dal blog di Alina Rizzi “Costruzioni Variabili

jm - JOYCE 
 MANSOUR
 IL MIO CORPO BRUCIA DALLA NASCITA

Se cercate una traduzione italiana delle poesie di Joyce Mansour, non sprecate tempo. Non ne esistono a parte l’elegante plaquette FIORITA COME LA LUSSURIA curata da Carmine Mangone e stampata da NAUTILUS.
In internet si trova solo qualche rara notizia e sembra che anche in Francia, dove l’autrice pubblicò ben 16 raccolte di poesie, quattro testi di prosa e una pièce, la signora ”dell’eros senza fine” sia poco conosciuta.
Certo le sue poesie non fanno parte di quel genere che viene declamato enfaticamente nei seminterrati di piccole librerie polverose, come accade da noi, né di quello che prevede dibattiti, interviste, approfondimenti, in sale asettiche con luci al neon.
La poesia di Joyce Mansour, per il poco che ho potuto leggere recuperando qua è là, è impudica, violenta, scanzonata, ironica, urlata. Rivendica il diritto di urlare il proprio desiderio anche in versi, di maledire gli uomini che non l’anno voluta, di accusare gli amanti di non essere alla sua altezza, e all’altezza di quel corpo – e quell’anima- che “brucia sin dalla nascita.” Di passione ovviamente.
Ma è ancora di moda la passione ai nostri giorni? Oppure troppo complessa, scomoda, pericolosa per essere urlata dentro un libro e in mezzo a un pubblico?
Liberi di avere le vostre opinioni, ma guardandovi attorno avrete poco da elucubrare: agli incontri poetici ci si addormenta! Figuriamoci se qualcuno azzarda la passione!
Vi propongo alcuni versi, tanto per darvi un’idea dell’intensità cui mi riferisco, e del temperamento della signora Mansour.

Da “GRIDA”, 1953

Mi piacciono le calze che rassodano le tue gambe.
Mi piace il busto che sostiene il tuo corpo tremante
Le tue rughe i tuoi seni ballonzolanti la tua aria affamata
La tua vecchiaia contro il mio corpo teso
La tua vergogna davanti ai miei occhi che sanno tutto
I tuoi vestiti che odorano del tuo corpo marcio.
Tutto questo alla fine mi vendica.
Degli uomini che non hanno voluto saperne di me

Vuoi il mio ventre per nutrirti
Vuoi i miei capelli per sfamarti
Vuoi le mie reni i miei seni la mia testa rasata
Vuoi che muoia lentamente lentamente
Che mormori morendo parole infantili.
Mi piace vedere i loro visi paurosi
Non ci tengono a scrutare la morta
Vogliono rinchiuderla in fretta lontano dalla pausa.
E ancora vestiti a lutto
Faranno l’amore per seppellire meglio
Il suo ricordo disfatto.

Voglio mostrami nuda ai tuoi occhi melodiosi.
Voglio che tu mi veda mentre urlo di piacere.
Che le mie membra piegate sotto un carico troppo pesante
Ti spingano a gesti blasfemi.
Con i capelli lisci della mi testa offerta
Rimangano sospesi alle tue unghie ricurve di furore.
Che ti tenga in piedi cieco e devoto
Guardando dall’alto il mio corpo spiumato.

Ti piace dormire nel nostro letto disfatto
Non ti disgustano i nostri antichi sudori
Le lenzuola sporche di sogni dimenticati
Le nostre grida che risuonano nella camera buia
Tutto questo esalta il tuo corpo affamato
La tua brutta faccia alla fine s’illumina
Perché i nostri desideri di ieri sono i tuoi sogni di domani

(Traduzione di Mauro Conti dalla rivista “Poesia”, Crocetti)

DA “LACERAZIONI”, 1955
Invitami a trascorrere la notte nella tua bocca
Raccontami la giovinezza dei fiumi
Premi la mia lingua contro il tuo occhio di vetro
Dammi a balia la tua gamba
E poi dormiamo, fratello mio,
Perché i nostri baci muoiono più veloci della notte.

C’è del sangue sul giallo d’uovo
C’è dell’acqua sulla piaga della luna
C’è dello sperma sul pistillo della rosa
C’è un dio in chiesa
Che canta e s’annnoia
Non ci sono parole
Soltanto peli
Nel mondo senza verzura
Dove i miei seni sono re.
E non ci sono gesti
Soltanto la mia pelle
E le formiche che brulicano tra le mie gambe untuose
Portano le maschere del silenzio lavorando.
Viene la notte e la tua estasi
E il mio corpo profondo questo polipo senza pensiero
Ingoia il tuo sesso agitato
Durante la sua nascita.

Un nido di viscere
Sull’albero secco che è il tuo sesso
Un cipresso nero piantato nell’eternità
Fa la veglia ai morti che alimentano le sue radici
Due ladroni crocifissi su costolette d’agnello
Se la ridono del terzo che, a missione compiuta,
mangia la sua croce di carne arrostita.
Il nero mi circonda
Salvatemi
Gli occhi aperti sulla vuota disperazione degli orizzonti marittimi
Mi scoppiano nella testa
Salvatemi
I pipistrelli dai corpi ammuffiti
Che vivono nei cervelli torturati dei monaci
S’attaccano alla mia lingua cremosa
La mia lingua gialla di donna accorta.
Salvatemi, voi che capite
E i vostri giorni saranno moltiplicati
Malgrado i peccati che non vi hanno perdonato
Malgrado lo spessore delle notti nelle vostre bocche
Malgrado i vostri bambini iniziati al male
Malgrado i vostri letti.

( traduzione di Carmine Mangone da “Fiorita come la lussuria”)

NOTE BIOGTRAFICHE:
Joyce Patricia Ades – questo il suo nome autentico – è nata ad Bowden, in Inghilterra, nel 1928. I suoi genitori risiedevano però abitualmente a Il Cairo, dove la famiglia Ades faceva parte da diverse generazioni della numerosa colonia britannica. Dopo gli studi secondari svolti in Svizzera e Inghilterra, Joyce rientra quindi in Egitto. Nel 1947, primo tragico matrimonio:suo marito, colpito da un mare incurabile, muore dopo appena sei mesi. Nel ’49 si risposa con Samir Mansour della comunità francese. La nuova coppia comincia allora a spostarsi tra Parigi e Il Cairo, e Joyce s’inizia alla cultura francese assimilandone la lingua da autodidatta. Nel ’53 pubblica a Parigi la sua prima raccolta di poesie, “Cris” attirando da subito l’attenzione dei surrealisti. Sarà l’inizio di una parabola creativa che si esaurirà soltanto nel 1986, allorquando la scrittrice angloegiziona muore per un tumore al seno.
Scrisse di lei Claude Courtot, membro del gruppo surrealista: “Avevo fatto la conoscenza di Joyce e di Breton nel 1964. Al caffè La promenade de Venus, lei si sedeva sulla panca in fondo alla sala, sotto il grande specchio, in modo da essere di fronte a Breton (…) chiedeva regolarmente del rum e fumava un sigaro enorme che, per uno strano contrasto, rendeva ancora più femminili i tratti del suo viso di bambola bruna dagli occhi attraenti come pozzi…”

Alina Rizzi

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