un racconto di Anna Manna

Il silenzio era assoluto. Da giorni. Si dilatava tra le navate e si moltiplicava negli altari. A volte, per il fruscio di una tovaglia di seta sembrava incresparsi. Quasi si animava. Ma l’assenza di vento, le imposte rigorosamente chiuse sulle prese d’aria della Basilica, riportavano l’ordine nell’aria immobile che ristagnava calda, afosa, appesantita dagli antichi tendaggi. A tratti si avvertiva però un tonfo leggero, quasi il cadere di una stella dal firmamento dipinto nelle pareti affrescate.
Sull’altare addobbato fiori che morivano, e si disfacevano sul pavimento in petali inutilmente colorati. Non servivano più. Avevano abbellito la fede nei momenti di glorificazione, ora ricadevano verso il basso e la natura se ne riappropriava, riducendo in polvere i loro poveri resti.
La chiesa restava immobile, nonostante queste morti di fiori, questo disfacimento della bellezza.
Anzi sembrava trovarne un respiro più grandioso, più profondo. Quasi che ogni sparizione la rendesse più superba. Come se ogni particella di bellezza umana, compiuto il suo viaggio e la sua missione terrena, tornasse a lei come in un grande sacro scrigno, arricchendolo e fortificandolo.
E il silenzio, regnava, carico di ricordi, di promesse, di sorrisi, di impalcature d’indefinibile bellezza che avevano sostenuto nei secoli questa incredibile astronave, la basilica, la fede, in perenne viaggio verso l’eternità.
Loretta si reggeva a mala pena in piedi sui tacchetti alti. Li sentiva picchiettare sul pavimento, arrancavano. Ogni volta che provava a rialzarsi dal torpore inondato dal sudore che ormai le aveva invaso il corpo e la mente.
I primi giorni no, i tacchi sembravano martellare il pavimento della Basilica.
Anzi si era sfilata una scarpa e l’aveva usata con forza contro il portone secolare, contro le pareti spesse e mute, contro tutto.
Ma l’eco soltanto le rispondeva.
Aveva combattuto contro le porte, contro le finestre, contro gli angeli dipinti.
Aveva imprecato, fatto smorfie, urlato parolacce. Niente.
Un silenzio assordante le rispondeva e la uccideva a poco a poco.
Aveva urlato anche il nome di suo figlio. Aveva pianto, pregato, implorato.
Niente, il sorriso immobile e ieratico degli angeli e dei Santi dai grandi dipinti le rispondeva. Neanche un cenno, uno spiraglio, niente, niente.
NIENTE.
Soltanto la sua stupida fede che voleva assolutamente sopravvivere a quella angoscia del nulla. E continuava a lottare, ad urlare, ad imprecare.
Il telefonino scarico, i telefoni della basilica staccati. Era staccata dal mondo completamente. Prigioniera in un afoso mese di agosto nella enorme Basilica che aveva decretato per lei una vacanza dal mondo.
Una vacanza allucinata, fatta di ombre , di silenzio, di arsura, di fame. Capì che era veramente prigioniera quando provò fame e non trovò nulla con cui cibarsi. Spaccò la porta della segreteria, scoprì tutto in ordine ma niente da mangiare.
Il visetto abbronzato e tondo si rispecchiava nei vetri dei quadri incupendosi di linee disperate. Al buio le sembrava di vedere il riflesso di una morta. I cerchi d’oro ai lobi delle orecchie mandavano un bagliore sinistro.
Eppure dentro sentiva gridare la vita.
Il silenzio assoluto a poco a poco divenne il suo compagno. Lo temeva e lo rispettava nello stesso tempo. All’inizio, quando si era accorta di essere rimasta chiusa nella Basilica, continuava a correre con i tacchi alti da un portale all’altro. Urlava, poi smise di urlare. Si sentivano soltanto i tacchi a spillo rimbalzare nei pavimenti di marmo.
Sudava, quaranta gradi si sentivano anche tra le navate della chiesa.
Era una torrida estate e lei la mattina s’era infilata in Chiesa proprio per cercare un po’ di refrigerio. Di quegli angioloni dipinti non gliene importava niente.
E neanche aveva bisogno di pregare. Non credeva neanche all’orologio, figuriamoci se a Dio. Dipinta in faccia e nel cuore, credeva soltanto nella musica.
Le piaceva rincorrere le note ballando e rimirando la sua fisionomia sfacciata negli specchi dei caffè un po’ malandati. Così aveva passato la giovinezzae la prima maturità.
Poi era arrivato Tommaso, quel figliolo cicciotello e biondo, con le guance degli angeli.
“Altro che voi !” pensò tra sé mentre rimirava gli angeli di pietra ed i putti disegnati sull’altare.”Mio figlio se ne frega di voi tutti. E’ bello, è vivo, e gioca tutto il giorno mentre voi ve ne state qui a rompervi le scatole…!”
