“Il pescatore di parole,” ci scrive Elettra, è «un breve “racconto,” che in realtà non è un racconto ma una specie di “dichiarazione d’amore” per le parole.» Esso è stato pubblicato in Storie di Eglia (narrativa), Montfort & Villeroy, Montréal, 1998 e qui riprodotto per gentile autorizzazione.

Un giorno le parole si ribellarono e si buttarono in mare. Non tutte avevano lo stesso motivo: alcune dichiararono che l’uso continuo gli aveva fatto venire l’esaurimento; altre, al contrario, protestavano perché venivano adoperate troppo poco (infatti molta gente farciva le proprie frasi di ‘cosa’, ‘coso’ e ‘cosare’). Altre, infine, non potevano più sopportare di vivere nella confusione. Il loro significato era stato talmente tirato da tutte le parti per coprire le cose più diverse che non sapevano più chi fossero (le parole ‘pace’ e ‘amore’ erano le più stravolte, tra queste).
La gente non se ne accorse subito. Chi, per abitudine, non ascoltava mai chi gli parlava, continuò a emettere di tanto in tanto qualche suono di partecipazione (uhm … ah … ohoh … eh …). Chi parlava tanto per parlare non faceva mai attenzione a quello che diceva, così non si accorse quando dalla bocca non gli uscirono più parole. Chi sapeva così bene quello che sarebbe stato detto da indovinare le parole prima che fossero pronunciate (i bambini con le loro mamme, per esempio) continuò a indovinare, senza rendersi conto che di parole pronunciate non ce n’erano più. Anche per gli innamorati che passavano ore guardandosi negli occhi, sospirando, scambiandosi teneri squittii, la scomparsa delle parole passò inosservata.
Ma poi a poco a poco tutti lo seppero. Qualcuno pensò di essere diventato sordo; qualcuno pensò di essere diventato muto. Ma il primo vero segnale d’allarme fu dato dal calo improvviso delle vendite porta-a-porta. Le persone visitate, non più distratte dalle parole dei venditori, cominciarono a esaminare più attentamente gli articoli loro proposti, acquistando solo quelli che servivano veramente. Anche tutti quelli che basano la loro professione sull’eloquenza (avvocati, conferenzieri, politici) si trovarono a malpartito.
I primi a reagire furono i bambini: cominciarono a intendersi a gesti e, quando proprio non riuscivano a capirsi, ricorrevano ai disegni. Sempre più gente frequentò le scuole di mimo. Più d’uno cercò di ovviare all’inconveniente emettendo dei suoni modulati che imitavano quelli delle parole. Per quelle più semplici la cosa riuscì; i componenti di un’orchestra capivano che il pubblico diceva “Bravo! Bravo!” quando battendo le mani gridava “a-o! a-o!”. E non era difficile interpretare “oe” (“dove”), “e-oa” (“che cosa”), “ua-o” (“quando”) se venivano dette al momento giusto. Ma quando qualcuno domandava oè ia ei, intendendo Via Verdi, si poteva capire Via Cervi, Via Servi, Via Nervi, e chissà quante ancora.
Ho dimenticato di dire che solo le parole parlate erano scomparse; quelle scritte rimasero.
In un primo momento sembrò che si fosse creata l’occasione perché le immagini soppiantassero i testi, come stavano cercando di fare già da tempo. La gente si rese presto conto, però, che senza l’aiuto delle parole le immagini in certi casi erano estremamente noiose, o assolutamente ridicole; fu necessario allora proiettare brevi testi insieme alle immagini.
