di Licia Canton
Quattro racconti di Dela De Santis
cantonli@cusmano.com
deliadesantis@yahoo.com
(segue sotto la versione inglese del testo: traduzione italiana di Egidio Marchese)
Licia Canton: Qual è la giornata tipica di Delia De Santis come donna? E come possiamo paragonarla con quella di Delia De Santis scrittrice?
Delia De Santis: Non credo di poter separare la giornata tipica di Delia De Santis come donna da quella di Delia De Santis come scrittrice, perciò è difficile per me fare un paragone. Ho sempre condotto una vita abbastanza piena e la priorità è sempre stata quella di guadagnarmi da vivere in un modo o nell’altro – non sarei in grado di guadagnarmi da vivere scrivendo racconti. Probabilmente no. E il mio lavoro fuori casa non ha avuto mai nulla a che fare con la scrittura. Molti scrittori di narrativa fanno anche altri tipi di scrittura, come articoli per riviste, scritture tecniche, libri di autori-fantasmi (dove non appare il loro nome, ma quello di chi ha commissionato il libro), ecc.- per avere un reddito. Io non sono interessata a quel tipo di scrittura. Un gran numero di scrittori sembra che siano pure coinvolti col sistema dell’istruzione, a un livello o un altro. Per tutta la vita sono stata una che ha fatto di tutto. Sono passata dal lavoro di parrucchiera a quello di agente immobiliare, da contabile a partner di mio marito in una ditta di sviluppo edile e di costruzione – adesso siamo nello stato di andare in pensione. A parte il lavoro che mi procurava un salario, ho sempre tratto piacere dagli altri aspetti della mia vita quotidiana: accudire alla casa, negli ultimi sei anni accudire ai nipotini quando occorreva, ai genitori, cucinare buone pietanze, essere coinvolta in attività della comunita, amici… nulla di straordinario, precisamente quello che la maggioranza della gente fa nella vita. Ma per me, queste esperienze di vita – quando sono bilanciate propriamente (e insisto a dir questo, perché per anni non sono stata capace di bilanciare le cose propriamente) – sono elementi positivi e d’ispirazione che mi hanno portato a scrivere. Per esempio, posso avere una grande soddisfazione a lavorare nel mio giardino coi fiori – amo le piante perenne… e all’improvviso mentre lavoro con le mani, la mia mente comincia a immaginare…cosicché non solo fiori germinano nel mio giardino, ma anche idee. Comunque, le idee possono essere state generate in realtà da altro prima del giardinaggio. Può essere stato un avvenimento che ha avuto luogo durante la mia visita a mio padre all’ospedale, o il modo con cui una giovane donna soppessava con la mano una melanzana quand’ero al negozio di generi alimentari. Allora, con le idee che prendono corpo, devo trovare il tempo di cominciare a scrivere. Se sento che la storia è una di quelle che vengono fuori di getto, allora posso lasciare perdere tutto e comincio a scrivere. O almeno metto quanto più posso sulla carta o al computer. Spesso ho pensato: bene, perché non mi organizzo in uno schema di lavoro, lavorare alla scrittura tante ore al giorno, essere più disciplinata?… ma ancora non sono stata capace di entrare in quella routine. Ultimamente ho finito con l’accettare che forse non sono fatta per lavorare proprio con una routine… perché questa probabilmente non mi indurrebbe alla creatività. Allora perché non lasciare libera la mia creatività?
LC: Ho avuto il piacere di ascoltarti mentre leggevi la tua narrativa in diversi eventi letterari. Come fai a scegliere quale narrativa leggere?
DDS: Beh, prima di tutto scelgo una storia che sia abbastanza breve. O un brano di una storia più lunga, che sia di per sé completo. A me non piace ascoltare un altro scrittore leggere lunghi pezzi, perciò non voglio imporre una lunga lettura a chi mi ascolta. Ma forse gli altri non sono come me – non so. Ho una mente che vaga facilmente. Sono più una che osserva anzicché una che ascolta. Posso essere facilmente distratta da come una persona atteggia il polso o da come incrocia le gambe o dalla forma delle sue sopracciglia. Così all’improvviso non ascolto più ma guardo, e immagazzino nella mente – non consapevolmente, credo – carabattole che in seguito mi portano a creare un collage… mi permettono di formare un personaggio completo in una delle mie storie… o definire un abito o una peculiarità che può essere attribuita a un personaggio. Inoltre, mi accerto che quello che leggo non contenga lunghi passi descrittivi, ma di solito non uso lunghe descrizioni nella mia narrativa. Preferisco anche leggere pezzi che hanno molto dialogo … personaggi che conversano. Mi piace il dialogo… Lo uso molto, per creare e protrarre in una storia una tensione.
