di Cristiana Bullita
Platone scrive, presumibilmente tra il 386 e il 385 a.C.:
“… l’anima si diparte pura dal corpo, nulla del proprio corpo traendo seco […] poiché a questo sempre si preparò, – e questo non è altro che propriamente filosofare e veramente prepararsi a morire senza rammarico”
(Fedone)
Nel III sec. a.C., Epicuro così si rivolge a Meneceo:
“Abituati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro non è che la sua assenza. […] Non esiste nulla di terribile nella vita per chi davvero sappia che nulla c’è da temere nel non vivere più. Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura della morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l’affligge la sua continua attesa. Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire. La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. […] Il vero saggio, come non gli dispiace vivere, così non teme di non vivere più. La vita per lui non è un male, né è un male il non vivere. Ma come dei cibi sceglie i migliori, non la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma il più dolce.”
(Lettera sulla felicità)
Seneca, tra il 62 e il 65, scrive a Lucilio:
“Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata”
(Epistulae morales ad Lucilium).
Nei Saggi, pubblicati tra il 1580 e il 1588, Montaigne scrive:
“Non c’è nulla su cui mi sia sempre intrattenuto di più che sui pensieri della morte: anche nella stagione più dissoluta della mia vita, […] fra le donne e i giochi, qualcuno mi immaginava intento a digerire fra me e me qualche gelosia o l’incertezza di qualche speranza, mentre stavo pensando a non so chi, colto giorni prima da una febbre violenta, e alla sua morte, mentre usciva da una festa come quella, con la testa piena di frivolezza, d’amore e di divertimenti, come me, e che a me poteva accadere lo stesso.”
(Essais)
E’ celebre l’aforisma di Paolo Borsellino:
“Chi ha paura di morire muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola”.
Raimon Panikkar, nel 2009, un anno prima di morire, novantunenne, pronuncia queste parole nella chiesa di San Carlo a Milano:
“Io vivo costantemente la morte. La morte è un problema per l’individuo, ma non per la persona. Ognuno di noi, nella propria individualità, è una goccia d’acqua. Cosa capita a questa goccia d’acqua quando cade nel mare e sparisce come goccia? Dipende da che cosa è: la goccia d’acqua o l’acqua della goccia? La goccia d’acqua sparisce, ma all’acqua della goccia non succede niente. Si unisce a tutto il mare, a tutto il divino, ma non perde la sua vera natura. Ciò che sparisce, sono le difficoltà di comunicare, di abbracciarsi, di amarsi, che nascono grazie all’individualismo…”.
Platone mutua la sua nota dottrina della filosofia come preparazione alla morte dalla credenza orfico-pitagorica nella divinità e nell’immortalità dell’anima, e nella conseguente necessità di condurre una vita pura per interrompere il ciclo delle rinascite. Platone sostiene che non bisogna temere la morte ma accettarla con gratitudine, perché essa libera l’anima dal corpo e le consente di ricongiungersi al Mondo delle Idee. Il saggio, attraverso la filosofia, riesce a sottomettere le passioni alla ragione, imbrigliando così la paura della morte. Giudicare tutto alla luce della razionalità consente di riportare ogni cosa, ivi inclusi i grandi problemi metafisici, ad una prospettiva più realistica e umana.
Su questo stesso orizzonte di riflessione si colloca Epicuro, quando spoglia lucidamente la morte dai suoi fantasmi più terrifici: nella morte non si gode e non si soffre, la morte è assenza di ogni percezione. Ci affligge la sua continua e stolta attesa ma, una volta giunta, essa non può turbarci perché “quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi”. Quindi, se lasciamo che il terrore irrazionale di non esserci più accompagni il nostro tempo- del quale importa la dolcezza più che la lunghezza-, moriamo ogni giorno, come avverte acutamente Paolo Borsellino (per il quale speriamo che il suo breve tempo, eredità preziosa per noi, sia stato almeno dolce e intenso).
Ma è proprio così, si muore ogni giorno, avverte Seneca! Sia pure in un senso diverso da quello che Borsellino disapprova. Quanti di noi ne hanno consapevolezza? Ciò che è passato già appartiene alla morte, che pertanto non è una linea che taglieremo di netto in un giorno infausto. Noi viviamo immersi nella morte, siamo-per-la-morte (La morte è un modo di essere che l’Esserci assume da quando c’è. Heidegger).
Montaigne, citando esplicitamente Cicerone, si collega alla tradizione orfico-platonica e ci induce a considerare che la morte ci libera “da ogni soggezione e costrizione”, e che “chi ha imparato a morire ha disimparato a servire”: l’accoglimento razionale della morte rende liberi. Con un’evidente inclinazione stoica, il filosofo francese afferma che la libertà consiste nell’accettazione della necessità, di ciò che non si può cambiare, dell’ineluttabilità del nostro trapasso, al quale è bene prepararsi per tempo.
Tra le molte metafore della morte, trovo quella di Panikkar una delle più suggestive. La goccia e l’acqua. La goccia è il nostro abito mondano, la nostra connotazione esistenziale, il nostro io empirico che esulta e geme nel tentativo costante di affermare la propria volontà volente; l’acqua è ciò che noi siamo veramente, nel profondo, è il luogo della nostra autenticità. Cosa accade all’acqua quando la goccia viene gettata nel mare? Assolutamente niente: essa torna nell’abbraccio di una sorta di ápeiron primordiale, arricchito di un’inedita dimensione spirituale, che non ammette distinzioni e separazioni.
Il filosofo e sacerdote spagnolo conclude il suo discorso sulla morte con le seguenti parole:
“Credo di poter affermare che, personalmente, non ho paura di morire”.
Quest’asserzione ci conforta e c’incoraggia; nello stesso tempo la sua formula dubitativa esprime la prudenza di Panikkar di fronte al trascendente, che a noi appare tanto necessaria quanto naturale. Inoltre, quel “personalmente” sembra suggerire una possibile estensione, dolorosamente umana, della frase: “… ma ho paura della morte dei miei cari”. E’ così per molti di noi.
Cristiana Bullita
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