La gente non aveva pazienza di leggere a lungo, così si riscoprì il valore di una bella frase in cui ogni parola ha un significato chiaro. Si diffuse il gusto di scrivere bene, utilizzando parole magari sin’allora poco usate, ma esprimendosi in modo da farsi capire da tutti. Non avendo più l’occasione di ascoltare ‘paroloni’, si perse l’abitudine anche di usarli nella pagina scritta.
La lettura dei brevi testi che accompagnavano le immagini poco alla volta riportò la gente al gusto della lettura. Ci si rese conto che nel leggere una storia ben scritta ciascuno poteva creare delle immagini, spesso migliori di quelle (uguali per tutti) proposte dalle storie presentate dalla TV.
Dopo una notte di mareggiata in cui l’acqua del mare, rivoltandosi su se stessa, aveva tirato su dalle sue profondità e buttato a riva cose di ogni genere, un pescatore trovò le parole.
Era l’inizio del giorno, quando il cielo e il mare hanno il colore del silenzio. Sulla sabbia bagnata, compatta e appena scivolosa, il pescatore lasciava le orme dei suoi piedi nudi. Trascinava un sacco dietro di sé, e ci buttava dentro quello che andava raccogliendo.
Il pescatore era un uomo solitario. Passava ore a leggere e a guardare il mare, a camminare lentamente lungo il bagnasciuga. Non sapeva niente, lui, della sparizione delle parole.
Quello che stava raccogliendo non era ben identificabile, all’inizio: sembravano straccetti bagnati, informi. Avevano un forte odore di mare; anche il gusto era salato (ne aveva succhiato cautamente un angolo per cercare di capire di che cosa si trattasse).
Ne aveva stesi un po’ sopra una roccia e a mano a mano che si asciugavano prendevano forma e consistenza.
La prima che riconobbe fu ‘grammatica’ e vicino c’era ‘sintassi’. Cominciò a guardarle a una a una, prima incuriosito e poi affascinato. Di alcune, più antiquate, conosceva appena il significato; altre gli erano ben note. Tutte avevano un loro gusto, colore, profumo, grande potere evocativo.
Fanfaluca. Giulebbe. Fraternità. Consumare. Pietanza. Scellerato. Nuvola. Gelosia. Condizionamento. Attualizzare. Talea.
A mano a mano che le raccoglieva le pronunciava ad alta voce, assaporandole.
Intanto il sole era salito nel cielo. Alcuni bambini, venuti a giocare sulla spiaggia, si erano avvicinati al pescatore e, imitandolo, avevano cominciato a ripetere le parole con le loro voci nuove. Ciascuno di loro ne portò a casa un piccolo bottino, e se le scambiavano per gioco: se ti do ‘foglia’ e ‘corteccia’, mi dai ‘parallelepipedo’? Che cosa vuoi in cambio di ‘giardino’?
Molte parole erano rimaste sulla riva del mare e un vento leggero le disperse nell’aria.
La gente, costretta a cercare di capirsi senza ricorrere alle parole, aveva imparato a parlare in modo diverso; con le parole era più facile, però. Riconoscenti perché erano tornate, le usarono con attenzione, dando loro il significato esatto. Fu come cominciare tutto da capo.
E il pescatore?
Il pescatore cominciò a leggere ad alta voce (come aveva fatto con le parole raccolte dalla sabbia) le poesie che scriveva da sempre. E la gente si fermava ad ascoltare.