LC: Qual è stata la prima storia che hai letto in pubblico?
DDS: Penso che la prima storia che ho letto in pubblico sia stata quella intitolata “Faces in the Window” (“Facce alla Finestra”). Questa storia era stata pubblicata nella rivista letteraria chiamata Mind in Motion, in California. Lessi quel racconto alla conferenza dell’AICW (Associazione di Scrittori Italocanadesi) a Toronto nel 1988, credo. L’evento ebbe luogo in una grande sala e c’era un pubblico piuttosto folto. Ricordo ch’ero veramente nervosa . . . e il cuore mi batteva forte. Ma ce la feci fino in fondo – non sono morta. E so che andò pure bene, perché era un buon racconto. Era un pezzo surreale su un uomo di nome Sam, che aveva perduto il suo amico vicino di casa, morto di cancro. La casa dell’amico fu poi buttata giù e nel lotto fu costruita una casa di cura. Nella sua terribile solitudine, Sam ricominciò a suonare la fisarmonica, cosa che non aveva più fatto da quand’era giovane. Solo che ora suonava di notte, nel suo giardino dietro casa, e perciò disturbava la quiete… e naturalmente attirava i vecchi alla finestra, a guardare – onde il titolo “Facce alla Finestra.”
LC: Quale fu il primo racconto che hai pubblicato?
DDS: Non ricordo bene quale fu. Può essere stato “No Man of Music.” Infatti quel racconto vinse il terzo premio ad un concorso e fu pubblicato nella stessa rivista che organizzò quel concorso. Accadde nel 1987. Pochi anni dopo una diversa versione di quella storia fu pubblicata in Timber Creek Review – negli Stati Uniti. Mi sembrò di essere fortunata ad aver il mio racconto pubblicato lì. “No Man of Music” (“Non un uomo di musica”) tratta di una giovane donna – alquanto giovane – in Italia, che fu forzata a sposare un uomo più vecchio – e brutto per questo – che l’avrebbe portata a vivere in Canada. Lei andò a cercare aiuto in chiesa presso un prelato di grado superiore, ma le fu detto di obbedire. Il racconto è ambientato in Canada, quando lei è già vecchia. Attraverso gli anni fu abusata dal marito ormai defunto, e al tempo presente è abusata dal figlio. Ma lei non si scoraggia né si arrende. Dentro di sé rimane forte. Non si lascerà mai spezzare. Ironicamente, il nome del marito era Orfeo. E nella storia dice alla signora insegnante alla quale puliva la casa, che suo marito naturalmente era “no man of music,” non un uomo di musica. Non credo che questa sia una storia che leggerei in pubblico. È scritta in un inglese troppo semplificato.
LC: Perché non la leggeresti in pubblico?
DDS: La storia è narrata attraverso un flusso della coscienza e la vecchia donna pensa in un inglese spezzato. Molti scrittori userebbero il dialetto o un inglese stentato solo nel discorso parlato, nel dialogo. La storia ha un ritmo interiore, che non è semplice. Non è un ritmo in cui ti lasci andare facilmente quando leggi a voce alta, e avrei paura di non rendere giustizia alla storia… perché è una buona storia.
LC: Cosa ti ha spinto a scrivere?
DDS: Penso che cominciai a scrivere nella mia testa, quando ero una bambina. Ero timida durante l’età della crescita, e non avevo molti amici. Avevo perciò molto tempo per sognare e creare delle storie nella mia mente. Forse era quello un modo per vincere la mia solitudine. Ma in realtà non cominciai a scrivere che quando fui nei miei trent’anni. Allora non lavoravo più fuori casa. I miei due figli erano piccoli e ci eravamo trasferiti in un podere per hobby. Essere sola per molto tempo durante il giorno e nuovamente a contatto della terra, mi ha portato a riconnettermi con la mia infanzia – in Italia vivevamo in una fattoria – e le storie cominciarono a tornarmi alla memoria. Solo che questa volta decisi di non lasciarmi sfuggire i miei sogni. Perciò mi sono comprata una macchina da scrivere e senza neanche sapere precisamente quel che facevo, cominciai a scrivere.
