di Anna Rossi
La gestione scriteriata delle risorse umane in molti contesti organizzativi di aziende italiane, pubbliche e private, è spesso la causa che induce le persone a fare un “cattivo lavoro”.
Ma che cosa è un “buon lavoro”? Un buon lavoro è il prodotto risultante dalla capacità professionale di chi fa buona selezione del personale modellandone le caratteristiche e motivandone i percorsi di performance intesi agli obiettivi finali.
Naturalmente per accedere ad una visione eccellente dei risultati aziendali è indispensabile che la gestione delle risorse umane si avvalga di valori etici e non sia slegata dalla logica di imput pressanti che tendono più a piegare i dipendenti che a fertilizzarli.
La crisi del lavoro, intesa come sproporzione fra offerta e domanda, sembrerebbe aver prodotto in Italia una sfiducia totale nei confronti di chi gestisce il personale aziendale. I comportamenti imprenditoriali sono spessissimo incompatibili con certe norme etiche che risultano non vincolanti agli obiettivi d’impresa. Onestà, correttezza e trasparenza non sono più considerati come elementi strategici per evitare passività potenziali ma sono relegati ad un capitalismo di altri tempi.
L’attitudine di molti direttori del personale è intesa troppo spesso a seguire le logiche di un “profitto di breve periodo” tese al ricambio di personale “obsoleto” con personale “precario” dimenticando il public good destinato ad un futuro di valore aziendale.
Siamo il paese con il numero più basso di personale qualificato, specie nel settore dei servizi, e la responsabilità di questo disastro di “approssimazione” credo sia da imputare alla malaconsulenza di chi dirige la gestione delle risorse umane.
Le attività di formazione, di coaching, di assegnazione di risorse, ecc. si presentano a macchia di leopardo non sprigionando forza coesiva al punto tale da far sentire ciascuno nella condizione di non essere informato, coinvolto, supportato, e di poter dunque svolgere un buon lavoro.
I sistemi di valutazione delle prestazioni e di ricompensa che premino l’eccellenza non privilegiano i valori della legalità e del civismo, peraltro valori che incoraggiano tutti i collaboratori a vincolarsi alle strategie aziendali, ma finiscono per creare un tessuto di esclusi piegati dal malcostume.
L’Italia che si distingue per le sue reti clientelari, anche nel campo delle consulenze dirigenziali, ci pone molti interrogativi sull’attendibilità pratica di configuare la funzione di impresa fra ruolo economico e responsabilità sociale.
Sarebbe cosa buona e giusta mettere al più presto in discussione i modelli mentali consolidati che sono alla base di resistenze alle innovazioni comportamentali di tipo dinamico. Il “sistema del valore” non può più reggere su leaderships del tipo “comando e controllo” ma deve tener conto di tutti gli stakeholders , tra cui i dipendenti.
Le soluzioni massimizzanti il profitto sono avallate troppo spesso da personaggi incapaci di valutare strategie imprenditoriali a “lungo periodo” lasciando a quest’ultimo un’impoverimento sociale per l’incapacità di coniugare esigenze economiche e istanze etico-sociali.
La perdita di competività passa anche attraverso la personalizzazione degli obiettivi che a sua volta svantaggia l’operato del “noi” a favore dell’”io” finendo per affiancare altri disvalori già nel budget delle generazioni future.
Rivisitare il rapporto capitale-lavoro è un passo necessario a femare il malcostume che ci contraddistingue nei rapporti interpersonali e che ha privato la piramide aziendale del corpo centrale rischiando di farla implodere su stessa.
Un mercato del lavoro iniquo non sarà mai competitivo per un occidente destinato alla sopravvivenza solo attraverso prodotti di nicchia. La capacità di colmare i gaps che dividono la logica dal buon senso è elemento indispensabile richiesto ai nuovi candidati alle dirigenze d’azienda. L’odierna crisi non consiglia ma impone una riformulazione del pensiero aziendale ed una rinuncia accellerata alla visione temporale del profitto.
Commento finale: “La rivoluzione consiste non solo nel trasformare i cuori ma nel seminare gli elementi atti a portare una revisione profonda dei rapporti sociali. Essere tutori della verità non vuol dire rinchiuderla o circoscriverla ma divenirne testimoni…e perché non attraverso il mettersi in discussione anche in azienda?
Anna Rossi
Resp. Relazioni Esterne O.N.E.R.P.O. (Osservatorio Nazionale ed Europeo per le Pari Opportunità)
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