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IL NASO DI APOLLODORO

Il racconto “Il naso di Apollodoro” è stato pubblicato in Storie di Eglia (narrativa), Montfort & Villeroy, Montréal, 1998 e viene qui riprodotto per gentile autorizzazione dell’autore.

Dopo aver camminato per tutto il giorno, a sera i viaggiatori si raccoglievano attorno al fuoco e, uno alla volta, raccontavano una storia. Quando venne il suo turno, don Quijote cominciò:
Al mio paese, quando ero bambino, questa storia si raccontava ancora. Io l’ho udita da mio nonno, e lui giurava di aver conosciuto di persona Rinaldino, prima che questi se ne andasse in città a far fortuna. A differenza degli altri ragazzi del paese – tozzi, le spalle poderose – Rinaldino aveva un personale alto e slanciato. Si sentiva diverso; non avrebbe accettato mai di diventare pecoraio, contadino, o taglialegna come tutti. Appena raggiunta l’adolescenza si congedò dai suoi e partì in direzione della città; lasciate le ultime case del paese camminava con le scarpe sospese per i lacci a una spalla, i piedi imbiancati di polvere.
Era l’inizio dell’estate; i castagni che ricoprivano buona parte delle colline, intorno, erano verdi di foglie, i frutti ancora chiusi.
Dopo un paio d’ore, il rumore di zoccoli di cavalli e un cigolio di ruote avvertirono Rinaldino che stava per avere compagnia. Infatti, a una svolta vide profilarsi davanti a lui un carrozzone che procedeva sobbalzando sul fondo ineguale della strada. Due cani gli corsero incontro latrando, e scondinzolando lo riaccompagnarono al carro che intanto si era fermato. Si trattava di un carrozzone di girovaghi; da cassetta scese un uomo alto e massiccio che si presentò come il dottor Guérison. All’interno del carro era seduta una donna grassa (la mia signora, disse Guérison accennando un inchino con il capo) che guardò il ragazzo con aria corrucciata, senza parlare, continuando a cullare tra le braccia un bambinello addormentato. Rinaldino accettò l’invito a fare un pezzo di strada con loro; spartì il pane e il formaggio che aveva portato da casa e si arrampicò accanto all’uomo quando ripresero ad andare.
Venne a sapere che il sedicente dottore fabbricava e vendeva, di paese in paese, una pozione che – a seconda delle circostanze – era garantita come filtro d’amore, linimento, rimedio contro la calvizie. La presenza del figlioletto e l’incontro con Rinaldino suggerirono al dottore l’idea di spacciarla anche come bevanda ringiovanente, utilizzando il vecchio trucco dell’adolescente che sembra ridiventare un marmocchio.
Rinaldino rimase con loro per alcuni mesi; in quel periodo il dottor Guérison gli insegnò a leggere e a scrivere. Alle soglie della città Rinaldino si separò dal suo maestro, salutò la donna che gli rivolse uno sguardo corrucciato, senza parlare, e si allontanò da solo.
Gli inizi furono duri. Per guadagnare il pane il ragazzo si piegava a qualunque lavoro: faceva lo scaricatore, il galoppino, il tessitore, il falegname, approfittando del fatto che, malgrado il suo aspetto delicato, era forte e robusto, e che l’indole allegra, la battuta pronta, il sorriso franco, lo rendevano bene accetto dovunque. Dopo un paio d’anni entrò come apprendista nella bottega di uno speziale e lì, poco alla volta, si rese conto (e gli altri con lui) di una qualità che lo rendeva unico: possedeva un olfatto eccezionale.
Dosando i componenti di un preparato medicinale indovinava le quantità dall’intensità dell’odore. Non aveva bisogno di etichette per riconoscere una sostanza e, annusando un profumo, non sbagliava mai nell’indicarne le componenti. Non solo: la sua capacità di cogliere le più sottili sfumature gli permetteva di trovare nuovi accostamenti, di tentare nuove mescolanze, di suggerire nuove variazioni.
Lo speziale all’inizio gli lasciava solo compiti marginali, ma quando si accorse che i profumi preparati dall’apprendista venivano richiesti da un sempre maggior numero di persone, e che il nome della sua bottega stava diventando sinonimo di raffinatezza e di qualità, lo prese come socio e gli permise di sposare sua figlia (una cosina graziosa e delicata di cui il giovane si era innamorato a prima vista). Rinaldino poteva dirsi arrivato: aveva raggiunto una posizione invidiabile.