LC: Delle storie che hai scritto, quante ne hai pubblicate?
DDS: Una trentina. Alcune sono state ripubblicate. Direi che quasi tutte le storie che ho scritto – cioè completato – sono state pubblicate. Poi ho una grande scatola piena di storie o solo iniziate o quasi finite. Quella scatola potrà contenere alcune delle mie più belle storie, perciò debbo guardarci seriamente dentro. Non è una scatola da buttare via.
LC: Quale delle tue storie ha per te un significato più intenso?
DDS: Direi che è “The Ache Within” (“Il dolore dentro”). È stata pubblicata in The Anthology of Italian-Canadian Writing [a cura di J. Pivato, Guernica, 1998]. La storia è narrata in uno stile semplice, dal punto di vista di una giovane ragazza. La sua nonna paterna morì in Italia. La ragazza e suo fratello e i genitori sono tutti incapaci di trovare una maniera appropriata di vivere il lutto, di dare sfogo al loro dolore. A causa della lontananza, non possono partecipare a nessuno dei consueti riti che accompagnano il trapasso di una persona amata. La ragazza dice: “Chiudo gli occhi e cerco di immaginare mia nonna Evelina morta. Cerco di catturare l’immagine della faccia marrone, piena di rughe, come se fosse di cera… i piccoli occhi chiusi alla vita per sempre… ma invece lei viene a me sempre viva…” Alla fine la ragazza dal dolore schiaccia la pena tra il cuscino e se stessa, “volendo trattenere la pena, ma anche fuggire.” Per di più, penso che questa storia abbia un significato a un livello più profondo. Tutti abbiamo almeno un momento intenso nella nostra vita. E il solo fatto che non possiamo ricatturare interamente quel momento, è una perdita, una pena. Anche se solo dolce-amara.
LC: Il tuo racconto ‘A place I Once Knew,’ che appare per la prima volta su Bibliosofia, è diverso da ogni altro tuo racconto. Cosa ti ha ispirato a scrivere sull’essere spirituale o soprannaturale?
DDS: Ecco, questa è una storia che venne a me come un regalo. L’ho scritta in una seduta, da cima a fondo. Io vivo nel villaggio Bright’s Grove, che fa parte di Sarnia in Ontario. Abbiamo molte ciminiere e fumaioli a Sarnia – Sarnia è nota come la Valle Chimica – molte raffinerie qui. Il pericolo è sempre presente. Perciò, la storia può essere stata influenzata in parte dal mio subconscio… e il processo di scrivere la storia può essere stato il mio modo di articolare proprio la mia personale paura. Ma pure, come scrittrice, sento di avere una responsabilità verso gli uomini, la responsabilità di risvegliare la loro coscienza, di renderli più consapevoli, e l’unico mezzo che ho a disposizione per raggiungere la gente è la mia scrittura. Dobbiamo preservare la vita umana e il mondo in cui viviamo con tutte le sue creature. E non c’è dubbio che siamo diventati troppo compiacenti nei riguardi di tutte le forme di elementi distruttivi intorno a noi. Tendiamo a seppellirci sotto ogni sorta di rituale, qualsiasi cosa per non affrontare la realtà della nostra propria partecipazione a questo processo di distruzione. Nella mia storia uso il cerimoniale della chiesa per mostrare come è quasi impossibile uscire fuori dal proprio bozzolo. Ma il cerimoniale della chiesa non è il nostro solo rituale. Quella tazza di caffè la mattina esattamente alla stessa ora è un rituale. La nostra giornata è piena di ogni sorta di riti. Troviamo molto conforto nel rituale. È difficile rinunciare a qualsiasi cosa che ci dà un senso di conforto, anche se è un falso senso di conforto. Lo Spirito nella mia storia, durante la celebrazione della Messa, fa vani tentativi di mettere in guardia la congregazione sull’innalzarsi del livello dell’acqua del fiume. La gente non presta attenzione a quello strano e gentile monito dello spirito. Nessuno è neppure prossimo a riconoscerne la presenza, la sua esistenza. Hanno bisogno di qualcosa di più energico dello sfiorare le guance con le ali di una farfalla. Questo non è il tuonare della voce di Dio, che ammonisce che annegheranno tutti, se non faranno attenzione. E allora perché preoccuparsi? Ma ci sarà mai una voce di Dio che tuona? Penso che ci prendiamo in giro ingannando noi stessi.
