di Cristiana Bullita
Da circa diciotto anni le istituzioni scolastiche italiane godono -si fa per dire- di autonomia didattica e organizzativa e sono pertanto libere di realizzare interventi di formazione e istruzione, in teoria nel rispetto della libertà d’insegnamento e delle indicazioni nazionali emanate dal Ministero dell’Istruzione. In pratica da circa diciotto anni, con una brusca e preoccupante accelerazione negli ultimi tre -dalla cosiddetta Buona Scuola renziana-, gli istituti scolastici si sono trasformati in aziende attente, più che a una seria formazione degli alunni, alle richieste del mercato e alla soddisfazione dell’utenza (in termini di promozioni).
Le scuole sono ormai considerate scatoloni vuoti da riempire con materiale diversificato e incoerente, mentre la didattica curricolare subisce un drastico ridimensionamento. C’è una corsa affannosa ad iscrivere le classi a gare e concorsi, a conferenze e congressi, ad iniziative estemporanee e variegate, e ad aprire le porte ad enti esterni per la realizzazione dell’Alternanza Scuola-Lavoro (ASL). Impeccabili rappresentanti di case automobilistiche, con la cravatta scura e le scarpe lucide, girano per le aule scolastiche a consegnare ai nostri alunni messaggi d’irrinunciabile portata educativa…
La dimensione aziendalistica delle scuole fagocita vieppiù il lavoro in aula, che si riduce a semplice riempitivo tra un cinema e un incontro con l’autore, tra un convegno e un viaggio, tra uno stage e una performance musicale. Il problema è che gli istituti scolastici tendono a valutarsi e a venir valutati positivamente sulla base del numero di attività “estrinseche” che vengono iniettate nel curricolo. Poco importa che siano inutili, o addirittura velenose (certi effetti non rari sono l’individualismo capitalistico e il narcisismo ipertecnologico). L’importante è che si possa dire che si sono svolte.
Gli insegnanti si sentono avviliti, mortificati. Sempre più spesso devono lasciare il passo all’esperto di turno che viene a scuola ad intrattenere gli alunni su argomenti che magari loro conoscono benissimo. E intanto i ragazzi, nell’aula magna affollata, si distraggono con gli smartphone, o ripassano per l’interrogazione dell’ora successiva, o chiacchierano instancabilmente e disturbano l’oratore, suscitando riprovazione e imbarazzo nel povero docente che ha dovuto accompagnarli lì per dovere d’ufficio.
Checché se ne dica, l’insegnante non è solo un facilitatore degli apprendimenti, ma è un insostituibile catalizzatore: lui consente l’innesco della reazione cognitiva che porta alla conoscenza. E invece viene sbattuto in un angolo, marginalizzato. La lezione, sia essa frontale, sagittale, capovolta o trasversale, analogica o digitale, richiede la presenza e l’impegno del docente curricolare.
Il fatto che la multa non si chiami multa ma sanzione amministrativa– chiarimento fornito a scuola nel corso di una conferenza sulla legalità cui ho assistito di recente- è certo interessante e utile, ma non vale il rischio di lasciare Garibaldi ferito in Aspromonte senza neppure farlo giungere a Mentana, perché non restano abbastanza ore di lezione per finire il Risorgimento…
I docenti sono ancora obbligati al rispetto di “Indicazioni nazionali riguardanti gli obiettivi specifici di apprendimento”, che definiscono imprescindibili certi contenuti disciplinari. Ciò significa, ad esempio, che non è lecito, per un docente di filosofia, tralasciare lo studio di Agostino d’Ippona o di Hume. Però per svolgere seriamente questi argomenti ci vuole tempo: sembra un’ovvietà alla Catalano, invece è bene ricordarlo. Certo, si può sempre fare un breve e fugace accenno a qualsiasi tema, per poi infilarlo a fine anno nell’elenco di quelli trattati e risparmiarsi eventuali reprimende. È una questione di onestà intellettuale, di probità professionale. Credo che sia necessario, per ciascuna materia, individuare un numero minimo di ore garantito da svolgere in classe con il proprio insegnante, sotto il quale non sia lecito scendere, nell’interesse primario degli alunni.
Trovo davvero triste constatare come pochissimi docenti e pochissime famiglie segnalino con preoccupazione questo andazzo; è più comprensibile che non lo facciano gli studenti, i quali volentieri sfuggono alle lezioni curricolari, e al relativo impegno in termini di attenzione e di studio.
Queste cattive pratiche a scuola danneggiano l’autonomia dell’insegnante, il suo ruolo e la sua didattica, il cui spazio viene esautorato a vantaggio di altre attività. L’ASL sottrae tempo allo svolgimento dei programmi e impone un’ideologia mercificante della formazione al lavoro. Ma non si tratta solo dell’ASL: il processo di espropriazione della funzione docente si esplica in altre innumerevoli forme, come si è detto sopra. La contrazione degli obiettivi di apprendimento e la semplificazione dei contenuti sono conseguenze immediate e inevitabili di tale processo, cui quasi nessuno presta attenzione. Ma gli esiti a distanza si vedranno eccome: incapacità di concentrazione e di applicazione prolungate, di critica organizzata e costruttiva, impazienza, superficialità di giudizio connoteranno i cittadini di domani, sfuggiti oggi al necessario processo di soggettivazione, di cui la scuola si è sempre fatta carico. Diventare soggetti significa non farsi assoggettare: forse è proprio questo esercizio di autoconsapevolezza e di libertà che si vuole impedire ad ogni costo, mettendo in campo tutte le risorse per inquinare e snaturare le istituzioni scolastiche, sfumandone la fisionomia e scippandole del loro ruolo precipuo.
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