Screenshot 20250522 174556 M365 Copilot - Il quaderno dell’amore perduto

Recensione

Questo romanzo di Valérie Perrin è uscito in Francia nel 2015 e in Italia nel 2016, per la Casa Editrice Nord. Il racconto è ambientato nel 2013 a Milly, un piccolo centro nel cuore della Francia, e viene fatto in prima persona dalla ventunenne Justine Neige, che parla di sé e della propria famiglia, o meglio di quello che ne resta. Lei vive insieme ai nonni paterni e a un cugino di due anni più giovane, Jules, che considera un fratello. Un tragico incidente stradale avvenuto nel 1996 li ha resi orfani, strappando loro i padri, che erano gemelli, insieme alle madri. Justine lavora come assistente in una casa di riposo, Le Ortensie, e ama il suo lavoro appassionatamente; per la precisione, ama gli anziani di cui si occupa, il cui corpo tribolato tratta con la riverenza che si deve a un “tempio degli amori passati”. Come il centenario di Jonasson, anche gli ospiti delle Ortensie, quando possono, se la svignano ma, come lui, poi non sanno dove andare. Come tutti i vecchi ben curati, quelli di questo libro sanno di buono: di borotalco, di lacca Elnett, di crema Nivea nel suo inevitabile vasetto tondo blu. Una di loro, Hélène Hel, novantaseienne, racconta a Justine la propria vita e un amore infinito, che lei annota in un quaderno azzurro.

Da bambina, Hélène, avvilita e mortificata per non essere riuscita a imparare a leggere, decise di farla finita; ma il suo tentativo di suicidio venne sventato da un gabbiano. Da quel giorno lei maturò la convinzione che ciascuno di noi ha un uccello protettore che, dall’alto, lo sorveglia e lo accompagna nella vita. Quando incontrò Lucien, un ragazzo di qualche anno più grande, dagli occhi di un azzurro straordinario e convinto di essere predestinato alla cecità, Hélène risolse finalmente il suo problema, perché lui le insegnò a leggere in Braille. (Anche in un altro romanzo di cui ho scritto qui di recente, La portalettere, di Giannone, mi sono imbattuta in un personaggio che non riesce a imparare a leggere perché chiaramente affetto da dislessia – negli anni Trenta del Novecento ancora largamente sconosciuta –, poi superata grazie a un espediente fantasioso quasi quanto il Braille. Credo che le scrittrici contemporanee intendano vendicare i molti che, nelle generazioni precedenti, sono stati ingiustamente considerati degli idioti e hanno patito lo stigma sociale solo perché affetti da un disturbo dell’apprendimento). È l’inizio di una storia d’amore magnifica e vera, attraversata da tentazioni, delusioni e dolori, ma così tenace che neppure il tremendo strappo spaziale e temporale della guerra seppe reciderne i legami. Una storia d’amore sottratta a ogni forma di vincolo, sia giuridico – nessun matrimonio – che della prassi di coppia – nessuna camera da letto in comune. Altri, in questo libro, sprofondano invece in sentimenti posticci: donne non amate non fanno che sorvegliare e soffocare con presa da rapace il proprio uomo sfuggente.