La sua felicità non poteva essere maggiore: la moglie lo adorava, i piaceri del letto e della tavola erano accentuati e sottolineati dalle sue capacità olfattive; la bottega dello speziale, morto suo suocero, era diventata un grande laboratorio dove molti assistenti si contendevano il privilegio di lavorare sotto le sue direttive. Il suo nome era diventato molto noto; oltre a essere conosciuto come fabbricante di profumi diventò l’esperto più richiesto ogni volta che si trattava di riconoscere un odore, per quanto leggero fosse. Era come se nel suo cervello ci fosse una mappa estremamente dettagliata, e ogni volta che i suoi recettori nasali vibravano, un nome venisse messo in evidenza. Partecipò a congressi, fu invitato a convegni, ottenne pubblici riconoscimenti. La sua ricchezza aumentava con la sua fama, ma…
Perché c’è un ‘ma’ : a mano a mano che cresceva il suo conto in banca cresceva anche il suo naso. Dapprincipio non ci badò molto. Ho messo su peso, diceva, e anche il mio naso si è ingrossato. Ci scherzava. Quando qualcuno lo complimentava per una sua nuova creazione rispondeva: Eh! Io ho naso!
Poi si accorse di spiare il suo viso allo specchio. Il naso sembrava lievitare: oggi un piccolo rigonfiamento a lato di una narice, domani un accenno di gobba, poi un’escrescenza sulla punta … giorno dopo giorno l’appendice in mezzo al suo viso assomigliava sempre meno a un naso e sempre più a una ‘cosa’ dotata di vita propria, spugnosa e informe, che si dilatava, si protendeva, guadagnava spazio. Non abituato alle nuove dimensioni del suo naso Rinaldino diventò goffo, incerto nel muoversi. Il suo respiro divenne rumoroso. Uno sternuto faceva infrangere i vetri delle finestre, persino un sospiro creava correnti d’aria. Cominciò a essere ossessionato dall’idea che ogni specie di insetti, risucchiati attraverso le cavità nasali, arrivassero ad annidarglisi nel cervello.
Gli amici, che per un po’ avevano fatto finta di non accorgersi di quello che stava succedendo, a uno a uno disertarono la sua casa. Il suo aiuto non fu più richiesto; non fu più invitato in alcun luogo. La moglie rimase per lungo tempo dalla sua parte; con indomita tenerezza lo confortava, assicurandolo che certo si trattava di malattia passeggera. Ma Rinaldino si accorse presto che qualcosa non andava; lei, che all’inizio si schermiva di fronte ai suoi approcci tenendolo a bada con la solita scusa (stasera no, caro, ho mal di testa), divenne poi apertamente ostile e, piangendo istericamente, tornò da sua madre.
Rinaldino non si arrese subito. Per lungo tempo si sforzò di comportarsi come se niente fosse accaduto, negando l’evidenza; poi un giorno decise di intervenire attivamente. Chiamò a consulto i medici più famosi, ma niente da fare : la ‘cosa’ cresceva. Venne il giorno in cui, per non sbilanciarsi, dovette camminare con le mani a coppa davanti al viso, per sostenere il naso. Fece venire maghi ed esorcisti; accettò di partecipare a riti terrificanti, ridicoli, umilianti: ma la ‘cosa’ continuava a crescere. Divenne grande come la sua testa; più grande. Una massa di cartilagine, tremula e imponente, un insieme slabbrato, senza confini precisi, pendulo. Rinaldino dovette far costruire un alto carrello imbottito, e camminava appoggiandoci il naso. Una volta che aveva dimenticato di agganciarsi dei pesi alle caviglie un colpo di vento improvviso gli sollevò il corpo (smunto, emaciato: era un tale problema mangiare!) e il naso sul carrello scivolò sulla strada portandosi dietro Rinaldino come appendice.
In seguito accadde la cosa più orribile: a mano a mano che aumentava la massa del naso diminuiva l’odorato. Il gusto ne risentì, e Rinaldino mangiò sempre meno. Perché sforzarsi tanto per ingoiare cibi che gli sembravano tutti uguali? Un po’ alla volta smise anche di andare al laboratorio dove aveva continuato a recarsi con fatica.
Era rimasta a provvedere a lui una vecchia domestica mezzo cieca che non sembrava far caso al suo aspetto. Rinaldino, una volta così sensibile al più lieve sentore di sudore, che non avrebbe sopportato di indossare biancheria non odorosa di fresco e di pulito, si era ridotto in una camera dove troneggiava un letto sfatto, tra lenzuola stazzonate, incapace del tutto di sentire l’odore di chiuso e di disfacimento intorno a lui. Passava le giornate sdraiato sul letto, la schiena sostenuta da cuscini. Girava il viso da una parte, e il naso appoggiava sulle coperte, riempiva tutto lo spazio, debordava sul pavimento. Raggiungeva la parete e si ammonticchiava contro di essa, schiacciato dalla porta quando la domestica entrava con il vassoio del pranzo e poi di nuovo esteso – gommoso e ripugnante ammasso – i pori larghi come crateri, i capillari come sentieri tortuosi. Torcendo gli occhi dalla parte opposta Rinaldino guardava fuori dalla finestra; si rivedeva, fanciullo, correre per i prati, rimpiangeva la libertà di cui aveva goduto, l’agilità dei movimenti.
