di Angela Diana Di Francesca
Il livello qualitativo a cui i critici si sono abituati è ormai così basso che un film dignitoso, piacevole a seguirsi se non si ha di meglio da fare, e con intenzioni di serietà viene subito indicato come capolavoro.
Così può accadere che “La Bestia nel cuore” di Cristina Comencini venga addirittura scelto per rappresentare l’Italia all’Oscar per i film stranieri.
L’inizio del film è promettente, con l’angosciosa carrellata in soggettiva nella vecchia casa, l’arredamento atrocemente borghese, gli oggetti abbandonati d’improvviso; un’atmosfera di orrida favola immobilizza il passato in un presente senza tempo. La casa dorme, immobile, in attesa che qualcuno la svegli, come la bella addormentata.
E anche i ricordi, gl’incubi, le ossessioni dormono, finchè qualcosa le desta, destando d’improvviso la bestia nascosta nel cuore.
I due fratelli Sabina e Daniele portano nel loro vissuto i segni di un rapporto genitoriale ambiguo e malato, -e non è detto che i loro traumi siano dovuti solo all’incesto, visto che la patologia del padre gli consente tuttavia momenti di lecita tenerezza (e suggerisce il tema del “doppio”, della diversità, della pulsione ingovernabile…) mentre la madre è totalmente anaffettiva e colpevolizzante.
Le circostanze conducono Sabina, che ha rimosso per tanti anni dalla mente l’accaduto, a desiderare di ricostruire la verità. Così la giovane donna va a trovare Daniele che vive in America, portando con sé tutte la sue paure e tutte le sue domande…
All’inizio il racconto, ellittico, sfumato, prende e turba.
Ma dopo i primi 30 minuti il film va sempre più sfrangiandosi e banalizzandosi, per imboccare nel secondo tempo un binario parallelo ed entrare in tutta un’altra storia .
L’equilibrio si spezza, la narrazione discreta della prima parte lascia il posto a scelte stilistiche vanamente eccessive e spesso ridicole, come la crisi isterica di Capodanno di Sabina, o l’imperdonabile scena della fuga di Sabina con rottura delle acque sul treno deserto e blindato-scena evidentemente costruita “a freddo” solo per poter creare la sequenza in parallelo “corridoio del treno/corridoio della casa paterna”.
Non c’è approfondimento psicologico dei personaggi, che “esternano” invece di lasciarsi scoprire, esprimendosi come manuali divulgativi di psicanalisi.
Non si crea coinvolgimento, il cuore rimane freddo davanti alla vicenda trattata, e l’impossibile sospensione dell’incredulità lascia il posto a domande impertinenti come queste:
la Rocca e la Finocchiaro escono con lo scopo dichiarato di portare a passeggio il cane, entrano in una boutique per fare shopping, ne escono con le buste degli acquisti e… il cane dov’è finito?!
E poi: ma quando succedevano queste cose? gli insegnanti genitori dei protagonisti, nelle scene che richiamano la loro infanzia, sembrano due zombi presi di peso dall’età umbertina, invece a occhio e croce dovrebbero essere gli anni settanta…
Un tema forte e disturbante come quello della pedofilia, per di più incestuosa, avrebbe avuto bisogno di un maggior spazio psicologico invece di trovarsi costretto in un guazzabuglio di tematiche che sgomitano per affermare la loro visibilità: l’omosessualità, la “disabilità”, i media che ottundono le facoltà creative…
Gli “alleggerimenti” determinati dalle situazioni comiche sottraggono tensione al film, e alla fine di questo dramma che gli attori si recitano addosso, non arriva un’emozione.
A Venezia alcuni critici hanno definito il film “magnifico” e “sorprendente”.
Hanno fatto male, perchè la loro indulgenza fa sì che gli autori non siano spinti a migliorare, credendosi ormai nell’olimpo dei classici. Io amo analizzare il linguaggio filmico, ma questo avviene “dopo”; -nel momento in cui vedo il film voglio lasciarmi trasportare dalle emozioni.
Io ho pianto nel finale del Principe delle Maree, (anch’esso basato su un trauma infantile) mentre sono uscita fresca e tranquilla dalla visione de “La bestia nel cuore”.
E questo per me, anche se il film dovesse vincere l’Oscar, equivale a una bocciatura.
Angela D. Di Francesca
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