LC: Diverse tue storie trattano di relazioni, alcune in modo specifico concernono i conflitti di una coppia. Se siamo d’accordo che in ogni coppia ci sono delle cattive giornate e delle buone giornate, perché i tuoi racconti si concentrano sulle brutte giornate?
DDS: Una buona storia di solito inizia quando un conflitto è già in corso. Il conflitto è ciò che dà slancio alla storia. Tutti abbiamo dei conflitti nella vita. Alcuni conflitti si risolvono, altri no…e alcuni rimangono sospesi a indugiare con speranza. Il racconto è una forma d’arte concentrata, perciò non puoi stare a perdere tempo scrivendo sulle buone giornate. Se lo slancio cade, allora la storia diventa noiosa, e tu non vuoi che questo accada.
LC: ‘Dinner for Three’ tratta dell’inizio di una rottura, e ‘Fast Forward’ tratta del dopo-divorzio. Leggendo queste storie, mi chiedo se esse possono essere due parti di una più lunga storia. C’è una connessione fra loro, nella fase della scrittura?
DDS: No. Non c’è affatto una connessione. Quando io ho finito di scrivere una storia, ho finito anche con il personaggio di quella storia. Semplicemente vado avanti con un nuovo personaggio. È così che ho sempre fatto. Forse questo modo di fare un giorno cambierà.
LC: Di tanto in tanto il tuo retaggio italiano traspare nelle tue storie. ‘Nothing Changes’ e ‘Boundary Line,’ per esempio, sono ambientate in Italia prima dell’immigrazione di massa del dopoguerra. ‘Fast Forward’ e ‘Before the Roses Fade’ si concentrano su personaggi di origine italiana. Elabori consciamente il tuo retaggio italiano nelle tue storie?
DDS: No, non credo di agire consciamente. Io lavoro di più con ciò che mi è familiare, se così si può dire. Uso qui il termine ‘familiare’ in un senso generale. Può comportare cose della mia esperienza, cose di cui ho sentito parlare, o storie che ho letto sui giornali. O cose da me immaginate. Anche quando le ho immaginate, le cose mi diventano familiari. L’immaginazione è lo strumento migliore di uno scrittore. Infatti, anche se basi la tua storia su un reale avvenimento, devi sempre trattare il fatto con molta immaginazione. Altrimenti non suonerà reale. E un lavoro d’immaginazione, per essere un buon lavoro d’immaginazione, deve apparire reale. Nel racconto “Nothing Changes” io sono andata semplicemente indietro nel tempo, nel mondo della mia immaginazione, a un posto e gente che conobbi, durante la mia infanzia e adolescenza: l’Italia. Avevo tredici anni quando lasciai l’Italia. Puoi dire che sono cresciuta lì. E anche se non ho molte distinte memorie di quei giorni, pezzi e pezzetti di cose continuano a riemergere, continuano a tornare sempre. Allo stesso tempo vedo il mio retaggio non come la storia del paese da cui provengo, i costumi del paese e della gente, ma piuttosto come retaggio del mio passato, di cinquant-anni fa, di dieci anni fa, forse di ieri: le esperienze a cui non si sfugge della nostra vita di ogni giorno. Alludo a questo in “Fast Forward”, quando Eufemia dice: “…bisogna andare attraverso quello che viene prima” (“… one needs to go through what comes first”), e Gina pensa: “Già, come un cattivo matrimonio…” (“Yeah, like a bad marriage…”). Eufemia allora continua a dire che è importante quello che viene prima, e Gina alla fine è d’accordo, che è giusto così. Quello che viene prima è forse quello che definisce la nostra vita.
LC: Tu hai pubblicato delle poesie e circa trenta racconti. I racconti sembrano essere il tuo genere preferito. Hai considerato di scrivere una novella o un romanzo?
DDS: Sì, a volte penso di scrivere un romanzo… o risuscitare uno che avevo messo da parte in un cassetto. Ma non so. Quello che ho da dire di solito lo dico in poche pagine. I racconti sembra che siano automatici per me. Spesso scrivo giù di getto. L’intera storia mi viene così, da cima a fondo. Probabilmente è stata a fermentare per lungo tempo… ma quando alla fine mi viene, non faccio in tempo a scrivere giù le parole abbastanza velocemente. Poi lascio la storia da parte per alcuni giorni, prima di tornarci sopra. E di solito, con quel tipo di storie che mi vengono giù liberamente, dopo non ho quasi alcun bisogno di fare dei cambiamenti. Debbo solo rinfrescarli ancora un po’, ritoccarli qui e lì e sono fatti. Senza sudore. Naturalmente ci sono poi delle storie che riscrivo quindici volte. Beh, non voglio nemmeno pensare a queste. A volte finisco col tornare alla originale bozza e penso a tutte le ore che ho speso a riscrivere la storia e spiegazzare i fogli di carta.
