morra - ISABELLA 
 MORRA
di Antonia Chimenti

nota di Francesca Santucci

Breve e infelicissima, legata a storie di sangue e di barbarie, fu la vicenda terrena della poetessa Isabella Morra, nata a Napoli nel 1520, uccisa dai fratelli nel 1546, nel castello di Morra, a soli ventisei anni, la cui esistenza, troncata dal tragico finale, sembra racchiudere tutti gli elementi di un romanzo gotico.
Nacque da famiglia patrizia nel 1520 a Favale, l’odierna Valsinni (in Basilicata), dov’era il feudo familiare.
Per sottrarsi ad un processo, suo padre, il barone Gian Michele di Morra, partigiano dei Francesi, incorso nell’inimicizia col principe di Salerno, era stato costretto a emigrare prima a Roma, poi in Francia, alla corte di Francesco I, del quale era grande sostenitore, insieme al figlio, Scipione, colto e di animo gentile, al quale Isabella era molto legata, lasciando la moglie, Luisa Brancaccio, ed i figli (Isabella ancora bambina), nelle terre di famiglia, sul fiume Sinni, in Lucania.
Isabella crebbe, dunque, chiusa nella solitudine del denigrato sito, il castello paterno, collocato a picco sul mare, su l’ infelice lito, sotto la tutela dei fratelli rozzi, incolti e sempre più imbarbariti nel loro isolamento, che la detestavano e la tenevano segregata nel sinistro maniero, trovando unico conforto alla sua solitudine nelle letture dei classici e nelle fantasticherie, componendo versi, ma lontana dalla società letteraria napoletana.
A lungo attese il ritorno del padre e del fratello, nella speranza che potessero andare a prenderla per portarla in Francia, ma invano: suo padre era morto, ed il fratello, che viveva a corte, era ormai dimentico di lei.
Un precettore, spinto dall’affetto e dalla pietà per il suo destino di solitudine, favorì la conoscenza e la corrispondenza di Isabella col trovatore spagnolo Diego Sandoval de Castro, che abitava poco lontano da Favale, nel feudo di Bollita, e che, appreso della triste condizione della giovane, per alleviare le sue pene, le inviava lettere e componimenti poetici, avvalendosi del nome della moglie, Antonia Caracciolo, con la quale, appunto, Isabella doveva essere in contatto.
I fratelli, scoperta la corrispondenza, convinti che tra i due ci fosse una relazione amorosa, uccisero prima il precettore che li aveva aiutati, poi Isabella, nel timore che rivelasse i loro delitti, ed infine anche il poeta, attirandolo in un tranello.
Della sua produzione, rivalutata da Benedetto Croce, che ne riconobbe il valore di poesia immortale, restano miracolosamente un esile canzoniere, le “Rime”,15 componimenti, 12 sonetti e 3 canzoni, che rappresentano l’impetuosa autobiografia e ne rivelano l’indole malinconica e appassionata, ma anche ne testimoniano la dotta e raffinata cultura.
Nelle “Rime”, in cui non si ritrova traccia della tematica amorosa (indizio questo che avvalorerebbe il fatto che la corrispondenza col Sandoval fosse solo letteraria, e non una tresca amorosa, come sospettarono i fratelli), che vertono sulla sua vicenda esistenziale, sull’ansia di libertà, sulla volubilità della fortuna, sull’avversa sorte, sulla vana ed ansiosa attesa del ritorno del padre lontano, Isabella lamenta il proprio drammatico destino di solitudine, e protesta contro il destino sfavorevole, ma, nei componimenti di ispirazione religiosa, la sventurata poetessa sembra accettare, in accorata esaltazione mistica, la propria infelice vicenda terrena.
La poesia di Isabella, che affascinò a tal punto Benedetto Croce da spingerlo a recarsi personalmente in Basilicata per indagare sulla vita della poetessa, conquista immediatamente in virtù della romantica e dolente vicenda alla quale rinviano i suoi versi, tuttavia sarebbe ingiusto considerarla esclusivamente una testimonianza autobiografica, perché la sua voce poetica non è soltanto illuminante della storia personale; l’ espressione del suo tormento e del suo dolore trascende il privato, ed offre occasioni di meditazione e riflessioni universali, sul destino degli uomini in generale, in particolare su quello delle donne costrette in tempi e luoghi a loro ostili.
