Auto, abbigliamento ma anche gioielli e tonno Dopo la grande fuga le aziende fanno dietrofront Perché produrre all’estero non conviene più e perché la nuova sfida è la qualità «made in Italy»
di Stefano Filippi
Che cos’hanno in comune aziende come Beghelli di Bologna (sistemi di sicurezza) e Azimut di Torino (cantieri navali di lusso), Gpp di Castelfranco Veneto (tosaerba) e Furla di Bologna (pelletteria), Seventy di Venezia (abbigliamento) e Fiamm di Vicenza (accumulatori e clacson), Artsana di Como (prodotti sanitari e per l’infanzia) e Asdomar di Olbia (tonno in scatola)? Sono marchi noti, gioielli dell’industria italiana. Ma sono anche tra i pionieri della rilocalizzazione. Imprese che una decina d’anni fa avevano trasferito all’estero una parte della produzione e adesso fanno il percorso inverso.
Il fenomeno al momento coinvolge un centinaio di aziende italiane ed è in continua crescita, e questo è un dato ancora più significativo se si considera che la crisi non è certo passata. Per molte imprese è meglio tornare a produrre in un’Italia ammaccata piuttosto che restare in Paesi dove la convenienza e la qualità si sono rivelate un fuoco di paglia. La rilocalizzazione rappresenterà una delle colonne della ripresa: secondo uno studio di Intesa Sanpaolo, nel biennio 2015-16 l’economia dei distretti industriali italiani crescerà del 3,2 per cento annuo in virtù dell’innovazione e del rientro di molte produzioni.
Erano partite per il fronte orientale e ora tornano indietro. Avevano ceduto alla prospettiva dei prezzi bassi, della manodopera vantaggiosa, della globalizzazione delle catene di montaggio, o semplicemente avevano approfittato delle agevolazioni fiscali concesse da Paesi più o meno lontani agli imprenditori che avessero investito da loro. D’altra parte, non cerca anche l’Italia di «attirare capitali esteri», come promette ogni governo? E non è forse anche questa una forma di delocalizzazione produttiva?
Con l’allargamento dello spazio (…)
(continua a leggere) IL RIENTRO DELLE IMPRESE IN ITALIA A VOLTE …
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