Dopo essersi reso complice di Nerone nell’omicidio di Agrippina, madre dello stesso imperatore, Seneca scrive il De tranquillitate animi, probabilmente nel 61. Anche questo dialogo, come il De otio, su cui mi sono qui già intrattenuta, è dedicato all’amico Sereno, ed è diviso in 17 capitoli.
Il tema dell’opera – come s’intuisce facilmente – è la serenità dell’anima, raggiungibile, secondo il filosofo, non attraverso l’annullamento delle passioni (atarassìa), ma attraverso una saggia moderazione delle stesse, un equilibrio tra gli opposti che solo conduce all’euthymìa dei Greci, all’appagamento interiore di cui parla Democrito, che spesso Seneca cita. Considerato il carattere generalista di questa sezione, mi soffermerò soltanto su alcuni aspetti della trattazione – più lunga e articolata del De otio –,quelli che mi sono sembrati più significativi per noi donne e uomini del nuovo millennio.
Tra i Dialoghi di Seneca, questo è l’unico che lo sia propriamente, in senso tecnico, benché Sereno vi compaia solo nel primo capitolo. All’inizio Seneca, per bocca del suo interlocutore, si sofferma sulle virtù e sui difetti: delle prime dice che sia quelle autentiche che quelle fittizie – tra le quali annovera il potere politico e il favore popolare – impiegano del tempo per essere riconosciute dagli altri; dei secondi dice che c’è il rischio di finire per amarli: «la continua dimestichezza con i nostri mali ce li fa amare come se fossero dei beni (tam malorum quam bonorum longa conversatio amorem induit)». Pur dicendosi attratto dal lusso e dallo sfarzo, Sereno sostiene di amare la semplicità: anche il cibo deve essere semplice e leggero e non restare sullo stomaco, «costringendomi magari a farlo uscire da dove è entrato (non rediturus qua intraverit)» … Quando lo scontro con il mondo esterno s’inasprisce (tra l’Io e il non-io, direbbe Fichte), Sereno corre a ritirarsi a vita privata. «Ma appena una bella lettura mi titilla l’animo e piena com’è di nobilissimi esempi mi sprona ad imitarli, allora ecco, di nuovo, mi vien voglia di lanciarmi nel foro». «Quanto allo scrivere […] a che pro preoccuparsi di comporre opere immortali?»: qui Sereno sembra interloquire col Platone del Simposio, il quale aveva affidato a Diotima e a Socrate l’espressione del proprio pensiero: c’è chi, pur di conservare immortale memoria di sé, compie gesti estremi e rinuncia anche alla vita, c’è chi fa tanti figli, ma c’è anche chi resta gravido nello spirito e partorisce il pensiero. Questi sono i poeti, gli artisti, i creativi; più sono valenti e più sono disposti a fare ogni cosa per rendersi immortali. Sereno la pensa diversamente: scrivere sì, ma per passatempo, senza inutili velleità: «Siamo nati per morire, un funerale silenzioso comporta meno fatica (morti natus es: minus molestiarum habet funus tacitum)». Tuttavia Sereno continua a oscillare tra il bisogno di privato e di pubblico e sa che la fama può renderlo troppo indulgente verso se stesso. Vorrebbe smettere questo continuo ondeggiamento, consapevole che «non è la tempesta che mi disturba, è il mal di mare (non tempestate vexor, sed nausea)».
Rivolgendosi a Sereno, e volendolo confortare, Seneca gli dice che lui sta meglio di chi finge di non avere mali, di chi è volubile, di chi non lo è per indolenza. Quest’ultimo gruppo mi pare particolarmente interessante: «quelli che vivono non come vogliono, ma come hanno cominciato (illos qui […] vivunt non quomodo volunt, sed quomodo coeperunt): quanti disprezzano il proprio lavoro, sono insofferenti al compagno/alla compagna di vita, detestano il luogo in cui abitano eppure non cercano un’altra occupazione, non si separano, non osano lasciare la propria casa? Se, delusi dalla vita pubblica, ci ritiriamo nel privato essendo portati all’azione, giungiamo alla noia, alla malinconia e alla depressione. Non abbiamo nulla da fare e invidiamo gli altri. L’animo umano, per natura, cerca sempre nuovi stimoli. Chi, ad esempio, lavora incessantemente fa come chi tormenta le proprie piaghe, le quali, anche dolendo, procurano piacere. L’Achille omerico continua a rigirarsi nel letto, pur non essendosi stancato della posizione assunta. Per lo stesso motivo alcuni intraprendono lunghi viaggi, ma chi viaggia fugge da se stesso (Hoc se quisque modo semper fugit, dice Lucrezio). Contro la noia c’è l’impegno pubblico, ma poiché l’onestà non viene riconosciuta e le difficoltà sono tante, conviene riparare nella vita privata; nella risposta di Seneca perdura quindi la tremenda oscillazione esistenziale degli stoici. Ricordiamoci comunque che il tempo è prezioso: se usiamo quello di cui disponiamo in modo che non ne resti alcuna traccia, succede che da vecchi, a comprova che sia effettivamente trascorso, non ci resta che parlare della nostra età… E se dedichiamo a qualcuno del tempo, questo deve esserci riconosciuto. Nessuno può abusare del nostro tempo!
