di Cristiana Bullita
Il primo ministro nazionalconservatore e sovranista ungherese Orbán ha ricevuto il terzo mandato consecutivo con un consenso effettivo ed entusiastico degli elettori, affluiti in massa ai seggi. Ha ottenuto poco meno del 50% dei voti e, grazie al premio di maggioranza, si è assicurato i due terzi dei posti in Parlamento e quindi la possibilità di cambiare la Costituzione. Gli oppositori, fuori e dentro le istituzioni, hanno di che preoccuparsi: il governo Orbán e il suo partito Fidesz controllano i media, la Banca centrale, la magistratura, e potranno rinfocolare quella “rivoluzione illiberale” già avviata negli ultimi otto anni che fa della cultura cristiana e occidentale il baluardo contro l’“invasione islamica”, delle organizzazioni umanitarie indipendenti dei fastidiosi inciampi di cui liberarsi, dei piani di ricollocamento obbligatorio previsti dall’UE carta straccia (nonostante il mancato raggiungimento del quorum al referendum del 2016).
Emblematica della politica autoritaria e negazionista del premier ungherese è l’opera scultorea dal titolo “L’occupazione tedesca dell’Ungheria, 19 marzo 1944”, eretta a Budapest, in piazza Szabadság, fra aprile e luglio 2014. Il monumento non è mai stato inaugurato ufficialmente e le sue principali figure sono state collocate nottetempo, in gran segreto: sull’arcangelo Gabriele, che ha le braccia spalancate e nella mano destra un globo crucigero, incombe minacciosa un’immensa aquila imperiale. L’intento del committente (governo Orbán) non è equivocabile: l’incolpevole e cristiana Ungheria viene ghermita dal predatore nazista. Che l’Ungheria sia stato il primo Paese autoritario e dittatoriale in Europa dopo la Prima guerra mondiale è evidentemente, per Orban e per i suoi, fatto trascurabile. Che l’autonominato “reggente d’Ungheria” Miklós Horthy abbia imposto pesanti limitazioni alle libertà civili, abbia assunto il controllo dell’economia nazionale e abbia seguito una politica estera revisionista sui trattati di pace, così favorendo la nascita delle Croci frecciate e sprofondando il Paese nel gorgo dell’alleanza italo-tedesca e nella guerra al fianco delle potenze dell’Asse, è oggetto di opportuna rimozione. Quando nel 1944 l’Ungheria tentò un armistizio separato con gli Alleati fu invasa dall’esercito tedesco, che non incontrò resistenza.
Una scritta in cima al monumento ricorda le “vittime dell’occupazione tedesca”; manca però la precisazione che quelle seicentomila persone, per lo più ebrei avviati ai campi di sterminio, furono rastrellate e deportate con la solerte collaborazione delle autorità locali ungheresi.
Il monumento rappresenta un evidente tentativo di falsificare la Storia negando la partecipazione ungherese all’Olocausto e fa il paio con la pessima legge 104 della Polonia reazionaria di Jaroslaw Kaczynski, che punisce penalmente chi sostenga complicità polacche nello sterminio nazista.
Ai piedi del monumento di Budapest è possibile leggere manifesti in tutte le lingue che denunciano il “messaggio menzognero” trasmesso dall’installazione, di cui chiedono la rimozione. È facile immaginare che quei fogli di carta malamente incollati su sostegni improvvisati debbano essere continuamente sostituiti; i loro autori sono impegnati, insieme a molti altri cittadini ungheresi ed europei responsabili, in una protesta che continua ininterrottamente dal 2014 e che si esprime attraverso un “dibattito civile allo scopo di affrontare il passato senza indugio, apertamente”. Tale lodevole intento meriterebbe attenzione e partecipazione anche da parte nostra.
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