La vicenda, umana e poetica, che ancora ai nostri giorni esercita intatto fascino, soprattutto sulle donne, per l’ esemplarità di una certa condizione femminile oppressa, rivive, oggi, nella nuova pubblicazione di Antonia Chimenti, professore di Lingua e Letteratura francese, anche studiosa della poesia francese del periodo rinascimentale, appassionata di poesia in generale, autrice di un altro importante lavoro sul femminile dedicato a Veronica Gambara: “Isabella Morra” (I.M.D. Lucana s.n.c.agosto 2005 Pisticci).
La pregevole pubblicazione, di agevole e scorrevole lettura, un “breve romanzo-che romanzo non è” (secondo la definizione della stessa Autrice), scaturita dall’interesse culturale per quel particolare periodo storico, il nostro splendido Rinascimento italiano, ma anche dalla profonda empatia per questa fragile-forte donna che “incarna la lotta dello spirito, che deve farsi coraggiosamente strada in mezzo a macigni di greve materialismo”, ripercorre, nei suoi punti salienti, fra luci ed ombre, la dolente vicenda di Isabella, articolata come in drammatiche cadenze, fino al tragico epilogo finale, oltre il quale brillano di vivida luce i versi della sventurata poetessa.
In “D’un alto monte onde si scorge il mare”, incipit del sonetto terzo della poetessa, troviamo Isabella, in lacrime, percorrere con lo sguardo il mare, nella speranza di avvistare una nave amica che possa recarle notizie del padre lontano; vana ogni speranza, è costretta a far ritornare nel castello ostile, dove troverà conforto solo in se stessa: la sua scrittura.
In “Quanto pregiar ti puoi, Siri mio amato”, entusiasta per un viaggio che compirà con un’amica, a Salerno, forse anche a Napoli, che la strapperà dall’angusta sua esistenza, che appagherà la sua ansia di libertà, euforica si rivolge al fiume Siri (Sinni), altrove chiamato torbido, perché testimone della sua infelicità, qui, invece, spettatore dei suoi entusiasmi.
In “Compagna son di quelli spirti divi” Isabella è risollevata dalla sua prostrazione da un anelito di spiritualità, che pare rendere più sopportabile sia la solitudine che la disperazione.
In “Diego Sandoval de Castro”, l’Autrice punta il riflettore su Diego Sandoval de Castro, che passeggia in solitudine lungo il Tevere, diviso fra il pensiero della giovane che, come lui, compone versi, Isabella, che per lui è sogno, poesia, e quello della moglie, porto tranquillo, certezza, realtà; ed anche nei successivi capitoletti il protagonista è Diego, l’uomo, il poeta, il confidente, la vittima, forse l’innamorato, forse no (ma poco importa che le sia stato o meno amante, di certo condivise con la poetessa gli slanci più puri e nobili dell’animo, quelli che elevano lo spirito dalle umane angustie), in ritorno verso casa, verso i luoghi selvaggi della Basilicata, dove in agguato per lui è appostata la morte.
L’aspra fortuna, il fato avaro, la fiera stella,congiurano contro Isabella e i suoi protettori, il male è lì, pronto a vincere, a piegare le loro esistenza terrene, non l’accorato lamento di Isabella, che sfiderà i secoli, pervenendo, straziante, fino a noi.
Bellissima la “Lettera a Isabella” che l’Autrice pone in finale, quasi a suggello dell’aspra vicenda, dopo la riproposizione dei sonetti della poetessa: è una lettera empatica a Isabella, ma non solo, è un messaggio rivolto alle donne di ogni tempo, a non lasciarsi piegare dalle circostanze avverse, a non lasciare avvilire dalla brutalità, anche quando più bieca la realtà si mostri, ricordando sempre che “dove manca la libertà, dove la donna è schiava di bruti, a loro volta schiavi della propria natura non umanizzata, è impresa titanica riuscire a dar voce alla sensibilità ferita, agli slanci del cuore, al desiderio d’amore e di libertà”, impresa titanica, ma non impossibile.
Piacerà a molto questa nuovo lavoro di Antonia Chimenti, prosa che, poetica, si dispiega: agli studiosi, che ben conoscono la poetessa rinascimentale, perché, al di là delle recenti congetture, ritroveranno la ricostruzione dell’esatta storia accaduta; piacerà ai poeti, e a chi ama la poesia, perché potranno riassaporare i suoi versi misurati e perfetti; piacerà a chi ama il romanzo breve, ripercorrere in prosa romanzata la vicenda; piacerà alle donne, in generale, identificarsi in questa figura esemplare di donna (seppur d’altri temi, tempi lontani), costretta a dibattersi nelle angustie morali e spirituali, ma anelante, sempre, alla realizzazione di sé, in ardente spirito di libertà.