Tipico degli stoici è anche il cosmopolitismo: «noi non ci chiudiamo dentro le mura di una città ma ci sentiamo e siamo in rapporto con l’intera umanità, eleggiamo a nostra patria il mondo (in totius orbis commercium emisimus patriamque nobis mundum professi sumus)». In tempi di odiosa e strumentale propaganda patriottica e di pericolosi rigurgiti imperialisti, queste parole sono un lenitivo per il nostro animo afflitto e disgustato. C’è poi un invito all’umiltà, che è anche un monito pedagogico: se non puoi stare nelle prime file, stai nelle retrovie, ma dai ugualmente il tuo contributo. Vengono in mente i versi di Douglas Malloch: Se non puoi essere un pino in cima alla collina, / sii un arbusto nella valle, ma sii il miglior, piccolo arbusto/ accanto al ruscello […] Sii il meglio di qualunque cosa tu possa essere. Però non possiamo seppellirci in casa, neppure nella situazione peggiore; del resto «il peggiore dei mali è uscire dal novero dei vivi prima di morire (ultimum malorum est e vivorum numero exire antequam moriaris)». Ma possiamo dare più spazio alla vita privata. Ecco la saggezza dell’euthymìa: non negazione e distacco totale dalle passioni ma opportuna moderazione.
Occorre anche tener sempre presente che «chi va contro le proprie inclinazioni fa una cattiva riuscita, gli spiriti costretti rispondono male (male enim respondent coacta ingenia)». Se c’è una resistenza dovuta a una natura non adatta al compito, si produce rabbia, e il peso finisce con lo schiacciare il portatore. Questa è un’altra perla per gli educatori.
Il settimo capitolo del dialogo si apre con una frase bellissima e vera: «Non c’è nulla che possa rasserenarti l’animo quanto un amico fidato (Nihil aeque oblectaverit animum quam amicitia fidelis et dulcis)», e prosegue con una magnifica definizione di “amico”: «una persona dal cuore così pieno di affetto da potervi riversare tranquillamente ogni segreto, dalla coscienza così aperta da metterti a tuo agio più di quanto tu non ti senta con la tua, la cui voce lenisca le tue ansie, il cui consiglio aiuti le tue decisioni e il cui buonumore disperda la tristezza, una persona, insomma, la cui sola presenza ti rallegri e ti rassicuri». In questi tempi social, in cui ciascuno di noi ha almeno qualche centinaio di “amici”, sarebbe utile tenere a mente le parole di Seneca. E poi ci giunge una raccomandazione particolare: cerchiamo di evitare amici malinconici e quelli che si lamentano di tutto. Provo un certo disagio e dispiacere per le mie frequentazioni, perché so di appartenere alla prima categoria e talvolta alla seconda…
Poiché «è un dolore più leggero non avere che perdere (levior dolor sit non habere quam perdere)», le ricchezze sono il primo dei mali perché possiamo lasciarcele sfuggire, e ci sbagliamo se pensiamo che i ricchi sopportino le disgrazie più facilmente. Infatti «il dolore per un capello strappato non varia se uno è calvo o ha una folta capigliatura (non minus molestum esse calvis quam comatis pilos velli)»; certe metafore di Seneca sono impareggiabili. Per quanto il filosofo difenda l’uguale condizione naturale di tutti gli uomini e chiami gli schiavi humili amici, in questo dialogo si riferisce a loro definendoli “animali voracissimi” con “le manacce rapaci”. Tuttavia aggiunge che siamo tutti schiavi (della carriera, del denaro, di noi stessi), ma nessuna sorte è così dura da negare un po’ di conforto.
