di R. Benigni-con Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, J.Reno

La favola mescolata al dramma, la gag che si alterna all’immagine simbolica: è la “cifra” che Benigni ha sperimentato in “La vita è bella”, ma questo film, pur piacevole e vibrante di passione umana e civile, non uguaglia però il pathos e il coinvolgimento del precedente.
La storia d’amore tra Attilio e Vittoria inizia, nella prima parte de l film, in modo piuttosto artificioso, in un clima troppo ridondante di poesia per risultare poetico; ma si riscatta poi nelle sequenze dell’Irak, dove Attilio accorre per stare accanto a Vittoria gravemente ferita. La piccola storia individuale si staglia così sullo sfondo del grande dramma collettivo della guerra, imprimendosi nella mente e suscitando riflessioni forse più di quanto potrebbero fare decine di dibattiti.
La grande luminosa follia d’amore si affianca con un contrasto spiazzante all’oscura follia della guerra.
La follia d’amore solare, positiva, smuove il mondo, accende la speranza, opera miracoli; la follia della guerra, oscura, angosciosa, ferma la vita, spegne l’umanità, distrugge i sogni (e ne è simbolo l’intellettuale e poeta amico di Attilio con la sua scelta di morte).
Tra i momenti più intensi la fuga caotica della gente terrorizzata di fronte alle bombe, lo squallore dell’ospedale dove qualcuno -il giovane medico iracheno- comunque lotta contro ogni speranza razionale, i paesaggi dove alla desolazione della miseria, delle distruzioni, di retorici monumenti inneggianti al potere,dei lampi della contraerea fa da contrappunto il mistero del cielo stellato; emoziona la scena in cui sui visi dei soldati del posto di blocco, a cui Attilio dice di essere un poeta, passa un’ombra di nostalgia, di rimpianto per una dimensione dell’anima che la guerra ha reso irrimediabilmente distante, e si compie la magia del ritrovamento di un sentimento umano.
A un film come “La tigre e la neve” si perdona qualche ingenuità, qualche trovata eccessivamente costruita (tra cui appunto quella della tigre con l'”effetto-neve”), anche il finale a sorpresa con reminiscenze chapliniane (l’agnizione finale fa molto “Luci della città”).
Benigni crede alla sua favola con la disarmante ingenuità dei bambini, e la sua “maschera” da monello che ci fa sorridere e ridere nasconde una appassionata sensibilità che comunque ci turba, costringendoci a misurarci con temi come l’amore, la sofferenza, la pietà, la poesia. E non è poco davvero.

Angela Diana Di Francesca

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