filosofia inevitabile e virtuosa
di Dario Antiseri
«Non esiste un principio etico razionale che valga più di altri»
«Nel campo di coloro che cercano la verità non esiste nessuna autorità umana e chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli dèi». È questo il messaggio epistemologico di Albert Einstein. Lo stesso di quello di Karl Popper: «Tutta la nostra conoscenza rimane fallibile, congetturale. Il vecchio ideale scientifico dell’ episteme – della conoscenza assolutamente certa, dimostrabile – si è rivelato un idolo. L’esigenza dell’oggettività scientifica rende ineluttabile che ogni asserzione della scienza rimanga necessariamente e per sempre allo stato di tentativo. Non il possesso della conoscenza, della verità irrefutabile, fa l’uomo di scienza, ma la ricerca critica, persistente e inquieta della verità». Tutta la ricerca scientifica, in qualsiasi ambito essa venga praticata – in fisica e in economia, in biologia e in storiografia, in chimica come nella critica testuale – si risolve in tentativi di soluzione di problemi, tramite la proposta di ipotesi o teorie da sottoporre ai più severi controlli al fine di vedere se esse sono false. Cerchiamo, insomma, di falsificare, dimostrare false le nostre congetture per sostituirle, se ci riusciamo, con teorie migliori, vale a dire più ricche di contenuto esplicativo e previsivo. Ciò nella consapevolezza che, per motivi logici, non ci è possibile dimostrare vera, assolutamente vera, nessuna teoria: anche la teoria meglio consolidata resta sempre sotto assedio.
La realtà è che evitare l’errore è un ideale meschino; se ci confrontiamo con problemi difficili è facile che sbaglieremo; conseguentemente, razionale non è un uomo che voglia avere ragione, ma è piuttosto un uomo che vuole imparare: imparare dai propri errori e da quelli altrui. Ancora Popper: l’errore commesso, individuato ed eliminato è il debole segnale rosso che ci permette di venir fuori dalla caverna della nostra ignoranza. Dunque, nello sviluppo della ricerca scientifica, non ogni teoria vale l’altra e, di volta in volta, accettiamo quella teoria che ha meglio resistito agli assalti della critica. Il fallibilismo, in breve, è la via aurea che, in ambito scientifico, consente di evitare sia il dogmatismo sia l’arbitrio soggettivistico.
Ora, la storia delle vicende umane, come anche la realtà dei nostri giorni, ci mostra una Terra inzuppata di sangue versato in nome di concezioni etiche legate a differenti prospettive filosofiche e religiose. Partendo dall’esperienza, ripete Max Weber con John Stuart Mill, si giunge al politeismo dei valori. E con ciò siamo nel mezzo delle questioni connesse al relativismo etico. Certo, è falso sostenere che tutte le etiche sono uguali. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è un principio ben diverso da quello dove si grida «occhio per occhio dente per dente», o da quello leninista per cui «la morale è in tutto e per tutto soggetta agli interessi della lotta di classe del proletariato», talché «non bisogna accarezzare la testa di nessuno: potrebbero morderti la mano. Bisogna colpirli sulla testa senza pietà».
