per i credenti, la piena felicità umana si realizza nel mondo dello spirito. L’invito di Dante è comunque all’azione; gli ignavi, per lui, come sappiamo, sono gente che è come se non fosse mai vissuta. Accogliamo dunque di buon grado il messaggio che da sette secoli ormai continua a trasmetterci l’Altissimo poeta.

Claudio Angelini
http://www.claudioangelini.it

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