di Claudio Angelini
Le lettere italiane non mancano certo d’una tradizione favolistica degna di rispetto, redatta sia in lingua che nei vari dialetti della penisola. Nel primo caso, un nome che ha aperto la via lasciando, nel genere, notevole impronta è quello del Clasio (Luigi Fiacchi, detto il toscano), che con le sue “Favole” del 1795, ambientate nel Mugello, intende fornire, lui sacerdote e accademico della Crusca, chiari esempi di bello stile e ammaestramento morale. In ambito dialettale, il primo nome che viene in mente è quello di Giovambattista Basile, napoletano del cinque-seicento, la cui raccolta “Lo cunto de li cunti“, tradotta tra l’altro in italiano dal Croce, e in cui l’elemento dotto s’intreccia con la fantasia popolare, ebbe il merito di stimolare l’ispirazione d’importanti autori stranieri, quali il Perrault e i fratelli Grimm. In tempi più vicini a noi, sono da ricordare le fiabe di Guido Gozzano, rivolte ai giovani e ai meno giovani, dov’è molto vivo il senso della magia e dell’avventura, con le quali però i protagonisti non possono venire a capo d’ogni difficoltà se non dotati anche di saggezza e determinazione. Diversi i casi infine di Gianni Rodari e Italo Calvino, in quanto i personaggi delle loro fiabe divengono simboli per interpretare fatti e situazioni della realtà contemporanea. Abbiamo ora letto con piacere il volume di Luigina Battistutta “Fiabe e leggende della Livenza” (pagg.200, Santi Quaranta editore, € 10,50), opera prima di questa scrittrice friulana, che sembra rientrare, fatte salve le differenze, nel filone tracciato da un altro letterato di questa regione ricca di fantasia vivace e a un tempo articolata: Carlo Sgorlon. Si tratta di quell’attitudine narrativa nostalgicamente volta alla salvaguardia del patrimonio di cultura, tradizioni e costumi popolari che per secoli hanno costituito il substrato stesso della civiltà del Friuli, i cui abitanti, laboriosi e tenaci, pur nelle prove più ardue della loro storia, hanno serbato il culto di valori umani fondamentali. Il progresso incalza, si tende a un superamento delle differenze sociali, nuovi modelli ed esigenze insorgono; ma è giusto non dimenticare le proprie origini, la sana mentalità d’una volta, una concezione cioè del vivere che, poggiando su sentimenti e valori umani irrinunciabili, si può trasferire di generazione in generazione, e adattarsi a ogni nuova struttura sociale. Sgorlon non sembra propenso a credere che radicati princìpi di cultura e psicologia popolare possano stabilire compromessi con la modernità; li ritiene con più probabilità destinati a sparire. Al confronto, il senso che informa quest’opera d’esordio della Battistutta è, certo in una più contenuta visione d’insieme, molto aperto e ottimistico. Ella ha una fisionomia propria, per cui la sua espressione, anche rispetto agli scrittori citati, ha degli intenti abbastanza netti. Non descrive, ad esempio, i luoghi della sua infanzia, la Pedemontana friulana (come aveva fatto il citato Clasio per il Mugello) al fine di trarne spunti di spirito e colore locale da disciplinare e educare; non ricorre all’elemento magico, come Gozzano (di cui, peraltro, pare tenga presente la tendenza alla pausa contemplativa e allo stile limpido e rarefatto), per movimentare e rendere avvincente la trama. La Battistutta scrive essenzialmente per il piacere di scrivere, di rievocare, con leggerezza di tocco e di linguaggio, quasi usasse il racconto come specchio in cui ritrovi la sua immagine di bimba, scherzosa e lieta a contatto con i suoi cari, la sua gente, le sue tradizioni. Solo indirettamente la Battistutta vuol fare opera d’edificazione morale attraverso caratterizzazioni di onestà, naturalezza, probità di costumi. L’intento polemico con il tempo presente, in lei, o è generico o manca del tutto. La scrittrice non giunge alla formulazione d’una morale precisa; la trae piuttosto dalle cose, e come in molti casi di scrittura femminile, l’estetica tende a coincidere con l’etica. Tutto ciò che è genuino, naturalmente bello perché sincero, non corrotto dall’avidità e dall’egoismo, tutto ciò che è spontaneo come l’infanzia, è anche buono, e costituisce l’essenza della vita. L’ottimismo della scrittrice consiste nel ritenere possibile per l’uomo mantenere semplicità di cuore e di mente a qualunque stadio evolutivo egli appartenga, a qualunque classe sociale. Significativi, al riguardo, alcuni racconti, di cui citeremo i titoli: “Tutti muti alla Sagra degli Osei”, “L’asino e il contadino”, “L’apparizione della Madonna alla Motha di Livenza”, “Il conte mendicante” . Potrebbero sembrare efficaci quadretti, o bozzetti, vivide rappresentazioni di abitudini e costumi locali; ma non è così. La Battistutta non si può etichettare come scrittrice regionale, non foss’altro perché l’epoca del realismo è trascorsa da un pezzo. Bisogna dunque ammettere che le sue sono vere favole, perché fanno appello a un istinto umano primordiale, quello fantastico, tipico della fanciullezza, anche se l’autrice ama ambientarle non in paesaggi esotici o immaginari, ma nei luoghi prediletti della sua giovinezza, probabilmente per dimostrare che non si è distaccata da esse, ma che le rivive in altre forme, inalterate nella sostanza, nel fondo del suo animo. E così il lettore si abbandona volentieri al flusso lieve della Livenza che, nata nella Carnia, mormorando nel suo percorso fino a Caorle, sull’Adriatico, riporta alla memoria storie e leggende care a chi è nativo di quella terra, storie in cui talora è dato rinvenire anche echi di saghe nordiche, essendo sempre stata la regione punto d’incontro, e fusione, di civiltà diverse. Ed anche chi non sia friulano s’appassiona a quel modo di narrare perché sente nell’autrice la discrezione, e l’intensità, necessarie a trascendere confini puramente geografici.
Claudio Angelini
http://www.claudioangelini.it
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