Poi a poco a poco il silenzio della Basilica l’aveva vinta. Un vuoto, un nulla.
Chissà quanto tempo era passato. Forse un giorno, forse due, tanto l’aveva capito subito ch’era rimasta in una trappola. Pensò se oggi è venerdì, massimo alla mezza di domenica apriranno il portale. E non mi faccio problemi a bere l’acqua santa e a mangiare le ostie. Ce ne sono tante. E così s’era preparata a passare due giorni da dimenticare. Ma poi ne era certa, la domenica l’avrebbero liberata.
Passò venerdì, passò sabato, passò domenica. Era stremata di acqua santa e ostie!
Anche se le sembrò di stare meglio rispetto alle fitte alla pancia che provava mangiando alla mensa vicino alla scuola di ballo.
Per forza con tre euro che vuoi mangiare!
Comunque sopravviveva per l’acqua santa e le ostie.
Ne aveva trovate tante !
Cominciò a farne una poltiglia mescolandole con l’acqua santa così erano meno dure.
Usò uno dei suoi pendenti del braccialetto come cucchiaino: era una piccola scimitarra diventò una pinzetta per mangiare alla cinese.
Era stanca, sempre più stanca. Ripensava alla sua vita ingorda, sempre in giro a rimirarsi negli occhi degli altri, negli specchi del bar.
Fronzoli, belletti, finzioni, istrioni, intorno e dentro l’anima.
Poi quell’angelo biondo, paffuto, grassottello.
“Come si fa… come faccio senza di lui adesso! Senza abbracciarlo, senza parlargli!”
Così scelse l’angioletto biondo più bello e s’accasciò sotto il quadro.
Ne fece il suo giaciglio. Lei seduta a terra sui gradoni dell’altarino e in cima il quadro con l’angioletto che aveva scelto il suo cuore per ricordare il figlio.
Cominciò a parlare con lui, si confessava. Anzi, quando s’accostò a dire i peccati più gravi andò a nascondersi nel confessionale più lontano. Ma sempre all’angelo biondo si rivolgeva. E dopo quando usciva dal confessionale gli sembrava di scorgere nel visetto paffuto un sorriso di perdono, un segno d’amore.
“Tommaso, dimmi qualche cosa, fammi contenta!” piangeva, singhiozzava.
“Dammi un cenno, almeno tu… vieni a cercarmi! Ma non ti manco un po’…
eppure per te ho fatto tante cose…. pazza so’ pazza lo so, e la mia vita senza un padre per te forse non va bene… ma quanto bene ti voglio… vicino a te ho sentito il paradiso. E quante notti ti ho cullato… io da sola, senza un marito accanto.
E le canzoni, te le ricordi le canzonette mie ? E i colori , quanti ne ho inventati, ci impiastravamo le mani coi colori… ne venivano fuori sempre di nuovi sulla carta!
Poi ti leccavi le dita, pensavi che era la marmellata! Perché non vieni a portarmi un po’ di colore su questa faccia smunta? Non ce la faccio più a mangiare la poltiglia!”
Si vergognava soprattutto d’esser diventata sporca e sudata. E pallida.
A poco a poco la tinta del sole e della salute aveva abbandonato la sua faccia.
Si sentiva spegnere e ad un certo punto non ebbe più voglia di parlare.
Neanche con l’angioletto biondo. Si disse che se lui era silenzioso era meglio così, dovevano star zitti. Ma loro, quegli angioloni adulti, perché non facevano qualche cosa per salvarla? La volevano morta , chiusa là dentro, in quell’immenso silenzio?”
“IO HO DATO LA VITA!” urlò un giorno all’improvviso nel silenzio.
“Ma perchè proprio io, con tanti che uccidono, rubano io sono solo un po’ squinternata… ma a Tommaso non gli ho fatto mancare nulla… l’ho tenuto come un angelo!… Mi lascio trascinare troppo dalla vita… è vero.”
Si ripiegava col collo sul petto, su se stessa. Quasi a cercare l’assoluzione.
Ma il silenzio non assolve. Cominciò a pensare che fosse un castigo. Una penitenza.
Si rinchiudeva sempre di più nei vicoli di un’anima traballante, dove soltanto il ricordo dell’esistenza la teneva desta.
“E’ bella la vita, sapete…” sussurrò una mattina agli angeli.
E a poco a poco ricordò a voce alta ,biascicando, tutte le cose belle che l’avevano fatta gioire: la neve, i natali da bambina, le amiche, le passeggiate, i colori, la musica fino alla nostalgia dell’amore.
”Come è bello l’amore… voi siete angeli non l’avete mai provato. Ma l’amore è un istante solo, sapete, ma è meglio del paradiso. L’amore nostro… quello di quaggiù. Chissà lassù, voi forse lo provate sempre. Ma per noi dura il tempo di uno sguardo. Ma quegli occhi che ti colpiscono il cuore sono come una distesa d’acqua incantata… in cui affondare”.
