di Maria Antonietta Pirrigheddu
Mi avevano consigliato di chiamare un prete.
Non che fossi molto convinto: mi sembravano un po’ superstiziosi i miei nuovi compaesani. Ma eravamo in Sardegna, pozzo senza fondo di storie macabre, dove sotto ogni sasso si nascondeva uno spirito. Si raccontava di donne morte di parto che per sette anni dovevano lavare nel fiume i panni dei loro bambini, e lanciavano maledizioni tremende su chi le disturbava, perché costrette a ricominciare da capo; si parlava di processioni di morti che invadevano i viottoli di campagna e le chiese a mezzanotte, trascinando con sé i viventi presi alla sprovvista.
“Tradizioni” le chiamavano. “Folklore”. Invece molti ci credevano ancora. Ma io che c’entravo con quella gente?
Dunque non cercai il prete. Però… Non mi sentivo tranquillo, ecco. Un’inquietudine quasi solida strisciava per le mie stanze, mi stava dietro le spalle, mi afferrava i piedi la sera. Suggestioni di paese, certo; oppure la mia grande stanchezza, che proprio lì ero venuto a curare.
«Questa casa è viva» ironizzavo. «Respira con me, mi si muove attorno, mi osserva… pensa». Tentavo di sdrammatizzare, ma l’impressione era proprio quella: che qualcuno vivesse con me.
Quando cominciai a sentire i primi rumori, mi chiesi se non fosse il caso di andare da un neurologo. Non riuscivo a localizzarli: erano sotto il pavimento, erano dentro le pareti, erano dentro la mia testa. Ma non c’era un “sottopavimento”, e le pareti erano di pietra. La mia testa, invece, era piena di cavità; e in quelle cavità si insinuavano immagini, voci, storie che non mi appartenevano e non conoscevo, e si confondevano coi pensieri miei. Avevo paura.
Domandai ai vicini chi avesse abitato lì prima di me. Se davvero c’era uno spirito, volevo almeno conoscerne il nome! Una donna mi dissero, morta l’anno prima ancora abbastanza giovane. Una donna comune, con una vita normale.
Ecco, lo sapevo! Lo sapevo che non c’entrava niente. Perché era un uomo quello che vedevo in sogno, un uomo quello che mi camminava in casa. Era maschile la presenza che mi alitava addosso. Perciò mi stavo inventando tutto. E sarebbe stato inutile andarmene, perché i fantasmi erano miei e mi avrebbero seguito ovunque, forse fino in manicomio.
Avevano lasciato, nel ripostiglio, quattro scatole di cartone con gli oggetti appartenuti a lei. C’era di tutto: vestiti ancora nuovi, fotografie, una sciarpa lunghissima, una piccola collezione di cristalli. Perfino un paio di quaderni – vuoti – da cui mancava metà delle pagine.
I suoi libri, invece, erano ancora allineati sugli scaffali del soggiorno. Molti titoli strani, solo qualche romanzo. E il suo nome scritto all’interno, sulla prima pagina, ripetuto su ciascun libro: Anna. Piccolo, preciso. Sembrava l’unica parola che avesse mai scritto in vita sua. Anna.
Presi l’abitudine di sfogliarli prima d’andare a dormire. Conciliavano il sonno. Poi i sogni si riempivano di segnalibri, di titoli improbabili, di fogli fitti di parole minute che tracimavano dai bordi, si cancellavano, si sovrapponevano. La grafia di Anna. Chissà chi era, che faceva, cosa pensava. Almeno mi distraeva un po’ dalle mie ossessioni.
Ogni tanto tornavo nel ripostiglio. Una mattina, mentre riaprivo una scatola, sentii un peso sulle spalle. Peso e gelo. Mi mancarono le gambe.
«Non troverai niente di quel che stai cercando».
Passò del tempo prima che riuscissi a voltarmi. C’era uno. Uno, qualcuno, qualcosa… Un’ombra? Un essere? Un’allucinazione?
«Non troverai niente» ripeté.