LC: Sei stata co-curatrice nella pubblicazione di due antologie. È in arrivo una raccolta di racconti dell’autore Delia De Santis?
DDS: Sono in procinto di organizzare il mio materiale per la stampa. Mi darebbe molta soddisfazione vedere pubblicata una raccolta dei miei racconti.
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In Conversation with Delia De Santis
Licia Canton
Licia Canton: What’s a typical day for Delia De Santis – the woman? And how does that compare to a good day for Delia De Santis, the writer?
Delia De Santis: I don’t think I can really separate the typical day as Delia De Santis the woman and Delia De Santis the writer, so it’s difficult for me to make a comparison. I have always led a fairly full life and priority has always been trying to earn a living in one way or another—I wouldn’t be able to earn a living writing short stories. Not likely. And my work outside the home has never been writing related. A lot of fiction writers also do other kinds of writing, like articles for magazines, technical writing, ghostwriting books etc, which would bring them income. I am not interested in that kind of writing. A large number of writers also seem to be working in the educational system, at one level or another. I’ve been a jack of all trades all my life. I have gone from hairdressing to real estate, to accounting and being a partner with my husband in a land development and construction company—we’re just at the retiring stage now. Besides the work that earned me wages, I always enjoyed the other aspects of my daily living: taking care of my house, in the last six years helping with grandchildren when needed, parents, cooking good meals, getting involved with the community, friends… Nothing unusual, just what most other people do in life. But for me, these life experiences—when balanced properly—and I make a point of saying that, as over the years I was not always able to balance properly—are positive and inspirational means leading to my writing. For example, I can have a very satisfying time working in my flower garden—I love perennials … and suddenly as I am doing work with my hands, my mind begins to imagine… so that not only flowers germinate in my garden, but also ideas. However, the ideas may have actually been triggered by something else before the gardening. It might have been an incident taking place during my visit to my father in continuing care at the hospital, or the way a young woman weighed an eggplant in her hand when I was at the grocery store. Now, with the ideas starting to gel, I need to find time to start writing. So, if I feel the story is the kind that is going to force itself out of me more or less at once, then I might drop everything and start writing. Or at least get as much as I can on paper, or on the computer. I have often thought, okay, why don’t I get myself into a schedule, work so many hours a day at writing, be more disciplined, but I still haven’t been able to get into that routine. But lately I have come to accept that maybe I just don’t work well with a routine… because it probably would not be conducive to creativity for me. So why not leave it alone.
LC: I’ve had the pleasure of listening to you read your stories at several literary events. How do you go about choosing which story to read?
DDS: Well, first of all I choose a story that is fairly short. Or an excerpt from a longer story. One that stands on it’s own. I don’t like listening to other writers read lengthy pieces, so I wouldn’t want to impose that on my listeners. But then maybe other people are not like me—I don’t know. I have a mind that wanders easily. I am more of an observer than a listener. I can easily be distracted by the way someone is holding her wrist, a certain way someone crosses her legs, the shape of someone’s eyebrows. And suddenly I am no longer listening but watching, and storing away in my mind—not consciously I suppose—bits and pieces that will eventually lead to the making of a collage . . .allowing me to form a whole character for one of my stories . . . or to define a habit or peculiarity that can be attributed to a character. Then I also make sure that what I am reading doesn’t have long descriptive passages, although I don’t usually use a lot of description in my stories. I also usually read pieces that have a lot of dialogue . . . characters speaking to each other. I like dialogue . . . I use it a lot, to create tension in a story and move it forward.
LC: What was the first story you read in public?
DDS: I think the first story I read in public was called “Faces in the Window.” This story was first published in a literary magazine called Mind in Motion, in California. I read the story at the AICW conference in Toronto in 1988, I believe. The event took place in a big room and there was quite a large audience. I recall being really nervous . . . and my heart was beating fast. But I made it through—I didn’t die. And I know it went okay, too, because the story was a good story. It’s a surreal piece about an old man named “Sam” who had lost his friend next door, to cancer. The friend’s house was torn down and a nursing home built on the lot. In his terrible loneliness, Sam began to play the accordion again, something he had not done since he was a young man. Only now he played it at night, in his back yard, thereby disturbing the peace . . . and of course drawing the old people to the window, to watch—hence the title “Faces in the Window.”
