di Giuseppe Tornatore

Certo, partendo dal “sottozero” dell’inguardabile Malena, “La Sconosciuta” fa tirare un sospiro di sollievo. Molto vicino ai film americani “di genere”o a romanzi come ad es. “L’Ospite” di Nicci French, si incentra sulla figura della sconosciuta che entra in una famiglia normale riuscendo ad accattivarsi fiducia e affetto e a sconvolgerne i parametri, finchè il suo gioco si precisa e si svela in tutta la sua ferocia.
“La Sconosciuta” è un film freddamente crudele, in cui deborda, contenuto con fatica, un immaginario erotico con forti pulsioni sadomaso. Si snoda come una fiction, con i suoi intrecci ora appassionanti ora inverosimili, con i suoi numerosi e peraltro spesso prevedibili colpi di scena. Di buon livello il primo tempo, intrigante, criptico e serrato, quasi interamente sostenuto dal personaggio di Irena (l’intensa Rappoport), concentrata e persa nelle sue trame deliranti da stalker, nel suo caparbio tentativo di riprendersi la vita ad ogni costo, chiunque ne faccia le spese. Il secondo tempo invece ha un calo evidente nell’ispirazione, nella sceneggiatura, nell’atmosfera; pasticciato e incongruo, con un Michele Placido reso più incombente che inquietante da una recitazione esteriore ed eccessiva, precipita verso il drammone Anni Cinquanta.
Molte le scene di cui si sarebbe potuto fare a meno (Irena distesa a letto con accanto il vestito da uomo, la pioggia dei soldi, l’insistenza della discarica, l’artificioso montaggio Griffith nella scena del ritrovamento del cadavere, il tema della spirale – le scale a chiocciola, il gioiello di Muffa-, le forbici -forse un richiamo freudiano alla consapevolezza del regista che nei suoi film c’è sempre molto da tagliare), e molte le sbavature che disturbano la sceneggiatura. Alcuni esempi:
-gli uomini del servizio d’ordine dei supermercati non perquisiscono le donne come se si fosse in “stato d’assedio”, per cui è chiaro che la scena è pensata solo in funzione del flash back;
-Irena chiede alla bambina da lei legata e “torturata a fin di bene” perché non l’abbia schiaffeggiata prima, mentre è evidente che prima non poteva farlo avendo le mani legate dietro la schiena;
-la cassaforte degli Adacher, guarda che combinazione (è proprio il caso di dirlo), sta strategicamente collocata di fronte al buco della serratura in modo che basta guardarci per vedere il numero che viene composto.
-il “provino” con le ragazze nude e mascherate spiate da un occhio anonimo dietro la tenda, è una trovata macchinosa e inutile, se non per la sua valenza di eros perverso, e alla stessa esigenza è riconducibile la descrizione della punizione subita dalle ragazze “ci appendeva nude a testa in giù, e ci urinava addosso”, superflua a quel punto a livello narrativo, improbabile a livello realistico.
-nove figli in dodici anni non sono un po’ troppi? Va bene che c’era una selezione per scegliere le ragazze da far restare incinte, ma… sceglievano sempre lei?
-il finale consolatorio appare piuttosto assurdo, con la giovane Tea che non si fa vedere per 10 anni ma poi accoglie a sorpresa Irena all’uscita dal carcere e sorride lieta ritrovando la responsabile sia pure indiretta della morte della madre; ma siamo ancora fortunati che Tornatore non abbia pensato addirittura di far sposare Irena col padre di Tea.
Le musiche di Morricone sono suggestive nel tema portante, irritanti nel riecheggiamento di Psycho, ma comunque troppo invadenti e onnipresenti a cercare di rafforzare un’emozione che le immagini da sole non sostengono.
Tra i momenti felici in una struttura filmica di maniera si impone la bella inquadratura densa di metafore delle due donne (Irena e Valeria) in controcampo sulla porta di casa di Irena;
la cura ostinata dei fiori sul balcone come simbolo dello sforzo di dar vita a qualcosa, e dell’incapacità di comprendere che niente è sostituibile e che le piante secche non saranno compensate dalle piante fiorite appena ricomprate; il colloquio toccante con Tea ricoverata in ospedale; i perturbanti flash con scene bondage e sadomaso. Concludendo, “La Sconosciuta” è un film senza colpi d’ala, ben interpretato da quasi tutti gli attori (oltre alla protagonista ricordiamo la brava Claudia Gerini che vivifica un ruolo ingrato come spesso le accade, Pierfrancesco Favino misurato e autentico, la piccola Clara Dossena sensibile ed espressiva, Alessandro Haber che rende umano e credibile un personaggio che poteva rischiare il caricaturale); un film che riesce a catturare l’interesse ma che, man mano che si sviluppa, finisce col deludere. Ha certamente il merito di richiamare l’attenzione sulla duplicità dell’individuo, sulla mescolanza tra bene e male, tra crudeltà e amore, sulle complicità e sulle somiglianze tra vittime e aguzzini; ma è troppo “esplicito” e condotto con troppa freddezza perché il dramma riesca ad insinuarsi nell’animo, continuando a vivere “dentro”, dopo il riaccendersi delle luci in sala.

Angela Diana di Francesca

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