Stavo guardando in faccia il mio incubo, e non capivo le sue parole. Che ne sapeva lui delle mie intenzioni? O forse era logico che le conoscesse, visto che era solo una mia proiezione. Questo pensiero mi tranquillizzò un po’.
«Io non sto cercando nulla» risposi con un filo di voce.
«Bugiardo».
Restai di sasso. Non seppi far di meglio che raccogliere le forze e andarmene, badando bene a chiuderlo nello stanzino insieme alle scatole e a tutte quelle cianfrusaglie, che all’improvviso non m’interessavano più.
Ci volle qualche giorno per riprendermi. Non parlai con nessuno, perché temevo mi avrebbero costretto ad andare dal medico, o peggio ancora da un esorcista. Naturalmente non entrai più nel ripostiglio. Finché “quello” stava chiuso là dentro io ero al sicuro. Infatti non lo sentivo più passeggiare per le stanze.
Ci misi poco a convincermi d’averlo solo immaginato.
…
Mi svegliai di scatto. Stavano bussando, chissà da quando. Corsi ad aprire ma sulla porta non c’era nessuno. Era già pomeriggio inoltrato, cominciava a far buio e avevo dormito troppo.
Quando rientrai in soggiorno lui era là. Di nuovo mi mancò il fiato. Ma mi ero preparato.
«Cosa vuoi da me?» riuscii a dire.
Mi rispose con un’altra domanda: «Esiste qualcosa che tu possa darmi?»
Mi gelò. Tentai di aggirare l’ostacolo: «Tu… tu vivi qui?»
«Qui si può dire. Quanto al viverci, questo è un altro discorso».
Sentii un po’ di nausea. «Ma chi sei, tu?»
«Una tua fantasia, no?»
«Mi leggi nel pensiero?»
«No. Ti ascolto quando parli da solo».
Era troppo. La paura divenne rabbia, astio, odio, divenne impulso di fuga e anche d’omicidio, perché avrei voluto annientare quell’essere prima che lui annientasse me, ora che sapevo che lui non era me. Non poteva essere me, non poteva essere fantasma della mia mente, perché la mia pazzia non avrebbe parlato così. Troppo freddo, troppo viscido, troppo ambiguo.
Decisi di non rivolgergli più la parola, di non degnarlo della mia attenzione.
Cominciò così una strana convivenza. Una convivenza forzata, visto che nessuno dei due poteva liberarsi dell’altro. Soprattutto molto silenziosa.
Col passare del tempo, però, la sua indifferenza prese a darmi fastidio. Possibile che non gli interessassi neanche un po’? Che non avesse voglia di scambiare due parole, di conoscere appena il suo coinquilino? Invece io mi rodevo dalla curiosità.
Un giorno ci trovammo faccia a faccia. Lui, come di consueto, stava contemplando la libreria. Passava ore a guardare quei libri, ad accarezzarli con la sua ombra, a sfogliarli col desiderio.
«Lei ha distrutto tutto» sbottò. «Ha bruciato tutto quel che aveva scritto».
Sobbalzai. Dunque davvero aveva capito cosa cercavo nel ripostiglio. Dunque anch’io avevo visto giusto: perché molti oggetti, molti dettagli in quella casa parlavano di lei, delle sue tendenze, delle sue passioni.
«C’era una vita intera di lavoro» continuò. «Ma ha ridotto tutto a pezzettini: ogni pagina, ogni appunto, ogni riga. E poi li ha buttati nella stufa. Non ha più scritto una parola».
«Perché?»
«Perché così ha deciso. Fine della conversazione».
Come al solito. Fine della conversazione. Mi portava una risposta e mi lasciava dieci domande, allentava un nodo e tirava la corda dall’altra parte. La mia curiosità stava diventando un cappio. Ma non me ne sarei andato senza la soluzione, senza la frase intera di quella specie di rebus.
Cambiai atteggiamento: iniziai a tormentarlo. Non perdevo occasione per chiedere, pressare, stuzzicare. Tanto non sarebbe sparito. Lei era stata la sua donna? Cos’è che scriveva? Perché aveva bruciato tutto? E lui, che cosa lo tratteneva lì? Quella storia era un filo arrotolato sulla sua lingua: se ne afferravo un capo e provavo a tirare, ne appariva un pezzetto – e subito s’inceppava. Ma io ero paziente, e a poco a poco potei ricucire la vicenda. Quel che non diceva riuscivo ad intuirlo; e per lui fu un sollievo rompere un silenzio che durava da vent’anni.
