di Francesca Santucci

Ormai si era nella stagione dei Pesci; da tempo la neve aveva abbandonato i campi per lasciare spazio alla fioritura delle primule, dei ciclamini selvatici e delle erbe novelle, e già s’intravedeva qualche sparuto stormo d’uccelli che s’avventurava in ritorno.
Ero calma, stranamente calma, mentre mi lasciavo sfiorare dalle leggere folate del vento notturno che s’insinuavano prepotenti attraverso le imposte socchiuse, distogliendomi dal mio incanto e riprecipitandomi nell’abisso dei pensieri (e dei ricordi).
Ripensavo all’oggi trascorso; era stato il mio compleanno, ma chi mi aveva dato la vita per la prima volta non aveva festeggiato con me la mia nascita: mia madre mancava, ormai, da diversi mesi!
Ogni anno lei usava comprarmi delle rose ed accompagnarle con un biglietto, sempre con la stessa frase:
– A te che sei la rosa più bella del mio giardino! –
Ma io mi schernivo dicendo che era lei la rosa più bella, e lo era davvero!
Una volta avevo anche composto una poesia in tema, intitolandola proprio “La rosa più bella”: avevo visto i suoi occhi colore di smeraldo diventare lucenti di gioia e d’orgoglio, e m’ero commossa ed inorgoglita anch’io.
Qualche mese fa, d’impulso, un giorno in cui ero più triste che mai per la sua perdita, avevo acquistato una piantina di rosa, un piccolo arbusto semi rinsecchito.
Mi ero detta:
– Se con la morte non tutto muore, se da qualche parte qualcosa sopravvive, se lei da qualche parte in qualche altra forma sopravvive, riceverò un segno: questa pianta fiorirà! –
Ed ogni giorno ne avevo spiato la crescita, non mancando mai di darle l’acqua ed il giusto nutrimento, esponendola bene al sole e riparandola dalle intemperie, anche se le rose non sono fragili e sopravvivono persino ai geli dell’inverno.
Curare quella piantina era stato il mio primo pensiero del mattino e l’ultimo della sera; le avevo persino parlato, proprio come si fa con gli esseri umani (ma non sono, forse, anche i vegetali creature viventi?), blandendola amorevolmente, complimentandomi con lei quando le avevo scoperto i primi teneri boccioli.
Anche stamattina, al risveglio, dopo una notte agitata da incubi, a piedi scalzi, con i capelli in disordine, la vestaglia che mi fluttuava come un ectoplasma sulla camicia da notte, il primo pensiero era stato quello di correre dalla mia piantina di rose, e nel vento tiepido della primavera, baciata dal primo sole del mattino, l’avevo trovata lì, fiorita, ricoperta di splendidi cuori di velluto fiammeggiante, non uno, non due, ma tre e quattro e cinque e sei e sette e otto.
Piangendo di felicità come una bambina, vedendo come da quel piccolo arbusto era sbocciata una pianta così rigogliosa, avevo accarezzato molto delicatamente con le dita le sue rose, ad una ad una, petalo dopo petalo, sorridendo e piangendo, poi, d’impulso, le mie carezze erano divenute baci, prima teneri, poi golosi, avida avevo iniziato a succhiare un bocciolo, ed un altro, ed un altro, e ancora, e ancora, e poi i baci golosi erano divenuti morsi voraci e distruttori.
Infine ero arrivata anche alle spine, mordendo pure quelle e lasciandomi graffiare le labbra, e macchie rosse del mio sangue, fiammeggiante come quelle rose, mi avevano sporcato la lingua e il volto e il colletto della candida camicia da notte, e si erano confusi ai singhiozzi e al riso isterico, in un crescendo parossistico insieme di gioia e di dolore.
Poi la mia furia si era placata ed il giorno era trascorso.
Ed eccomi qui, ora, seduta accanto alla finestra, socchiusa contro il davanzale ove era stato consumato il misfatto (permanevano le tracce… petali dispersi accarezzati dal vento).
Avevo una lunga notte da trascorrere, una lunga, interminabile notte…

Francesca Santucci

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