LC: Which was your first published story?
DDS: I am not sure which one it was. It might have been “No Man of Music”. Actually I got a third prize in a contest for that story and it was published by the magazine that organized the contest. That was back in 1987. A few years later a different version of the story was published in Timber Creek Review—still in the US. I seemed to be having luck publishing there. “No Man of Music” is about a young woman—quite young—in Italy, who had been forced to marry an older man—an ugly one at that—because he would be taking her to Canada to live. She went for help to a church superior, but she was told to obey. The story is set in Canada when she’s an old woman. Over the years, she was abused by her husband who is now dead, and now is being abused by her son. But she doesn’t give up, or give in. Within herself, she remains strong. She will never allow herself to be broken. Ironically, her husband’s name was Orpheus. And of course, in the story, she tells the teacher lady she cleaned house for that her husband was “no man of music.” I don’t think this is a story I would ever read to an audience. It’s written in pidgin English.
LC: Why wouldn’t you read it to an audience?
DDS: The story is written in the stream of consciousness, and the old woman thinks in broken English. Most writers would use dialect or broken English only in dialogue. The story does have an internal rhythm, but it’s not an easy one. It’s not a rhythm that you can fall into easily when reading aloud, and I would be afraid of not doing the story justice . . . because it is a good story.
LC: What led you to writing?
DDS: I think I started writing in my head when I was a little girl. I was shy when I was growing up, and I didn’t have many friends. That left a lot of time for me to dream and make up stories in my mind. Maybe it was a way of burying the loneliness. But I didn’t actually start writing until I was in my thirties. I wasn’t working outside the home anymore. My two sons were small and we had moved to a hobby farm. Being alone a lot through the daytime and being close to the land again enabled me to reconnect to my childhood—in Italy we used to live on a farm—and the stories just started coming back. Only this time I decided that I would not let my dreams slip away. So I bought myself a typewriter . .. and not really quite knowing what I was doing, I began to to write.
LC: Of the stories you’ve written, how many have been published?
DDS: About thirty. Some have also been reprinted. I would say that pretty well all the stories that I have written—completed, that is—have been published. Then I have a big box full of stories either just begun or almost finished. That box could be holding some of my best stories in the making, so I seriously need to take a look at it. It’s not a box to be thrown away.
LC: Which of your stories has a poignant significance for you?
DDS: I’d have to say “The Ache Within.” It was published in The Anthology of Italian-Canadian Writing. The story is told in a simple style, from a young girl’s point of view. Her paternal grandmother has died in Italy. The girl and her brother and the parents, are all unable to find a way to mourn properly, to release their grief. Because of the distance, they cannot take part in any of the customary rituals that go with the passing on of a loved one. The girl says, “I closed my eyes and tried to picture my grandmother Evelina dead. I tried to capture the brown, wrinkled face as if made of wax . . . the small eyes shut on life forever . . . but she came to me alive instead…” In the end, the girl squeezes the ache, from grief, between the pillow and herself, “wanting to keep it, but also to go away.” Moreover, I think this story has significance on a deeper level. We all have at least one poignant moment in our life. And just the mere fact that we cannot ever fully recapture that moment, is a loss, an ache. Even if only a bitter sweet one.
LC: Your story ‘A place I Once Knew,’ which appears for the first time in Bibliosofia, is unlike any other of your stories. What inspired you to write about the spiritual or the supernatural?
