da pagina999.it 13 dicembre 2015
Perché il sì alla maternità surrogata ha bisogno di dimenticare la differenza sessuale. E di concentrarsi su un un accordo eseguibile a norma di legge, che richiede l’alienazione di un “bene”.
Di Yasmine Ergas
Femministe favorevoli alla proibizione della maternità surrogata sono accusate di essersi fatte portavoce di una logica paternalista, da sempre avversa alla libertà delle donne. Inoltre, sarebbero reazionarie, opponendosi ai diritti dei gay alla genitorialità. È davvero così? La confusione nasce dall’equiparazione fra step-parent adoption e maternità surrogata. Per capire perché, bisogna addentrarsi sul terreno minato delle differenze sessuali.
La step-parent adoption legittima il ruolo di chi di fatto e con il consenso dei genitori già riconosciuti dalla legge alleva un figlio con il quale non ha né un nesso biologico né un legame matrimoniale. Vieta l’estromissione di un compagno (o una compagna) non sposato dalla vita del proprio figlio quando un rapporto finisce. Impedisce allo stesso compagno di sparire. Perciò è innanzitutto una misura a tutela del bambino, garantendogli un genitore responsabile. Permette la omogenitorialità? Non è scontato: qualche legislatore vorrebbe legalizzarla solo per coppie eterosessuali. Ma sarebbe profondamente discriminatorio. Di certo, rispetto alla step-parent adoption la differenza fra uomini e donne è irrilevante.
La maternità surrogata è ben diversa. Si fonda su un accordo eseguibile a norma di legge. Richiede l’alienazione di un “bene”. Questo bene ha un carattere preciso: è un essere umano. Come tutti gli esseri umani, è prodotto da un altro essere umano. In particolare (anche se non esclusivamente) da una madre.
Perché dire “madre”? Il linguaggio della contrattualistica procreativa preferisce descriverla come “portatrice”. Mi è stato spesso obiettato: ma come, vedi la portatrice come “madre” anche quando non ha nessun rapporto biologico con il bambino? Parlando di nessun rapporto biologico, i miei interlocutori intendono che la partoriente non ha fornito gli ovociti con i quali è stato formato l’embrione impiantato nel suo corpo. Ecco il mio errore: non attribuire la giusta importanza ai geni. Ma questi stessi interlocutori non vedrebbero di buon occhio un contribuente a una banca del seme che accampasse diritti di paternità. Esaltano il dato genetico solo quando un contratto di surrogazione garantisce al fornitore di gameti il titolo esclusivo di “padre” o “madre” – e assicura l’eliminazione della partoriente dal novero genitoriale.
La stupefacente asserzione per la quale una donna non ha un nesso biologico con il bambino che partorisce appiana la differenza sessuale. Uomini e donne siglano contratti. Uomini e donne forniscono gameti. Ma solo una donna rimane incinta, partorisce. Enfatizzare il gene escludendo la gravidanza significa attribuire importanza a quanto maschi e femmine possono fare, e negare valore al contributo che solo le donne possono dare.
Se la gestante non è una madre, cosa – e chi – è? Si dice: “vaso”, impiegata, addirittura – per il tribunale della California che ha reso eseguibili i contratti di surrogazione – aspetto di una “nuova procedura” per realizzare il progetto parentale altrui. Sarà vero che gli uteri meccanici sono in arrivo; ma non è una ragione per derubricare le donne allo status di tecnica riproduttiva. La donna in cui l’embrione è impiantato integra quell’embrione nel proprio corpo, esso diviene parte di sé. Non mi addentro in questioni teologiche. Che il concepito sia già una persona nel senso spirituale oppure no, non cambia il dato di fondo: l’evoluzione fisiologica che porta dall’embrione al feto al figlio implica la sua commistione essenziale con e nel corpo materno. Vedere la donna incinta come mero contenitore è un nonsense medico.
Serve però a separarla nettamente dall’embrione/feto. Nell’ipotesi implicita nella surrogazione, il passaggio dalla proprietà dei gameti alla genitorialità del bambino che nasce è senza soluzione di continuità. La donna incinta diviene una specie di black box. Oppure un’impiegata in cui matura una proprietà/figliolanza rigorosamente altrui. Al momento della consegna, non avviene nulla di proibito: non essendo mai stata una madre, non ha mai potuto alienare un figlio, e altri non lo hanno mai potuto acquistare. Il figlio era già e sempre del committente. Così si evita di incappare nel divieto di commercio in esseri umani.
Attribuendo ad altri i diritti di proprietà nel corpo femminile, eliminiamo il potere delle donne di decidere su di sé. Solo così i contratti diventano eseguibili. Non trattandosi di un commercio proibito (quello che ha a oggetto esseri umani, o parti del corpo del venditore), né di una forma di servitù (essendo liberamente scelta dalla partoriente), siglato l’accordo, la donna non può tornare indietro. Nell’adozione avviene il contrario: la donna che partorisce è una madre a tutti gli effetti fino a quando, dopo avere partorito e secondo procedure statualmente regolate, vi rinuncia. Neanche un intento dichiarato anticipatamente di dare in adozione il proprio figlio concede ad altri diritti sul corpo della donna incinta, dà luogo a un compenso o diviene eseguibile: tutte caratteristiche che sono proprie della maternità surrogata.
Esiste certamente la surrogazione senza compenso – fra madre e figlia, sorelle, amiche. Se è una donazione, tale deve rimanere. Per tutelare i bambini oltreché gli adulti, potrebbe essere riconosciuta come adozione speciale, ma non come scambio esigibile con la forza dell’ordine. La verità è che chi ricorre alla maternità surrogata vuole un contratto chiaro, eseguibile, che non permetta alla donna incinta di avanzare diritti rispetto al feto e al bambino né durante la gravidanza né dopo. Vuole, in altri termini, ciò che le tecnologie riproduttive hanno reso possibile: un libero mercato di produzione di bambini su committenza. Per evitare l’allargarsi di scambi clandestini, con i tutti i costi umani che questi comportano, bisognerà riflettere attentamente sulla regolamentazione da darvi. Senza illudersi però che il problema sia il paternalismo. Il nodo è il commercio di essere umani ancora oggi prodotti per mezzo di essere umani.
[*Yasmine Ergas dirige il master in Genere e Politiche pubbliche alla Columbia University. È nella redazione di inGenere.it]
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