di Maddalena Rostagno e Andrea Gentile
La morte di Mauro Rostagno, il giornalista ucciso nel 1988, e i giorni che seguirono, nel racconto di sua figlia
Ero in camera di Chicca, sdraiata sul letto. La stavo aspettando per farmi aiutare in matematica. Ho sentito degli spari in due scariche, ma non ci ho fatto caso. Ci ho pensato dopo. In campagna ogni rumore, anche quello degli spari, sembra naturale. Poteva essere un cacciatore che voleva allontanare i cani, a volte succede. All’improvviso il portone del Gabbiano, la parte più antica del baglio, si è spalancato. Ho sentito qualcuno che gridava «Chicca, Chicca». Non ricordo chi fosse. Mi sono affacciata per dire che mia madre era in ufficio. Poi sono uscita, qualcuno è venuto a prendermi e mi ha presa per mano. «Mauro ha avuto un incidente» mi hanno detto. «Portatemi da loro, da Mauro e Chicca» ho detto. Andrea, un ragazzo della comunità, ha detto «Non ti muovere» e mi ha tirato una sberla. Poi ho sentito l’ambulanza, vicino, molto vicino, e poi anche le urla di Chicca.
Vi ho raggiunti in strada, nel buio. Chicca è venuta verso di me, dietro di lei alcuni carabinieri. Ci siamo abbracciate. Mi ha accarezzato e mi sono accorta che aveva le mani sporche di sangue. Né io né lei ricordiamo bene cosa ci siamo dette, come me l’ha detto. Di sicuro mi ha chiesto se volevo vederti, io le ho risposto di no. Poi i carabinieri l’hanno portata subito in caserma, a Napola. Mi sono seduta a terra sul vigneto davanti all’ufficio e dopo poco ho deciso che volevo raggiungerla a piedi. Mi hanno accompagnato due ragazzi della comunità, fuori c’era un po’ di gente, alcuni in divisa e altri no, mi sembra che qualcuno tenesse un faretto in mano per fare luce. Non mi sono girata verso la macchina, ho continuato a guardare dritto, nel buio. Per strada abbiamo incontrato Paolo, un muratore che era spesso in comunità per fare lavori. Ci ha dato un passaggio.
Arrivata in caserma, mi hanno indicato una stanza in fondo al corridoio. C’erano Chicca e Monica, sedute su una panchina, guardavano la televisione e mi davano le spalle. È solo in quel momento che ho realizzato. Il conduttore del tg parlava e sullo schermo andavano in onda le tue foto. Solo in quel momento ho realizzato. Ti avevano sparato. La mattina dopo, appena ho aperto la porta della mia stanza, ho visto da lontano una persona seduta sui gradini dell’ufficio con un enorme cappello viola. Ho capito subito che era lei, Nartano. La prima ad arrivare. Una delle più grandi amiche di mia madre, quella con cui era tornata in India una volta. Nartano l’avevamo conosciuta ai tempi di Macondo, a Milano.
Eri venuto a prendermi all’asilo, a Lampugnano, con mantello nero e kajal. Lei era lì fuori ad aspettare sua figlia Viola, ti ha notato e siete diventati subito amici. In quegli anni gestiva il Rebelot, una stravagante boutique, poi lei e Viola si erano trasferite con noi a Saman per qualche anno, dove Nartano teneva i suoi laboratori di cucito. Ma non era cucito il suo; era creatività allo stato puro. In quei giorni Nartano non mi ha lasciata per un secondo. Mi abbracciava, mi regalava sorrisi, chiacchierava, e una di quelle sere guardammo insieme Il petomane, con Tognazzi che faceva il «Paganini del peto».
Ho consegnato a lei la mia colonna sonora per il funerale, per il tragitto in auto dalla chiesa al cimitero; dentro c’era The sound of silence di Simon & Garfunkel, ripetuta venti volte, in loop. Ed è lei che ha fatto il cuore sul cemento del loculo dove ti hanno messo prima che avessi un pezzo di terra al cimitero. Nei giorni della camera ardente a Saman, sono venuti in centinaia per salutarti. Io ero lì fuori, seduta a terra, a guardare tutti, senza entrare. Con alcuni ero accogliente, con altri meno. Il tuo amico Checco – che avevo conosciuto a febbraio a Trento, dove mi avevi portato per il ventennale del ’68 – ha capito di cosa avevo bisogno: si nascondeva e mi lanciava sassolini. Mercoledì sera Chicca ha bussato alla porta e mi ha chiesto se ero davvero sicura di non volerti vedere. Era l’ultima possibilità. (marzo 2012)
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