Un giorno in cui era più depresso del solito, Ah, darei qualunque cosa per poter tornare quello di prima, sospirò a mezza voce. A questo punto entrò in scena Apollodoro.
Don Quijote fece una pausa. I suoi compagni lo avevano ascoltato attentamente, chi attizzando il fuoco, chi ricaricando la pipa. Qualcuno mise altra legna: la notte si annunciava fresca.
Di diavoli, come ben sapete, ce n’è di tante categorie, riprese don Quijote. Da Lucifero, il capintesta, a quelli di prima classe, di seconda, e poi giù giù fino a quelli di infimo ordine. Persino sulla terra è invalsa l’espressione ‘povero diavolo’ per qualificare qualcuno che è un niente da tutti i punti di vista. Be’, Apollodoro era proprio uno di questi. In fondo, quello che gli si chiedeva era di fare dispettucci , di creare un po’ di confusione, di intorbidire le acque: ma niente gli riusciva. Ormai passava in ozio la maggior parte del suo tempo, e soltanto qualche diavolessa compassionevole gli affidava di tanto in tanto qualche incarico (quando il risultato non importava assolutamente a nessuno).
Sotto forma di lucertola se ne stava a prendere il sole sotto la finestra di Rinaldino quando sentì la sua invocazione. Non credeva alle proprie orecchie: proprio lui aveva trovato un uomo disposto a fare un patto con il diavolo!
È la mia grande occasione, si disse, riprendendo l’apparenza usuale e precipitandosi nella stanza. Rinaldino lo guardò sconcertato: qualche ragnatela pendeva dal costume rosso e uno dei corni era un po’ spuntato, ma non c’era dubbio, si trattava certamente di un diavolo. Ah, ci siamo!, si disse. È il momento del patto. Ma che cosa chiedere? Decise che poteva fare a meno della moglie, poteva persino adattarsi a convivere con quel naso mostruoso: a una sola cosa non poteva rinunciare. Rivoglio il mio olfatto prodigioso!, disse.
Apollodoro gonfiò il petto d’orgoglio; benché fosse fuori esercizio, il suo potere rimaneva intatto, e poteva concedere a quell’uomo qualunque cosa. Sia!, disse. Questo è un lavoro da diavolo di prima classe, pensava. Lucifero in persona gli avrebbe fatto i complimenti…
Che cosa vuoi in cambio?, domandò Rinaldino.
Preso alla sprovvista Apollodoro dimenticò la contropartita che si richiedeva di solito nei patti con il diavolo, e chiese ciò che lo aveva colpito di più quando si era trovato di fronte a Rinaldino. Voglio il tuo naso!, rispose.
Un riso improvviso serpeggiò tra gli ascoltatori. L’interesse con cui tutti avevano seguito il racconto di don Quijote si era frammentato; i viaggiatori si scambiavano commenti, battute spiritose. Ah, questa poi!, esclamò uno. Ma era veramente sciocco, quell’Apollodoro!, commentò un altro. E come è finita la storia?, domandò un terzo.
Per Rinaldino è finita nel modo migliore, riprese don Quijote. Liberato dell’appendice enorme riconquistò la moglie e il gusto di vivere. Il suo olfatto sembrava divenuto ancora più sensibile. Forse per la forzata astinenza precedente, il piacere che gli veniva dall’annusare gli effluvi che giungevano dalle cucine, dall’abbandonarsi a riconoscere a occhi chiusi il corpo della moglie, dal mescolare goccia a goccia preziosi profumatissimi estratti, non era mai stato così completo. Quanto ad Apollodoro …si racconta che ritornò all’inferno trascinandosi dietro quella montagna di naso. Lo offerse a Lucifero, cercando di dare a intendere che avesse chissà quali virtù nascoste. Ma Lucifero lo guardò freddamente. Che me ne faccio di un naso?, domandò. Riprenditelo. Alzò appena una mano e il naso si spiaccicò in mezzo alla faccia di Apollodoro.
Da quel giorno il povero diavolo non riuscì più a mimetizzarsi; qualunque forma assumesse (ragno, specchio magico, pipistrello) quel grande naso che non poteva nascondere in nessun modo lo tradiva, e persino i bambini ridevano di lui.
La legna si era consumata e non rimanevano che le braci. Aiutandosi con un bastone don Quijote le ricoprì di cenere prima di avvolgersi nel mantello e di stendersi a dormire. Uno alla volta i suoi compagni lo imitarono.
Domani, con il primo sole, si sarebbero rimessi in cammino. E, a sera, qualcuno avrebbe raccontato un’altra storia.