No, non era stata la sua donna. Però se la teneva accanto, perché non poteva farne a meno. La nutriva di speranze, la manteneva accesa, perché forse in un futuro l’avrebbe voluta con sé. Le insegnava ad aspettarlo, a non avere fretta: ogni cosa ha il suo tempo, il momento propizio.
Ma qual è il tempo della pazienza? Quanto dura una donna trattenuta con lacci di soli desideri? Alla fine lei disse basta. Mise fine a una relazione che non era mai iniziata. Lo pregò di lasciarla in pace, di non tornare più nella sua casa.
Lui non la prese bene: non se l’aspettava, non era da lei! Era sempre stata dolce e comprensiva… Da dove veniva tanta determinazione? Una simile ferma freddezza?
Forse fu la sorpresa, forse fu la stizza oppure la paura, a mettergli in gola parole come cani inferociti. Ora che tutto gli scivolava di mano sentiva l’urgenza di ridimensionarla. Le azzannò il cuore e le cose in cui credeva, le ridusse a brandelli la fiducia in se stessa. Derise i suoi sogni, le piccole ambizioni, la sua voglia di scrivere e di raccontare, di parlare degli uomini, del mondo e della vita. Schernì la sua mania di appuntare, di raccogliere in quaderni quel che sembrava importante, che poteva essere utile a chi, forse, sarebbe venuto dopo.
Lei non rispose. Ma cominciò a rovistare: nei cassetti, in mezzo ai libri, tra i block-notes della vecchia scrivania, e tirò fuori ogni foglio, ogni goccia d’inchiostro versata. Mentre lui la guardava sconcertato, compì il suo rito. Non distrusse soltanto centinaia di pagine scritte. Bruciò dentro la stufa anche una parte di se stessa: quella parte in cui lui si era annidato, tra i sogni e le piccole ambizioni.
Poi gli chiese d’andarsene.
Non la incontrò più. Faceva lunghi giri per evitare quella strada, per non vedere le sue finestre illuminate la notte. Sapeva che non gli avrebbe più permesso di varcare la sua porta.
Non da vivo, almeno. Ma quando un imprevisto lo condusse all’altro mondo, la sua condizione cambiò. Il peso degli errori gli impedì di lasciare i luoghi in cui era vissuto; e il richiamo di quel che aveva perso divenne più forte con la morte. Si ritrovò a casa di lei senza rendersene conto, trascinato da tutte le situazioni che ancora gli vorticavano in testa. E lì si fermò.
Ecco cosa sono le catene che accompagnano i fantasmi dei castelli, gli spiriti ritratti in storie antiche. Non è la sorte a tenerli prigionieri, o le ingiustizie subite, o l’esser stati ammazzati. Sono i loro pensieri a incatenarli al passato: le brame e i rancori, le vicende inconcluse, le recriminazioni.
Chissà se lei si era mai accorta della sua presenza. Chissà se si sentiva osservata, spiata, forse anche protetta.
«Ma perché sei ancora qui?» gli chiesi un giorno. «È più d’un anno, ormai, che è morta».
«Non saprei dove andare» rispose lui.
«Perché non la cerchi?»
«Se anche la trovassi, se sapessi dov’è, non potrei mai raggiungerla. Lei è altrove. Troppo altrove da me».
Mi venne in mente l’abisso che secondo le leggende separa il cielo dall’inferno. Forse era davvero così. Anche se ora l’inferno mi appariva diverso da come l’avevo sempre immaginato.
«Non puoi restare abbarbicato a questa casa per l’eternità. Non so quale sia il tuo posto, o il tuo viaggio, ma te ne devi andare».
Mi rispose quasi sibilando, con una cattiveria che non gli conoscevo:
«Non ci penso nemmeno. Io sto bene qui».