Si sentiva affondare nel nulla. Le sembrava di sparire. Di allontanarsi in un vuoto dove non c’era alcun respiro, nessun suono, niente. Dove i rumori si attutivano fino al silenzio assoluto.
Fino alla carezza lieve, improvvisa di un’immagine che tornava a galla: i dentini di Tommaso sulle caramelle appiccicose, il suo berretto a strisce, i guantoni bucati. La ricotta dolce sulla torta picchiettata del rosso dei canditi. E riprendeva forza. E continuava a ricordare.
Le stelle di Natale rosse, superbe, sfacciate. Le calze di seta sulla pelle liscia della gambe. Le gambe al sole… il mare… la luce… quella gita in barca, quello sguardo di un uomo nel petto, prigioniero per anni nel suo cuore.
“Se tu fossi qua, se non ci fossimo lasciati… verresti a cercarmi… ma così sola…
così non viene a cercarmi nessuno… a chi posso chiedere…”
Cominciò a pregare. Come da bambina. Ripeteva a filastrocca quelle frasette di allora.
Non si accorse subito di quello che stava facendo. Sfinita alzava gli occhi sempre più in alto. Dagli angeli ai santi, dai santi a Dio.
Poggiò una mano sulla manina screpolata dell’angioletto che credeva fosse Tommaso e pian piano gli disse: ”Preghiamo, magari lassù qualcuno ci sente…”
Svenne così, accasciata ai piedi dell’angioletto Tommaso.
E rimase chissà per quante ore così, il viso smunto cereo, gli orecchini a cerchio che le scendevano pesanti dai lobi eterei. Smagrita, diafana, sembrava anche lei un angelo.
A furia di parlare con loro aveva finito per somigliarci. E gli occhi s’erano spenti al giorno, al quotidiano. Ma dentro come una luce nuova, una parentela, una vicinanza al divino. Un punto di contatto certo c’era stato. Tra la vita e la morte, tra la luce e la tenebra, tra il nulla e l’amore.
E nel silenzio, sopra i secoli, sembrava di sentire gorgogliare il sorriso paffuto dell’angiolo biondo Tommaso.
La trovarono così e la credettero morta. Tra le mani la poltiglia bianca. Sporca la faccia e la bocca. I sandaletti sfilati. A terra, vicino a lei, buttate varie ostie.
“Mio Dio ha mangiato le ostie benedette !E’ un sacrilegio… ha offeso Dio!” La voce stridula di una comare.
“E nostro Signore non è venuto forse per questo?” Il prete giovane, lo sguardo pieno di fiducia.
“Non è morta riposa, ha imparato ad aspettare… ha mangiato con Dio… appartiene ad un’altra dimensione… forse non è più con noi ma è con Dio“
“Mamma… Mamma… mamma”. Un urlo vivo, immenso dentro la chiesa.
Un urlo da scuotere le statue. Tommaso, quello vero, corre come un pazzo nella chiesa.
E s’allontana il mistero della morte. In quel momento il silenzio si fa da parte e irrompe la luce e la vita sul viso spento della ballerina.
“Ma è ancora viva… è ancora viva!”
“Tomm… Tommaso…” biascica la donna.
“Mamma come sei bella… sembri un angelo!” Il bambino ha un attimo di stupore, poi d’impeto “Ma adesso basta smettila di fare la morta… io ti voglio allegra…
come prima…”
“Presto la lettiga… è ancora viva“
“Ma è un miracolo, ha mangiato le ostie benedette. E’ viva, è viva. E’ un miracolo di Dio!”
La portano nell’ambulanza. Tommaso vero accanto. Quell’altro, dipinto, con un bel sorriso, saluta quella madre d’agosto che per lunghe ore l’ha rubato all’eternità e l’ha amato di un amore terrestre.
Mentre la avvolgono in un lenzuolo candido, la voce del prete: ”Ego te absolvo in nomine patris et fili et…”
Le mani di Loretta annaspano sulle guance del figlio mentre l’acqua santa le riga
il visetto da ballerina, illuminato dal sole di quella porta enorme che s’è finalmente aperta.
“Come guarda il figlio… è l’amore per lui che l’ha tenuta in vita. La voglia di riabbracciarlo”.
Le pie donne la sorreggono, le mandano baci in punta di dita.
“Padre… padre… mi assolva. E’ troppo bella la vita. Non potevo morire senza dirlo a Tommaso. Ma questo è il mio peccato, la amo troppo… mi assolva “
“E’ questa la tua preghiera, questa la gloria tua…quest’amore è l’assoluzione…“
C’era già molto di miracoloso per pensare ad altro.
E nessuno s’accorse degli angeli dipinti nei grandi quadri della Basilica.
Qualcosa era cambiato in loro.
Dai lobi pendevano orecchini d’oro fatti a cerchio.

Anna Manna

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