Isabella Morra, I.M.D. Lucana, Pisticci (MT), agosto 2005, p.21 (per contattare l’autrice Frecciaa - ISABELLA 
 MORRA)

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Lettera a Isabella

Cara Isabella,
Le tue lacrime di sangue, la tua tragica solitudine non sono state vane… Esse hanno varcato i limiti angusti del luogo in cui è trascorsa e si è spenta la tua vita. Il tuo grido di dolore si è eternato nei tuoi versi e, varcando i limiti del tempo e dello spazio, è giunto fino a me, che con te condivido l’amore per l’arte, per la Francia, per il suo re “charmant”, per l’ atmosfera radiosa che ha saputo ricreare.
Non sei stata sola in queste aspirazioni; altre donne tue contemporanee hanno capito l’importanza dell’arte poetica, una forma di espressione che più di ogni altra era in grado di oltrepassare le barriere dell’ indifferenza e dell’oblio. Queste donne esercitavano ruoli importanti nella società e come te aspiravano alla gloria attraverso la poesia.
E la poesia era anche per loro rifugio, consolazione, elevazione morale, decantazione degli affanni, fuga dalla brutalità, in un secolo di grandi splendori e di grandi miserie.
Certo, la poetessa bresciana Veronica Gambara si era aperta alla vita in un ambiente più sereno e più propizio allo sbocciare della sua pacata femminilità. Un retaggio di sereni affetti ne aveva plasmato il cuore. Il naturale passaggio alle condizioni di moglie e di madre non fu mai ostacolato da violenze o turbato da rozzezze. Colta e gentile, Veronica visse in un ambiente dove la donna era regina indiscussa di grazia, bellezza e bontà. Per te le condizioni erano diverse: figlia di poeta, educata alla poesia, fosti condannata a vivere in una realtà rugosa e brutale, dove, in assenza di tuo padre, tuo fratello maggiore ne assumeva il ruolo e si arrogava il diritto di essere tuo padrone. Cara Isabella, dove manca la libertà, dove la donna è schiava di bruti, a loro volta schiavi della propria natura non umanizzata, è impresa titanica riuscire a dar voce alla sensibilità ferita, agli slanci del cuore, al desiderio d’ amore e di libertà. Tu sei riuscita nella tua impresa. La mano omicida dei tuoi fratelli non ha reciso questo legame che ti unisce a coloro che credono nella parola. Le tue poesie sono ancora l’eco vibrante del tuo grido, lo l’ho colto, ma ho faticato ad accettarlo; anzi, ti devo confessare che inizialmente l’ho respinto. Alle passioni forti che ottundono la mente, paralizzano la volontà, opprimono lo spirito antepongo la dolcezza e la tenerezza dell’ amicizia, che rasserena ed eleva. Rifiuto la disperazione, sono piuttosto incline alla quiete della rassegnazione e al pudore dei sentimenti. Aspiro all’equilibrio della saggezza che tutto accetta, che modera gli eccessi. Tuttavia la tua lucida analisi di un ambiente gretto non può lasciarmi indifferente. La tua rovente passionalità è autentica. La plasticità del Cristo evocato dalla tua fantasia mi fa riflettere sull’attrattiva anche fisica che il Salvatore doveva esercitare su cuori e intelletti semplici. Essi amavano il suo corpo forse più della sua parola ed esprimevano il loro amore con gesti di spontanea e innocente sensualità, come la Maddalena da te evocata in una sorta di struggente identificazione. Ma la dolcezza di Maria sublima, senza raffreddarli, i tuoi ardori; e un’aura di spiritualità vivifica e trasfigura una realtà geografica e umana, altrimenti squallida e tetra. “Transumanar, significar per verba non si poria”, così il Sommo Poeta aveva espresso la condizione dell’uomo, cui è concesso di ascendere alla dimensione spirituale. Ti seguo passo passo, compartecipe, nella tua passeggiata solitària attraverso i boschi. La tua preghiera alla Vergine è il superamento vittorioso dell’angoscia, è il dominio della spiritualità sui desideri, è il superamento della condizione umana, è l’esaltazione di una dimensione spirituale che non mortifica quella umana, mala trasfigura e la illumina. Arrivederci “tra l’alme beate”, Isabella.

(Antonia Chimenti, ISABELLA MORRA)

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