Capii che non l’avrei mai convinto; e l’idea di farmelo nemico mi inquietava assai. In fondo aveva ragione: qual era l’aldilà che lo attendeva? Esisteva un punto, nell’universo, preparato per lui? E quale solitudine lo avrebbe oppresso?
Certo era più confortante vagare in spazi familiari, rifare ogni giorno lo stesso percorso, passando tra i ricordi di una vita vissuta senza slanci né grandi dolori. Le cose perdute appaiono migliori; e il rifugio più vicino è sempre l’abitudine, non solo per i vivi ma anche per i morti.
…
Il mio soggiorno in Sardegna stava per finire. Di lì a poco il mio amico si sarebbe trovato con un nuovo coinquilino. Mi chiedevo come l’avrebbe accolto. Si sarebbe divertito a spaventarlo? O avrebbe preferito non farsi notare? Mi si stringeva il cuore a pensarci.
No, non potevo lasciarlo lì. Dovevo strapparlo via da quella casa. Dovevo liberarlo dalla prigionia che lui stesso si era imposto. Io sapevo dove aveva messo radici, quali oggetti più di altri lo tenevano legato.
Andai dal proprietario dell’appartamento e gli chiesi di vendermi i libri e le scatole posteggiate nel ripostiglio. Mi diede tutto per una cifra ridicola. È sempre così: custodiamo le nostre cose con cura assoluta, quasi fossero creature, e poi i nostri discendenti le barattano per pochi soldi.
Quando mi vide armeggiare attorno alla libreria, lui inorridì.
«Che stai facendo?» domandò allarmato.
«Regaliamo tutto alla biblioteca!» gli risposi.
«Sei impazzito? Non puoi farlo. Non puoi farlo!»
«Perché no? Sono miei e li do a chi mi pare».
Si mise a gridare, neanche volessi ammazzarlo. Sembrava una madre a cui stavano strappando il figlio dalle braccia, ma io non l’ascoltavo. Non mi avrebbe commosso. Sistemati i libri in biblioteca, mi dedicai alle scatole del ripostiglio. I vestiti al robivecchi, qualche suppellettile ai vicini, qualcos’altro nella spazzatura. I cristalli li tenni per me.
Lui era affranto. Era diventato un senzatetto, un accattone a cui avevano rubato gli stracci e i cartoni del letto.
Così me lo lasciai, il giorno della mia partenza, seduto sui gradini di casa con la testa fra le mani. Ne avevo gran pena, ma sapevo di aver fatto la cosa giusta. Più nulla lo tratteneva, e prima o poi se ne sarebbe andato. Avrebbe cominciato il suo viaggio, anche se con vent’anni di ritardo.
…
Lasciavo la Sardegna dopo cinque mesi. Chissà se ci sarei tornato. Mi sistemai sulla poltrona accanto al finestrino; trattenni il fiato per il decollo e poi aprii il mio libro.
“Anna”, era scritto sulla prima pagina. Come sempre. Ma alla fine c’era dell’altro. Aveva per titolo “L’attesa infinita”.
Io sono una clessidra.
Mi scorre dentro la sabbia,
granello dopo granello…
Riprendeva dopo uno spazio:
Riparte da zero il conteggio.
Qualcuno mi ha capovolta
Le strofe erano abbozzate, tranne l’ultima. Forse cercava ancora le parole.
Il giro infinito riprende
e nemmeno mi è dato sapere
qual è il tempo che segno ogni volta,
se un minuto o mezz’ora o se un anno.
E aspettando che il vetro si rompa
anche un dubbio compare e mi punge:
mi chiedo qual è la prigione,
se il vetro o la sabbia o la mano…
…e io cosa sono dei tre?
Una poesia scampata al rogo. Le era sfuggita? Forse non aveva osato commettere un crimine su un libro, strappando la pagina.
Oppure aveva voluto conservare qualcosa di sé e della sua storia d’amore attesa e non vissuta… Sapendo che prima o poi qualcuno sarebbe andato oltre le impronte che aveva cancellato: liberandole il cuore e sciogliendo un uomo dai lacci dei rimpianti.
FINE
Maria Antonietta Pirrigheddu
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