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DALLA REALTA’ ALLA METAFORA

Il presente saggio è il testo della relazione di Elettra Bedon al Convegno Internazionale “Oltre la storia: l’identità italo-canadese contemporanea” organizzato a Udine il 20-22 maggio 2004 dal Centro di Cultura Canadese dell’Università degli Studi di Udine e dall’Associazione di Scrittori / Scrittrici italo-canadesi.

Per andare “Oltre la storia” è sembrato opportuno partire dalla “storia”, cioè dalla presenza, sulla scena letteraria, di autori italocanadesi sin dagli anni tra le due guerre mondiali. Questa relazione si propone di farlo, non con un elenco esaustivo di nomi ma soffermandosi piuttosto sulle motivazioni che hanno spinto gli autori a scrivere.
I primi italocanadesi a farsi conoscere come scrittori sono uomini arrivati in Canada da adulti, con un livello di istruzione relativamente alto: sono giornalisti, insegnanti. Parlano della loro esperienza di emigrazione; in genere scrivono in italiano. Soltanto qualche nome: Liborio Lattoni, tra le due guerre mondiali; Napolitano, che descrive Montreal negli anni Trenta; Mario Duliani che – con La città senza donne, pubblicato nel 1945, testimonia dell’esperienza di internamento subita da molti italocanadesi ritenuti “nemici” per il solo fatto di essere originari di un Paese considerato tale.
Dopo la seconda guerra mondiale aumenta il numero di scrittori di origine italiana. Anche questi scrivono, in italiano, sulle difficoltà di adattamento nel Nuovo Mondo, sul senso di alienazione vissuto dall’emigrante. Citiamo alcuni nomi: Giose Rimanelli (che si stabilirà in seguito negli Stati Uniti), Pietro Corsi, Dino Fruchi, Tonino Caticchio, Ermanno La Riccia, Maria Ardizzi, Matilde Torres, Corrado Mastropasqua, Romano Perticarini.
A partire dagli anni Settanta emerge un nuovo tipo di scrittore italocanadese; si tratta in genere di figli della prima generazione di immigrati, nati in Canada, o in Italia ma giunti bambini in Canada, dove hanno compiuto gli studi. Qualcuno scrive ancora in italiano, ma la maggioranza lo fa in inglese, in francese, qualche volta nelle due lingue, qualcuno nelle tre lingue. Partono dall’esperienza di emigrazione ma passano poi al contrasto tra una eredità contadina e una realtà di vita in una città del Nordamerica; parecchi di loro si soffermano a esplorare la ricerca delle radici.
A differenza dei primi scrittori italocanadesi che si rivolgevano alla comunità italiana, questi vogliono raggiungere un pubblico più vasto. Tra loro citiamo, soltanto a titolo esplicativo, Frank Paci, Dino Minni, Pier Giorgio di Cicco, Alexandre Amprimoz, Joseph Pivato, Marco Micone, Antonio d’Alfonso, Mary di Michele, Antonino Mazza, Mary Melfi… ma l’elenco dovrebbe essere molto più lungo.
Nel 1986, a Vancouver, per iniziativa di un piccolo gruppo, nasce l’Associazione scrittori italocanadesi. In un incontro protrattosi per tre giorni, attraverso una messa a confronto di diverse esperienze di scrittura, i partecipanti si sono trovati d’accordo nel riconoscere che un comune punto di partenza – l’esperienza di emigrazione – ha dato origine a due tipi di diversi di “opere”. Chi ha scritto spinto dal bisogno di “fare i conti” con ciò che ha vissuto, in genere poi non scrive più; l’ispirazione si esaurisce con l’esaurirsi del materiale vissuto. Altri, pur ricorrendo alla scrittura come “catarsi”, passano in seguito, se non ad altri temi, a un modo diverso di svolgerli. Allora, che i personaggi dei loro libri siano italocanadesi non è più importante, perché i sentimenti che questi provano, le situazioni che vivono, sono universali. Parole come emigrazione, spaesamento, senso di identità, radici, vengono quindi ad assumere valore di metafora.
Oggi, gli italocanadesi che scrivono sono di seconda, di terza generazione. Se sono cresciuti accanto ai nonni hanno imparato a parlare nella loro lingua regionale – erroneamente chiamata dialetto – ma con i genitori, con i compagni di gioco, a scuola, hanno sempre parlato in inglese, in francese. Alcuni di loro hanno frequentato la “scuola del sabato”, la scuola sovvenzionata dal Governo italiano in cui un mattino alla settimana, da settembre ad aprile, hanno imparato i primi rudimenti dell’italiano. Per alcuni lo studio di questa lingua è diventato un interesse personale, qualcosa da coltivare. La lingua di scrittura, però, è sempre stata l’inglese, il francese. Chi scrive vuole essere riconosciuto come “scrittore”, senza altra qualificazione; l’esperienza di emigrazione vissuta dai nonni, dai bisnonni, quando raccontata, non è altro che la traduzione del sentimento di essere in qualche modo diversi, di non appartenere pienamente a una gente determinata, di non riuscire a integrarsi in modo completo, di parlare una lingua che altri non capiscono, caratteristiche tutte – queste – di chi scrive per una pulsione interna, perché ne sente il bisogno, e non per un qualche tipo di calcolo.
