(Una storia antica)

Mi invidiavano. Ero giovane, inesperta, e lui mi aveva scelto. Lui, ufficiale d’esercito, abituato al comando, a tenere in pugno persone e situazioni. Mi sentivo protetta e padrona del mondo. Lui mi avrebbe insegnato la vita.

Scoprii presto cos’è l’ardore di un uomo, e i meandri a cui conduce. Appresi con facilità e interesse l’arte di lasciarsi amare, e imparai a maneggiare quell’arma affilata che è il potere di suscitare il desiderio. Infine conobbi il significato di questa parola. E, insieme, la sua negazione.
Perché magnifiche erano le promesse, ma misero il compenso: si preparavano cataste di rami per grandi roghi, ma tutto si consumava in un fuoco di paglia. Breve la fiammata, che non aveva il tempo di riscaldarmi. Tendevo avida le dita a quella vampa, ma già trovavo solo sterpi anneriti e carboni spenti: un falò da campo, acceso da soldati intirizziti e poi abbandonato a causa della pioggia.
Che cosa pensa un uomo quando, sfinito e prosciugato, lascia la sua donna e si volge al sonno? Conosce i solchi di rabbia che si aprono in lei, il rancore che si addensa e poi mette radici? No. Lui non sospettava nulla di tutto ciò. Io ero solo terra di conquista, e la sua brama un nemico da abbattere.

Piano piano la mia insoddisfazione prese corpo, e cominciò a vivere di vita propria. Al mattino si alzava un attimo prima di me, mi aspettava ai piedi del letto e poi mi accompagnava per le stanze, ombra bianca e famelica. Sedeva a tavola con me, partecipava ai miei discorsi, annuiva alle mie affermazioni. La sera rientrava nel mio letto e lui la nutriva.
All’inizio mio marito non si accorse di quella presenza, ma col tempo si fece inquieto e sospettoso. Avvertiva il pericolo. Cominciò a guardarsi le spalle, a tendere l’orecchio ad ogni rumore, a sorvegliare le porte. Infine l’apprensione divenne un’abitudine, e si arrese a convivere con lo spettro che lui stesso aveva convocato.
Finché un giorno potei parlare. Non so da quale pozzo profondo le parole mi vennero alla gola, astiose come pezzi di vetro. Parlai, e lo accusai e dileggiai, scaraventandogli addosso mesi d’ira e delusione.
Lui tacque. Certo non fu la mia violenza a sorprenderlo. Piuttosto barcollava il suo orgoglio di condottiero, nell’apprendere che ogni colpo inferto era stato inefficace. La mia collera si dissolse e lasciò posto alla pena, mentre il dubbio corrodeva la corazza del prode e me lo lasciava lì, nudo e inerme, esposto a umilianti considerazioni.
Da quel momento un altro fantasma prese dimora nella nostra casa, e davvero non fummo più soli: l’insicurezza. La larva della mia insoddisfazione era cresciuta a poco a poco, e aveva bisogno di essere allevata e alimentata; ma la nostra seconda ospite nacque adulta e autosufficiente. Se ne stava in disparte ad osservare mio marito con occhio esperto, pronta a consigliarlo in ogni occasione. Il valoroso, l’eroico, era caduto nelle mani degli avversari.

Quando l’insicurezza afferra un uomo, come una mantide lo paralizza, lo disarma e poi lo inghiotte. Divorato dall’ansia, timido e malcerto: ecco come diventò mio marito. Esitanti i suoi abbracci, quasi ingenuo il suo tocco. E più cresceva l’imperizia, più dilagava la mia rabbia, più aumentava il suo amore. Ma io non chiedevo premure, e lui lo sapeva. A che serve un uomo senza ossa? È un peso da trascinare, un mucchietto di stracci, un otre vuoto e incartapecorito.
Io rivestivo la mia stizza di parole gentili, ma la lasciavo trasparire dai gesti. E lui inorridiva, annegava nel timore di essere disprezzato. Così, giorno dopo giorno, mi insegnò a dominarlo.

***

Ma una notte la vidi, e ne ebbi paura. Non era un sogno. Vidi che stendeva la mano e colpiva, nel grande letto che ci ospitava tutt’e quattro. Lei, la mia ombra insoddisfatta, affondava una lama nel cuore dell’altra ombra, l’insicura compagna di mio marito.
No, non era un sogno. Forse guardavo un desiderio. Oppure un frammento di tempo: il tempo di un’altra donna o quello di mille altre, differenti da me ma con qualcosa in comune. Tutte scortate da un medesimo spettro.
«Vattene», disse una voce dentro la mia testa. «Va’ via, perché colpirà ancora, e forse con le tue mani».
Feci le valigie il giorno dopo. Me ne andai di nascosto, sapendo che lui non avrebbe capito. Me ne andai in silenzio, lasciandomi dietro ripicche e rancori, con l’animo aperto a giornate diverse.

Mi bastarono pochi passi per rendermi conto di non essere sola: lei mi seguiva. E non mi avrebbe perso di vista.
Mentre svoltavo l’angolo della mia vita, mi chiesi per quanto ancora mi avrebbe spiata, sorvegliata, aspettata. Mi chiesi se la nebbiosa catena che ci teneva unite si sarebbe spezzata, prima o poi, o se il filo degli eventi avrebbe per sempre annodato le nostre esistenze.

FINE

Maria Antonietta Pirrigheddu
(La voce delle donne 2006)

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