di Giorgio Calò
Solo con una rivoluzione copernicana dell’approccio comune verso la politica saremo in grado di utilizzare la specificità del femminile nella gestione della cosa pubblica, con l’enorme vantaggio di integrare due punti di vista che sono complementari nella vita reale, ma non nella politica.
Bloccando le quote-panda, o quote rosa, riservate per legge alle candidate, il nostro Parlamento ha dato il peggio di sé. Su questo problema anche in campo femminile il dibattito è aperto e vivace. Credo che “aree riservate” siano utili nel breve periodo ma che siano paternalistiche, consolatorie, destinate a perpetuare la difesa e la tutela delle cosiddette fasce deboli e non la loro crescita.
Spesso ci lamentiamo della disaffezione delle donne per la politica ma non sempre ci impegniamo a rimuovere gli ostacoli alla loro piena partecipazione. Quali sono gli ostacoli apparenti e quali quelli che richiedono una rivoluzione copernicana di mentalità? Non voglio fare l’ultrà femminista, ma come manager mi sono sempre preoccupato dell’uso ottimale delle risorse umane e mi sembra che in questo campo siamo proprio carenti.
Per il 2005, ventiquattro Università italiane, in collaborazione con il Ministero per le Pari Opportunità, hanno organizzato corsi di sessanta ore di educazione alla politica, “dedicati alle donne, per favorirne l’accesso alle assemblee politiche e alla cariche elettive”, sulla base di finanziamenti per progetti “volti a ridurre il disagio sociale della donna”. Lodevole iniziativa, ma riservata alle studentesse universitarie che sono tante ma rappresentano solo una parte del variegato mondo femminile.
Vogliamo invece pensare alle altre, alle donne che mandano avanti le nostre famiglie e che ci permettono di occupare il nostro tempo nel fare politica? E’ la mancanza di tempo il primo problema che si presenta a chiunque voglia partecipare attivamente alla vita sociale e collettiva, fosse pure il consiglio di istituto o quello di zona. E allora, perché non prevedere una diversa distribuzione dei tempi di vita e dei tempi di impegno, come già succede in alcuni casi e solo nell’ambito del lavoro?
La rivoluzione copernicana che propongo si articola su step conseguenti
· pensiamo o no che una maggiore presenza femminile e soprattutto un punto di vista altro, diverso, collaudato da millenni di gestione della vita privata abbia qualcosa da proporre alla gestione della vita pubblica? La risposta affermativa a questa domanda è un prerequisito indispensabile per impostare interventi non di pari opportunità, ma di responsabilità paritarie e condivise
· quanto siamo disposti a metterci in discussione per collegare le capacità maschili analitiche e teoriche a quelle femminili, pratiche e intuitive? Le generalizzazioni sono sempre riduttive e sbagliate, ma non c’è dubbio che esistano diversi modi di ragionare; se uno ha sempre prevalso, lo ha fatto forse disperdendo un patrimonio prezioso, di cui ora tutti hanno bisogno. Non voglio parlare di autocritica, ma tocca anche a noi una seria riflessione in proposito
· e allora, se vogliamo veramente una maggiore presenza femminile, con tutti gli apporti e le difficoltà che forse potranno presentarsi, perché non inventarsi i modi per renderla praticamente possibile?
Due mi sembrano i percorsi ipotizzabili per tradurre in modo operativo un’ipotesi già praticata nei paesi anglosassoni e nord-europei: uno lavora sulla mentalità e richiede pertanto tempi lunghi, l’altro costituisce un obiettivo che possiamo realizzare a breve, se lo vogliamo.
In questo momento, quanti di noi cambierebbero quello che fanno con quello che fa la propria compagna? Fra stereotipo maschile e stereotipo femminile, ridiscutere esigenze, impegni e ruoli nel privato e nel pubblico richiede tanta onestà intellettuale, tanta buona volontà, tanta fiducia reciproca da costituire, forse, un’utopia.
Sul piano pratico, con creatività e fantasia possiamo immaginare servizi di supporto e di vicarianza all’impegno familiare. Molti luoghi di lavoro a forte presenza femminile, come ospedali e case di cura, attuano per le dipendenti servizi di baby-sitting; vari centri commerciali forniscono qualcosa di analogo; in alcune parrocchie i bambini più piccoli vengono intrattenuti e custoditi durante le funzioni. Non si tratta di rimettere in discussione i fondamenti dell’impegno personale e familiare; ma perché non pensare a banche del tempo, a incentivi di partecipazione, a soluzioni pratiche in grado di permettere a tutte le donne di entrare attivamente in politica? Il dilemma fra preparazione della cena e partecipazione alla riunione può impedire anche alla donna più motivata e sensibile di scegliere la seconda opzione. Ma è veramente questo che vogliamo? La politica è fatta solo per gli uomini e per le donne nubili e senza famiglia, o non è invece una sfida per tutti, nella quale chi più ha più dà? E non c’è dubbio che le donne hanno tanto da dare.
Giorgio Calò
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