Per illustrare il passaggio dalla “realtà” alla “metafora”, presento ora brevemente tre autori italocanadesi che hanno scritto in italiano. Il primo si chiama Aldo Gioseffini, è nato a Carvacco, frazione di Treppo Grande, provincia di Udine. Il suo libro, intitolato L’amarezza della sconfitta, appartiene al gruppo di opere scritte per “fare i conti” con la propria esperienza di emigrazione e, in fondo, anche con la propria vita. Figlio di emigranti, a quattro anni – con la madre – raggiunge il padre a Parigi. Passa l’infanzia e l’adolescenza tra Francia e Italia, dove si ferma per alcuni anni a causa della guerra. Ritorna poi in Francia; in seguito lavorerà in Svizzera. Nel 1963 si trasferisce in Canada. Finché rimane in Europa, continua a recarsi spesso in Italia, dove incontra la ragazza che diventerà sua moglie, dove nascerà la prima figlia. Anche la moglie lavora con lui in Svizzera, dove gli nasceranno due gemelli. I figli crescono, si allontanano da lui; la moglie prende la loro parte. Poiché la casa che si sono fatti costruire è intestata a tutti e due, e la moglie rifiuta di venderla, dividono i locali e vivono sotto lo stesso tetto anche dopo la separazione ufficiale.
Tutte queste vicende sono raccontate dettagliatamente in prima persona, inframmezzate da commenti sulla situazione degli emigranti, sulla politica, sulla guerra, soprattutto, a proposito della quale dice: “Non ho mai potuto rassegnarmi alla sconfitta subita dal mio paese; ho dovuto accettarla con amarezza”. Da qui il titolo del suo libro, ma altre parti rivelano che “l’amarezza della sconfitta” non gli è stata causata soltanto dagli eventi bellici. Il libro si chiude con queste parole: “Aspetto il tramonto della mia vita… Forse è giusto che spiri in terra straniera, visto che son sempre stati quei paesi che mi hanno fatto guadagnare il pane. Ma il mio pensiero è dove sono nato…”.
Il secondo autore, Dino Fruchi, in Canada dall’inizio degli anni Cinquanta, nel suo Il prezzo del benessere – pur raccontando una personale esperienza di emigrazione – disegna un quadro più vasto.Scrive un romanzo, il cui protagonista (Pompeo del Colle) lascia l’Italia per il Canada nell’immediato dopoguerra. I personaggi sono inventati; la loro esperienza si intreccia alla Storia (con la esse maiuscola) e alla storia locale, sia del paese di provenienza che di Montreal, città dove loro vivono nel momento in cui il libro inizia. Non è nascosto un intento didattico, che si manifesta anche nella descrizione dei luoghi, nell’analisi psicosociologica delle difficoltà di adattamento dell’emigrante. Pompeo – il protagonista – si rende conto a questo proposito che esiste una vera e propria malattia, lo “stress dell’emigrante”, che si rivela con sintomi diversi e non facilmente accertabili ma le cui cause sono per tutti le stesse, e si possono ridurre alla presa di coscienza che “il paese dove si guadagna subito non esiste”. Pompeo ne sarà immune, perché ciò cui rimane attaccato, del passato, sono i valori, più che i singoli fatti. Lui vive – vuole vivere – nel presente; impara il francese e l’inglese, abbastanza da sbrigarsela in ogni occasione. Non rimane chiuso nella comunità di appartenenza, fa amicizia con immigrati provenienti da altri paesi, con vicini di casa e compagni di lavoro canadesi.
Nel libro non sono passati sotto silenzio i fatti – a volte drammatici – in cui degli emigranti hanno dovuto subire incomprensione e abusi, ma – come si è detto – la visione di Fruchi è più ampia: il suo protagonista è capace di cogliere altri stimoli, e il suo comportamento fa capire al lettore che la nostalgia, il ”mal di casa”, sono in fondo un’esigenza spirituale che il solo pane – il benessere – non può soddisfare.
Pompeo, arrivato all’età della pensione, potrebbe rientrare in Italia. Ci pensa a lungo, e decide di voler continuare a vivere nella sua patria d’adozione. Il libro si conclude con queste parole, che Fruchi fa dire al protagonista: “… questa terra, dove tutti siamo venuti, ci appartiene di uguale diritto. Con lotte, con sacrifici, con ingiustizie e atti di eroismo abbiamo imparato a coabitare, a saperci comprendere. Quando si ama, ogni terra è una patria”.
Un’autobiografia, un romanzo, e ora due libri di poesia. L’autore è Corrado Mastropasqua. La sua esperienza è diversa da quella dei due autori precedenti perché lui non ha lasciato l’Italia per necessità ma per scelta, e avrebbe potuto tornarci in ogni momento. Ma – come tutti coloro che cambiano Paese – ha risentito lo strappo delle radici; non è stato messo alla prova sul piano concreto della ricerca del lavoro, spesso precario, ma ha vissuto in pieno lo spaesamento, il senso di alienazione, la necessità di ancorarsi. In Canada dal 1961, ha pubblicato Ibrido, in cui sono raccolte poesie in napoletano e in italiano, e Prova d’armonia, interamente in italiano.
Leggo alcuni brani. Il primo è tratto da una poesia in napoletano (la traduzione è mia):