Dunque, tutte le etiche sono diverse, ma ce n’è una migliore delle altre? C’è, insomma, un qualche principio etico che, razionalmente fondato, possa valere erga omnes ? Si tratta di un’inevitabile domanda che, tuttavia, non pare possa avere una risposta positiva. Simile risposta positiva non può darsi se vale quella che si chiama «legge di Hume», la quale stabilisce l’impossibilità logica di dedurre asserti prescrittivi da asserti descrittivi. È questa, per usare un’espressione di Norberto Bobbio, una legge di morte per ogni tentativo di giustificazione razionale di qualsiasi sistema etico. La scienza sa, l’etica valuta. Molto può fare la ragione nell’etica, ma la cosa più importante che essa può fare in ambito etico sta nel farci comprendere che l’etica non è scienza. Esistono spiegazioni scientifiche e valutazioni etiche: non esistono spiegazioni etiche. Da tutta la scienza non è estraibile un grammo di morale. I princìpi etici si fondano su scelte di coscienza e non sulla scienza. Pluralismo di valori, dunque scelta; scelta, dunque libertà; libertà dunque responsabilità. Inevitabile la scelta, perché inevitabile il relativismo inteso esattamente quale esito della non fondabilità razionale di qualsiasi principio etico. In un simile orizzonte la «legge di Hume» si configura come la base logica della libertà di coscienza, mentre la presunzione di essere in possesso di fundamenta inconcusse del proprio sistema etico genera facilmente fondamentalisti inquisitori, i quali si sentiranno divorati dallo zelo di imporre agli altri il «Vero» e il «Bene», magari a costo di lacrime e sangue. È davvero difficile dar torto a Hans Kelsen quando scrive che «il relativismo è quella concezione del mondo che l’idea democratica suppone». E non va dimenticato che la società aperta è aperta al maggior numero di idee e ideali diversi e magari contrastanti, ma che è, appunto, aperta e non spalancata; essa, pena il suo autodissolvimento, è chiusa a tutti gli intolleranti e ai violenti – animata, come è, da quel decreto umanitario che stabilisce che «non c’è nessun uomo che sia più importante di un altro uomo». Ma, e qui l’interrogativo si impone, che cosa sarebbe questa nostra « cum-scientia » umanitaria, che cosa sarebbe in altri termini l’Occidente senza il messaggio cristiano? E se da un punto di vista fattuale appare inconsistente la posizione di quanti sostengono che del fiume della nostra storia il cristianesimo sarebbe nulla più che un affluente insignificante e non una sua poderosa sorgente, sorprende l’insistenza di tanti intellettuali cattolici i quali pensano che sia la ragione, al di fuori della Rivelazione, a stabilire, in maniera ultima e definitiva, ciò che è Bene e ciò che è Male. Ma quale ragione, la ragione di chi, è in grado di approdare a simili «assoluti terrestri»? Non è questa una forma di neopelagianesimo, dove il messaggio di Cristo viene trasformato, dal più al meno, in uno strofinaccio dell’argenteria di Aristotele, di Grozio o di Locke?
Blaise Pascal: «Nulla in base alla pura ragione è di per sé giusto, tutto muta col tempo» – e tutti i nostri «lumi» potranno solo farci conoscere che «noi non troveremo né la verità né il bene». E, allora, Pascal è un «fideista» perché disprezza la ragione o è un iper-razionalista consapevole dei limiti della ragione? E non è proprio in un mondo lacerato dalla disperazione, alla ricerca di un bene o senso assoluto non costruibile da mani umane, che risplende il messaggio cristiano nel suo più profondo significato sia esistenziale che politico per la storia dell’Occidente? D’altro canto, per il cristiano solo Dio è assoluto e tutto ciò che è umano è storico, contestabile, perfettibile, insomma non assoluto. La fede cristiana – che, essendo appunto fede, viene abbracciata e va testimoniata, proposta e non imposta – libera l’uomo dall’idolatria, anche dall’idolatria di una ragione concepita come Dea-Ragione. La ragione non è quella prostituta di cui parla Lutero, ma non è nemmeno quella dea davanti alla quale seguitano a inginocchiarsi i seguaci – laici e cattolici – delle svariate forme di fondamentalismo razionalistico. La ragione, piuttosto, è una preziosa lanterna, da tenere sempre accesa, necessaria per la correzione dei nostri errori; indispensabile perché le nostre scelte vengano compiute a occhi aperti, vale a dire con l’intelligenza delle loro conseguenze; e capace di scrutare quei limiti di se stessa, senza la cui consapevolezza popoleremmo la Terra, come insegnano tragiche esperienze del passato e del presente, di idoli mostruosi assetati di sangue.
Dario Antiseri
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