DDS: Again, this is a story that just came to me, like a gift. I wrote it in one sitting, from beginning to end. I live in the village of Bright’s Grove, which is part of Sarnia, Ontario. We have a lot of smoke stacks in Sarnia—Sarnia is known as the Chemical Valley—a lot of refineries here. Danger is ever present. So, in part, the story may have been influenced by my subconscious . . . and the process of writing the story could be my way of articulating my personal fears. But also, as a writer, I feel I have a responsibility toward my fellow men, the responsibility to inform their conscience, to make them more aware, and the only means I have at hand to help me reach people is my writing. We need to preserve human life and the world we live in, with all its creatures. And there’s no doubt we’ve become too complacent about all forms of destructive elements around us. We tend to bury ourselves in all sorts of rituals, anything not to face the reality of our own participation in this process of destruction. In the story I use church rituals to show how it’s almost impossible to take us away from our cocooned selves. But church rituals are not the only rituals in our lives. That cup of coffee in the morning at exactly the same time is a ritual. Our days are filled with all sorts of rituals. We find great comfort in rituals. It’s hard to take us away from anything that brings us a sense of comfort, even if it’s a false sense of comfort. The Spirit in my story, during the celebration of the Mass, makes fruitless attempts to warn the congregation about the rising waters in the river. The people will not heed this strange, gentle force. They’re not even near to acknowledging it’s presence, it’s existence. They need something more assertive than butterfly wings brushing their cheeks. It’s not a thundering voice from God, warning them that if they don’t heed, they will all drown. So why bother? But will there ever be a thundering voice from God? I think we’re fooling ourselves.
LC: Several of your stories are about relationships, and some specifically about conflict within the couple. If we agree that in every relationship there are good days and bad days, why do your stories focus on the bad days?
DDS: A good short story usually begins when a conflict has already begun. That’s what gives momentum to the story. We all have conflicts in life. Some conflicts get resolved, and some don’t . . . and some are left lingering on hope. The short story is a concentrated art form, so you’re not going to waste your time writing passages about the good days. If the momentum drops, then the story becomes boring, and you don’t want that to happen.
LC: ‘Dinner for Three’ is about the beginning of a breakup, and ‘Fast Forward’ is about post-divorce. In reading these stories, I wondered whether they might be two parts of a longer story. Is there a connection between them at the writing stage?
DDS: No. There is no connection at all. When I have finished writing a story, I am also finished with the character in that story. I simply go on to another character. It’s just the way I have been doing it. Maybe someday that could change.
LC: Now and then your Italian heritage comes through in your stories. ‘Nothing Changes’ and ‘Boundary Line,’ for instance, are set in Italy before the postwar mass migration. ‘Fast Forward’ and ‘Before the Roses Fade’ focus on characters of Italian origin. Do you consciously work your Italian heritage into your stories?
DDS: No, I don’t think I do it consciously. If anything, I work more with what is familiar. I am using familiar here in a broad term. It could be things from experience, things I heard talked about, or stories I read in the newspapers. Or it could be things I imagined. And once I’ve imagined them, they have become familiar to me, also. Imagination is the best writers’ tool. Actually, even if you’re basing a story on some true incident, you still have to pad it with lots of imagination. Otherwise it’s not going to sound real. And fiction, to be good fiction, has to sound real. In the story “Nothing Changes”, in my imagined world, I simply went back in time, to a place and people I knew, when I was growing up—Italy. I was thirteen when I left Italy. You could almost say I grew up there. And even though I don’t have a lot of distinct memories of those days, bits and pieces keep surfacing, keep coming back all the time. At the same time, I see my heritage not so much as the country where I came from, the customs of that country and its people, but more as the legacy of my past—fifty years ago, ten years ago, maybe yesterday—the inescapable experiences of our daily living. I allude to it in “Fast Forward”, when Eufemia says, “… one needs to go through what comes first”, and Gina thinks “Yeah, like a bad marriage…” Eufemia then continues to say that it’s important what comes first, and finally Gina agrees that maybe it does make sense. That what comes first maybe does shape our lives.
LC: You’ve published a few poems and about thirty stories. The short story seems to be the genre that you prefer. Have you considered writing a novella or a novel?
DDS: Yes, sometimes I do think about writing a novel . . . or resurrecting the one I have stashed away in the drawer. But I don’t know. What I have to say usually gets said in a few pages. The short story seems to be automatic for me. Often I write free fall. The whole thing just comes to me, from beginning to end. Probably it has been fermenting for a long time … but when it finally comes, I can’t write the words down fast enough. Then I leave the story alone for a few days, before going back to it. And usually, with those free fall kind of stories, I hardly need to make any changes later. Just flesh them out a bit more and do some minor editing here and there and it’s done. No sweat. Of course then there are some stories that I rewrite fifteen times. Well, I don’t even want to think about those. Sometimes I even end up going with the original draft and all I can think about is all the hours I’ve spent rewriting and crunching up paper.
LC: You’ve published two anthologies as co-editor in the last two years. Is a collection of stories authored by Delia De Santis forthcoming?
DDS: I am getting closer to taking some action about that process. Seeing my own collection in print would be very satisfying.
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