No, non ce la faccio a vivere così
troppo, troppo mi pesa star lontano
a volte penso sia meglio morire
in una volta più che piano piano. (…)
Napoli era una festa di colori
dolce era l’aria, dolce e imbalsamata
in ‘sto paese il tempo è freddo e scuro
son tristi i giorni e lunga è ogni nottata.

Il secondo fa parte di una poesia dedicata all’isola d’Ischia:

(…) Non so più se sei vera
o se per sopravvivere

t’ho inventata
io naufrago dell’aridità.

La poesia che leggo per intero riflette la sensazione, sempre così presente nell’emigrante, di non avere una chiara identità, di non appartenere a un luogo ben definito. Qui è evidente il passaggio dalla “realtà” alla “metafora”, perché un poeta ha sempre l’impressione di “venire da un altro paese”:

Quando mi dissero:
ragazzo non c’è posto qui
per le tue smancerie,
posai la chitarra
mi tolsi il garofano
rosso dall’orecchio
e mi misi a faticare
fra uomini di gelo.
Quando tornai al paese
con tanta voglia di cantare
mi dissero: buon uomo
non ci sono chitarre qui
né più fioriscono
garofani da noi.

Concludo con una citazione tratta dal contributo di Joseph Pivato a Writers in Transition, pubblicato da Guernica nel 1990:

“La scrittura italocanadese ha una metafora dominante, quella del viaggio. Il viaggio dell’emigrante è metafora del viaggio della vita. Da questo punto di vista essa appartiene alla più antica tradizione letteraria del mondo: la Bibbia, l’Odissea, l’Eneide, la Divina Commedia. Questa metafora dell’emigrazione assume molte forme, con infinite variazioni. Le possibilità non sono ancora esaurite…”.

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