di Angela Manganaro
Il rischio era la lacrima, lei lo sapeva ma anche stavolta ha tenuto. Ci sono molti modi per perdere ma stasera bisognava soprattutto evitare di mostrare la classica debolezza femminile. Bisognava rassicurare tutte che qualcun’altra romperà il soffitto che ora sembra di cemento e non di cristallo. Hillary Rodham Clinton, 69 anni di cui quasi 50 passati a far politica anche per interposto marito, ha gestito l’emozione e fatto quello che doveva, un buon discorso: la prima donna candidata alla presidenza degli Stati Uniti ha molti torti ma non quello di aver rinnegato durante una lunga estenuante campagna elettorale la passione di una vita, la politica come metodo in vista di obiettivi in un momento storico in cui vincono la frase ad effetto, l’improvvisazione, la spontaneità confusa per innocenza.
È subito arrivata al punto, «nel sogno americano c’è posto per tutti», a voler rassicurare tutti coloro che dalla vittoria di Trump si sentono minacciati e irrisi, le donne, gli afroamericani, gli ispanici, le comunità omosessuali e transgender. Ha confortato il suo elettorato come poteva fare una donna di partito del secolo scorso, è riuscita a trasmettere empatia quando ha lodato la sua campagna «Siete la parte migliore dell’America». Ha ringraziato senza infingimenti gli Obama che l’hanno aiutata forse più di quanto lei stessa si sarebbe aspettata o avrebbe fatto – e la sala è scattata in piedi e ha applaudito. Ha offerto aiuto e collaborazione «al nostro presidente Trump» «perché il Paese è diviso».
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