di Maddalena Rispoli
Bastava un nonnulla per cambiare posizione sociale: da “bona carusa” a “bottana” il passo era molto breve se la vigilanza sulla propria vita e sul comportamento erano allentati anche nel piccolo particolare. L’abbigliamento, per esempio, era squadrato nel minimo dettaglio, anche il più insignificante agli occhi del profano. La gonnella doveva avere la lunghezza giusta, né troppa né poca e non doveva fasciare il corpo; sarebbe stato indice di sensuale vanità atta ad indicare una approfondita conoscenza sessuale che invece la fanciulla per bene avrebbe dovuto ignorare per apprenderla al momento giusto solo dal marito. Ugualmente una scollatura osé avrebbe rivelato reconditi desideri di conquiste maschili e dunque era opportuno mostrare e non mostrare. Lo sguardo rivelava lo status verginale: se dritto negli occhi dell’interlocutore avrebbe denunciato una sfrontatezza senza pari perché avrebbe potuto accogliere ammiccamenti con eventuali sottintesi, dunque sempre tenere gli occhi bassi. Era la prima cosa che le madri insegnavano alle figlie fin dalla puerizia. Le mani dovevano pudicamente restare in grembo, il più delle volte con le dita intrecciate a mò di preghiera (ciò deponeva molto bene dando l’idea di femmina di chiesa). Il trucco si doveva assolutamente evitare giacché simbolo di forte vanità ed abitudine a richiami carnali per l’altrui sesso che da ciò avrebbe potuto comprendere come la donna si fosse data a passionali incontri, veri o presunti che fossero. Il linguaggio si doveva misurare con il bilancino dell’orafo essendo validissimo l’antico adagio “Megghiu buttana di sutta ‘ca di vucca” e cioè meglio passionali con la parte bassa del corpo (coperta e ben nascosta) piuttosto che con il linguaggio udibile da tutti.
Filippuzza aveva un grandissimo torto, povera ma nel contempo ricca. La famiglia era legata alla terra da tempo immemore: miseri fittavoli che rubavano alle zolle avare quanto riuscivano a strappare, sempre agli ordini di padroni spilorci che avrebbero voluto succhiare il sangue pure ai granelli di polvere senza spargere una sola goccia di sudore dalla propria fronte ed a considerare i contadini soltanto sordidi ladri che rubavano tutto il raccolto nascondendolo in luoghi segreti pur di non dividerlo come il costume voleva. Filippuzza sembrava trionfare in tutta quella miseria sovrastando con la sua snella figura persino il letame che la circondava da ogni lato. Non poteva passare inosservata poiché era come un luccichio nella campagna anzi, il suo sfavillio dorato era degna cornice dei bruni rami che si stagliavano verso l’azzurro luminoso del cielo mentre il suo canto sembrava volare di valle in valle come una dolce melodia. Le labbra carnose e vermiglie si aprivano sui denti candidi come neve sull’Etna e gli occhi, incorniciati da sopracciglia nere, rassomigliavano a due polle di verde acqua montana in cui ci si poteva specchiare per la limpida trasparenza. I capelli erano stati un capolavoro della natura che si era davvero compiaciuta in lei: lisci e setosi le cadevano sulle spalle come una colata di miele di castagno e s’inanellavano ai soffi del vento. I genitori, consapevoli che tanta beltà sarebbe stata soltanto foriera di disgrazia, tentavano di nascondere la figlia agli occhi del paese e per questo l’avevano relegata in quel fazzoletto di terra sperando che pochi la potessero vedere prima di aver trovato qualche bravo giovane disposto a maritarsela. Purtroppo i loro sforzi erano davvero vani; è difficile nascondere il bagliore dell’oro. Chissà come, i carrettieri per raggiungere Girgenti allungavano la strada e il collo nella speranza di vederla, lo stesso avveniva per i soprastanti che con la loro giumenta procedevano a lentissima andatura nei pressi della masseria, così era anche per i pecorai che giunti nelle vicinanze, per puro caso, dovevano radunare il gregge disperso. E dunque, la voce volò di bocca in bocca, di sasso in sasso, di casa in casa. In breve tempo tutto il paese aveva trovato un nuovo argomento di conversazione maschile e ciascuno aggiungeva di suo qualche nuovo elemento che potesse stupire gli altri, che portasse una novità fino ad allora sconosciuta, che rendesse la conversazione più piccante per qualche ciarla insolita.
Era la sera di San Calogero quando la comitiva dei maschi, riunita a bere un buon bicchiere e intenta ad ascoltare le panzane che scappavano dalle bocche impastate, fu scossa da una notizia che rintronò come un colpo di grancassa: ”Cu Filippuzza, cosa ci fici!” Cadde un silenzio ghiacciato e tutti si girarono verso Cocò Puntano, autore del terrificante comunicato che rivelava un passionale incontro. Questi aveva le spalle addossate alla crostosa parete e teneva un piede incrociato con l’altro per non perdere l’equilibrio precario in cui si trovava annebbiato com’era dall’alcool. Gli occhi di tutti si fissarono su di lui come aculei di istrice e nessuno osò aggiungere una parola a quanto Cocò aveva esternato anzi rimanevano in attesa di avere ulteriori ragguagli sulla situazione ormai spietata. Egli non si fece pregare e iniziò il racconto che gli fluiva dalle labbra come un torrente in piena in cui ogni più piccola onda era un particolare scabroso che rivelava una passione violenta e partecipata dalla femmina in questione; entrò nei particolari più reconditi e descrisse fedelmente le zone più intime con una vivacità nelle minuzie da rendere visibile l’immaginario. Ciascuno si beava e vedeva ciò che con gli occhi della mente voleva vedere, si ritrovava in quanto aveva sognato da tanto tempo e si sentiva protagonista del racconto che ad un tratto però venne rotto dalla voce di Gerlandino funcia di lepre, così chiamato per via del suo labbro leporino che gli rendeva quasi impronunciabile il mondo delle consonanti, il quale si addentrò in incontri agresti in cui aveva subito gli assalti di questa donna vogliosa e priva di inibizioni. Ormai da ogni lato dello stanzone si udivano testimonianze che si accavallavano e Filippuzza nella chimera collettiva si era trasformata in un’insaziabile amante pronta a soddisfare uno squadrone di fanteria assetato d’amore. Poi, ricalò un silenzio amaro e si udirono voci che da bisbiglianti divennero chiare e forti, quasi un coro: ”Bottana è!”
Per la povera Filippuzza non vi fu più nulla da fare, ormai la nominata era volata per tutto il paese e non le rimase che finire i suoi giorni in stato di zitellaggio.
Maddalena Rispoli
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