Justine quando non lavora si stordisce al Paradis, un locale dove balla e talvolta si concede, con partner occasionali, una “botta e via” in macchina, visto che non dispone di un posto tutto suo. Da qualche tempo incontra sulla pista un ragazzo con cui poi s’intrattiene nel monolocale di lui, più comodo di un’automobile per sbrigare certe faccende; tra sé e sé lei lo chiama Coso, perché non ne ha memorizzato il nome. Il fatto è che i pensieri di Justine sono tutti per un uomo che conosce da poco, Roman, nipote di Hélène e fotocopia del nonno Lucien, portatore del medesimo azzurro ipnotico nello sguardo; proprio su sua richiesta Justine ha iniziato a scrivere la storia dell’anziana. Da qualche tempo, alle Ortensie, qualcuno – un anonimo Corvo – telefona di sabato ai familiari degli ospiti che non ricevono mai visite e che di solito hanno solo figli maschi (le due circostanze sono in significativa relazione), e comunica il decesso del congiunto ricoverato. I parenti si presentano l’indomani trafelati alla casa di riposo per avviare le pratiche funerarie ma scoprono che il papà o la mamma sono ancora vivi, se non addirittura vegeti. I “dimenticati della domenica”, naturalmente, si ringalluzziscono alla vista dei figli latitanti e approfittano dell’insperata occasione per condividere qualche ora del giorno festivo con loro, che fanno buon viso a cattivo gioco. Il Corvo, ovviamente, va stanato e punito, e allo scopo vengono reclutati Starsky e Hutch, i due vecchi, stupidi e arroganti agenti di Milly, chiamati con triste ironia come i prestanti poliziotti di Bay City. Proprio uno di loro, durante un interrogatorio a Justine nell’ambito dell’indagine sul Corvo, solleva dubbi circa la dinamica dell’incidente stradale in cui i suoi genitori e quelli di Jules hanno trovato la morte. Così lei avvia una ricerca personale e segreta sul passato della propria famiglia, che la condurrà a una verità tanto sconcertante quanto indispensabile, com’è spesso la verità.

Il romanzo di Perrin, benché imponga qualche necessaria sospensione dell’incredulità, è molto bello e trascinante, si fatica a interromperne la lettura. Regala suggestioni preziose: la madre di Justine, Sandrine, da ragazza ascoltava la musica che ascoltavo anch’io; del resto, se lei fosse esistita davvero, saremmo state coetanee (leggendo certi titoli di brani musicali, non posso fare a meno di riascoltarli sul cellulare: Let’s All Chant, della Michael Zager Band, Everybody’s Got To Learn Sometime dei Korgis, Smalltown Boy dei Bronski Beat, Angie dei Rolling Stones). Offre riflessioni fulminanti, come quella che indica l’inizio e la fine della vecchiaia: «tutto comincia quando bisogna lasciare l’auto in garage perché si è diventati un pericolo pubblico e tutto finisce quando ci si frattura il collo del femore». Raccomanda che quando si ha a che fare con persone in là con gli anni «bisogna ascoltare, sempre, subito, perché il silenzio è dietro l’angolo». Esplicita qualche verità scomoda: «se ci troviamo davanti qualcuno che ci piace, finiamo per detestare coloro che amiamo»; «quando i vecchi tirano le cuoia […] il dolore si mescola al sollievo»; «viviamo tutti due esistenze separate, una in cui diciamo ciò che pensiamo e un’altra in cui ce lo teniamo per noi». Scandisce un auspicio perentorio: «il color senape andrebbe bandito per legge»… E poi stuzzica con la domanda delle domande, quella che infligge la frustrazione somma perché destinata a restare inevasa: «Perché le cose succedono sempre quando ormai non te le aspetti più?» Succedono quando hanno perso il potere di stordirti con una felicità insostenibile, quella che immagini nella loro inutile attesa. Oppure non succedono affatto.

Quando Hélène cita a Justine certi versi di Baudelaire da I fiori del male, riusciamo a raffigurarci quegli albatri, che arrancano penosamente sulla terraferma perché hanno ali troppo grandi e non possono prendere il volo, impacciati dalla propria grandezza. Pensiamo alla similitudine platonica del mito della caverna: come gli occhi faticano ad adattarsi al buio provenendo dalla luce, così è per l’anima, che arranca e barcolla quando viene da una dimensione più alta. Se l’anziano accanto a noi non riesce a leggere neppure con lenti spesse come fondi di bicchiere, invece di compatirlo chiediamoci se i suoi occhi hanno visto ciò che i nostri non sono ancora in grado di vedere. Di sicuro così fa Justine, mentre ci ricorda che «quando un vecchio muore un’intera biblioteca va in fumo».

Cristiana Bullita

 

 

 

 

 

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