La giusta quantità di denaro da possedere è quella che non si allontana troppo dalla povertà: se riduciamo lo spazio del nostro esercizio di vita, riduciamo le possibilità di essere colpiti dalla malasorte, e anche l’esilio può rivelarsi un bene. Qui s’immagina facilmente una strizzatina d’occhio a Nerone: se l’imperatore vuole liberarsi di lui, non è necessario farlo con mezzi violenti; eppure l’anno seguente, il 62, il filosofo subirà da Nerone un tentativo di avvelenamento. Il ripetuto invito alla continenza viene esteso all’ambito dello svago letterario: è molto meglio affidarsi a pochi autori piuttosto che vagabondare tra molti, e non ha senso ammassare volumi su volumi, di cui poi si riescono a leggere a malapena i titoli… Penso alla bulimia di certi lettori compulsivi e onnivori, sprovvisti di buon gusto, che fanno compiaciuta esibizione della propria tracimante libreria domestica. Non dobbiamo esagerare neppure nei desideri, ma non possiamo impedirceli del tutto. Evitiamo ciò che non è alla nostra portata o che ci costerebbe troppa fatica. Diamoci degli obiettivi definiti e limitati. Non andiamo avanti ostinatamente, a oltranza; dobbiamo saperci fermare. Per il saggio tutto è precario, anche (soprattutto!) la vita; dobbiamo essere pronti a restituirla quando ci verrà chiesta indietro. La vita è certo preferibile alla morte ma non è un bene in sé: è uno degli indifferenti di Crisippo, cioè cose che non sono né utili né dannose alla felicità.
Noi viviamo costantemente esposti a pericoli di ogni sorta. Se qualcosa di male ci accade, non c’è da meravigliarcene e non ha senso chiederci “perché proprio a me?”. Piuttosto la domanda sarebbe “perché non a me?”. Nisi si quid (a meno che qualcosa) è la necessaria aggiunta a ogni proposito del saggio. “Farò un bel viaggio, nisi si quid” … “Diventerò pretore (avvocato, stilista, influencer), nisi si quid” … «Quello che accade ad uno può capitare a tutti (Cuivis potest accidere quod cuiquam potest)» è la preziosa sentenza di Publio Siro, e non dobbiamo mai provocare la sorte, né darle troppa fiducia. Bisogna poi sapersi adattare alle avversità, perché in un attimo si può passare dal trono ad abbracciare le ginocchia altrui… Inoltre bisogna evitare di vagare senza meta e senza uno scopo: «qualcosa farò, incontrerò qualcuno (aliquos videbo, aliquid agam)». “Faccio cose, vedo gente”, direbbe Nanni Moretti. Non dobbiamo sovraccaricarci di doveri, pubblici o privati che siano, e neppure blindare i nostri progetti, ma essere invece sempre pronti a cambiarli, secondo le circostanze. E poi cerchiamo di mantenerci indifferenti alla nostra stessa morte: Giulio Cano stava giocando a dama, quando venne a prenderlo il centurione per condurlo a morire. Allora ammonì il suo avversario di non vantarsi di una vittoria che non avrebbe conseguito, perché era già sotto di un punto. Ed elesse il centurione a testimone del proprio vantaggio. Poi consolò gli amici, che non riuscivano a rassegnarsi alla sua perdita. Era ansioso di vedere il momento in cui l’anima avrebbe abbandonato il proprio corpo e di dirimere finalmente l’annosa questione della sua immortalità. Giulio Cano come Socrate, insomma. La morte di uomini forti e coraggiosi non può affliggerci: morendo si rendono immortali.
Seneca esprime un’amarezza terribilmente attuale: «le virtù non solo non costituiscono più oggetto del desiderio, ma addirittura non risulta più utile possederle (nec sperare licet nec habere prodest)». Noi dobbiamo imparare a ridere dei vizi umani, farcene beffe, come faceva Democrito. E non invece considerarli disgrazie e piangerne, come Eraclito. La risata beffarda di Democrito, che così vince la ripugnanza per i vizi, ci evoca un’altra risata, quella dell’oltreuomo nietzscheano, che così vince la ripugnanza del pensiero dell’eterno ritorno… Altra acutissima riflessione senechiana riguarda la maschera, o meglio, pirandellianamente, le maschere che indossiamo in società. Mostrarsi sempre diversi (e migliori!) da quello che siamo, è faticoso e spiacevole, ed è difficile rimanere fedeli all’immagine che di noi abbiamo dato. Se poi quell’immagine si moltiplica, come in uno specchio rotto, per rispondere alle esigenze dei diversi contesti sociali, provochiamo la frantumazione del nostro io. Certo essere autentici espone al rischio di essere criticati, dice Seneca, ma è meglio essere spontanei e disprezzati che continuare a fingere.
Ci vengono infine dispensati importanti principi d’igiene esistenziale: bisogna alternare solitudine e compagnia, e svagarsi. Lo svago e il divertimento sono naturali ma non bisogna abusarne; così pure per il sonno. Facciamo passeggiate all’aria aperta, pranziamo con gli amici e concediamoci pure un bicchierino in più, ma non per annegare la nostra coscienza, bensì per tirarci su: «Ubriachiamoci togliendo per un po’ la triste sobrietà (ad ebrietatem veniendum […] tristis sobrietas removenda paulisper)». Ma poi non mettiamoci alla guida (la raccomandazione è mia).
Cristiana Bullita
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