di Cristiana Bullita

Alexis de Tocqueville, esponente illustre del liberalismo ottocentesco, dopo un viaggio di nove mesi negli Stati Uniti, scrisse un trattato politico-sociale articolato in due volumi: De la démocratie en Amérique, pubblicato nel 1835, e Démocratie en Amérique, del 1840. In quest’opera egli propone delle riflessioni che è possibile estendere a tutta la società occidentale, soprattutto a partire dalla manifesta preoccupazione che il conformismo delle masse favorisca il sorgere di un governo dispotico, insieme al progressivo svuotamento della pratica politica come esercizio di libertà.
Herbert Marcuse è stato uno dei maggiori rappresentanti della cosiddetta “teoria critica della società” elaborata dalla Scuola di Francoforte, sorta nel 1923 ed esaurita negli anni Settanta. Egli era imbevuto della tradizione hegelo-marxista e dunque era lontanissimo dalle posizioni espresse cent’anni prima dal liberalismo. In particolare, Tocqueville e Marcuse divergevano radicalmente sul tema delle disuguaglianze sociali, viste dal primo come congrua manifestazione di meriti personali e dal secondo, sulla scorta di Marx, come odiosa ingiustizia da sanare. Tuttavia è possibile rintracciare nei due autori innegabili analogie.

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 CONVERGENZE PARALLELE: TOCQUEVILLE E MARCUSE     marcuse - LE 
 CONVERGENZE PARALLELE: TOCQUEVILLE E MARCUSE
Alexis de Tocqueville                            Herbert Marcuse    

Marcuse, come Tocqueville, punta il dito contro il conformismo, che rappresenta uno dei principali strumenti di asservimento dell’uomo dedito ai consumi, illusoriamente pago e libero dal bisogno. Il sistema cui è affidata «l’amministrazione totale» dell’esistenza nella società industriale avanzata è quello stesso «potere immenso e tutelare» che nel politico francese s’incarica di assicurare i beni degli uomini e di vegliare sulla loro sorte. Un potere che questi definisce «assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite» e che, nel filosofo tedesco, produce una «confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà».
La società industriale moderna è infatti totalitaria. Il totalitarismo che la connota è diverso da quello “verticale” tipico dei grandi regimi, in cui un potere tangibile preme e schiaccia chi si trova sotto. Il totalitarismo della società industriale avanzata è di tipo “orizzontale” e la sua arma è il conformismo: chi non si adegua al modello sociale dominante viene estromesso. Ciò accade senza spargimento di sangue e senza la diretta compromissione di alcuno, ma ha ugualmente conseguenze letali. Il conformismo e il consumismo sono veleni che non sporcano le mani e non lasciano tracce. Il fragore terso e rutilante dei centri commerciali riassorbe in sé ogni rantolo mortale.
De Tocqueville parla di un «dispotismo addolcito», frutto di una degenerazione democratica. Il popolo è fatto d’individui uguali e confusi «in una massa comune», di persone narcotizzate e avvilite dalla cancellazione delle differenze. Il rigetto di questa omologazione fa scattare la critica al principio di uguaglianza: ormai tutti sono uguali, anche nei desideri e nella conduzione della propria esistenza, acquistano gli stessi beni materiali e vivono all’insegna di un individualismo sfrenato. Tale situazione è molto gradita al potere politico, che controlla più facilmente individui scarsamente dotati di autonomia e di spirito critico, che si lasciano guidare persino nella gestione del tempo libero e nella scelta degli svaghi (molto più tardi i francofortesi conieranno la locuzione “industria culturale”, per riferirsi all’enorme apparato che stabilisce orari e modalità di un divertimento programmato ed etero-diretto). De Tocqueville è convinto che il terreno di coltura privilegiato di questa nuova forma di tirannide è proprio la democrazia, in cui libertà e benessere sono solo apparenti, e dove l’illusorio conforto di «piaceri piccoli e volgari» rende più difficile alimentare lo spirito critico.
Dal versante ideologico opposto, Marcuse muove critica analoga a quella di Tocqueville, quando scrive che «la democrazia totalitaria lavora con l’integrazione». Oggi l’integrazione è uno dei must del discorso sociologico e politico contemporaneo e quell’affermazione potrebbe suonare eretica. Tuttavia il filosofo tedesco si riferisce all’integrazione della classe operaia nel sistema d’interessi collettivo, e non ad altri tipi d’integrazione che oggi ci sono più consueti (degli stranieri, dei disabili). Marcuse afferma che il lavoratore e il suo capo sembrano uguali, vanno in vacanza negli stessi posti, si vestono nello stesso modo; la dattilografa e la figlia del direttore frequentano lo stesso salone di bellezza. Questi fatti inducono una suggestione pericolosissima, e cioè che le classi sociali siano scomparse. Naturalmente non è così, ma torna utile a chi sta meglio che lo si creda. È accaduto soltanto che certi bisogni e certi piaceri siano stati fatti propri dalla maggioranza della popolazione, con ciò rafforzando gli interessi costituiti. I valori sociali sono stati uniformati attraverso l’accoglimento di quelli borghesi da parte delle classi subalterne, che tuttavia non hanno visto modificare il proprio status. La democrazia s’è appiattita su quegli stessi valori, o disvalori, e la realtà ha inglobato in sé anche gli ideali che avrebbero dovuto confutarla; essa ha integrato, neutralizzandola, ogni opposizione. E così è svanita l’“alienazione”, sostituita dall’integrazione. Il proletariato ha finito con l’aderire passivamente alla propria condizione esistenziale, facendo coincidere ciò che è diventato con ciò che avrebbe voluto essere: l’identificazione di reale e razionale rivela ancora una volta la sua perniciosità. Questo grande abbaglio egualitario disinnesca il potenziale rivoluzionario del proletariato, che s’illude di essere come i suoi modelli. E così, non vedendo più i lacci da cui viene strangolato, non avverte più l’urgenza di strapparseli via.
Nel 1780, ben prima di Tocqueville e di Marcuse, un illustre giurista e filosofo napoletano scriveva:
«Non vi è dispotismo peggiore di quello che è nascosto sotto il velo della libertà».
(G. Filangieri, La Scienza della legislazione)

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