di Laura Cima
Le donne entrarono per la prima volta sulla scena politica come soggetti istituzionali, portandosi dietro una debolezza storica che pensavano di avere superato e si ritrovarono nella Consulta, nella Costituente e in Parlamento a misurarsi con i soliti pregiudizi e atteggiamenti maschilisti dei loro colleghi e dei loro dirigenti di partito.
da ifeitalia
Nella Consulta nazionale istituita il 5 aprile 1945 vennero designate dai partiti dodici donne e una, Adele Bei, dalla Cgil, ma nessuna fece parte dell’ufficio di presidenza: presidente, vicepresidenti, segretari e questori erano tutti uomini. Angela Cingolani, designata dalla DC, fu la prima donna a prendere la parola nella storia italiana in un’aula parlamentare con un discorso politico generale tutto teso alla necessità della ricostruzione post-bellica e della definizione del nuovo stato democratico post-fascista, in cui non c’era spazio per rivendicazioni femministe, ma, invitò i colleghi uomini a smettere galanterie e a valutare le consultrici “come l’espressione di quella metà del popolo italiano che ha pur qualcosa da dire, che ha combattuto, sofferto, resistito e vinto con armi talvolta diverse e talvolta simili alle vostre e che oggi lotta con voi per la democrazia” . Nel marzo 1946 la Consulta corresse il primo Decreto luogotenenziale del 30 gennaio 1945 che riconosceva il diritto attivo al voto ma non quello passivo. A seguito di manifestazioni che si erano susseguite dall’estate del 1944 “Noi Donne” promosse un referendum rispetto al diritto di voto alle donne. Durante il primo governo una delegazione del CNL l’8 ottobre 1944 presenta a Bonomi una mozione proposta dal Comitato unitario per il voto alle donne di cui facevano parte per la DC la Cingolani, per il PCI Rita Montagnana, per il PSI Giuliana Nenni , per il PLI Josette Lupinacci e per il P.d’Az. Bastianina Musu. La mozione rivendica “il diritto delle donne italiane di partecipare alle prossime elezioni amministrative su un piano di assoluta parità con gli uomini” Nadia Spano fece parte, come rappresentante del giornale “Noi Donne”della delegazione del Comitato pro-voto che, all’inizio del 1945, si fece nuovamente ricevere dal Presidente del Consiglio ricorda che ricevette da Bonomi la promessa che la questione sarebbe stata posta al primo consiglio dei ministri poiché De Gasperi e Togliatti erano d’accordo: “ il 30 gennaio mantenne la promessa e il voto passò. Non si accorsero però che non era passato il voto passivo e l’anno dopo, in fretta e furia, dovettero approvare un altro decreto per permettere alle donne non solo di votare ma anche di essere elette” Questa dimenticanza la dice lunga sulle resistenze maschili ma anche sulle disattenzioni o sulla troppa fiducia delle donne.
Verso il voto politico
Si arrivò così con il pieno diritto di voto riconosciuto alle donne al referendum del 2 giugno e contemporaneamente all’elezione dell’Assemblea Costituente. Le candidate e tutte le donne che parteciparono ad una appassionata campagna elettorale si preoccuparono innanzitutto di portare le donne italiane a votare ‘bene’, battere il voto monarchico e rafforzare il proprio partito. In una intervista Nadia Spano racconta come durante la campagna elettorale la principale preoccupazione era convincere le donne ad andare a votare, e a votare bene, per il partito giusto e per la Repubblica, senza rischiare errori nelle preferenze, che era più sicuro non dare per non rischiare di invalidare la scheda. Per lo stesso motivo il consiglio era di non darsi il rossetto per non macchiare involontariamente la scheda. Rimase così fuori dalle campagne elettorali e dalle riflessioni politiche“il progetto di definirsi come persona in modo autonomo, non funzionale, non complementare rispetto all’uomo” che avrebbe potuto aprire la via verso la politica, con una forte autonomia dai partiti, a tante altre donne che si accontentarono di esercitare il diritto attivo di voto e di concorrere nei luoghi organizzativi misti o separati, a rendere poi concreti i principi costituzionali. Non si preoccuparono molto di fare eleggere le poche donne presentate nelle liste. Forti di una diversità che coglievano e che attribuivano all’essere per la prima volta rappresentanti delle donne in quei luoghi, trovarono semplice identificarsi nelle donne elettrici e quindi lavorare in modo trasversale pur mantenendo un forte appartenenza ai loro partiti. In realtà erano donne autorevoli, rappresentanti di uomini e donne che le avevano votate perché portassero il loro entusiasmo e la loro generosità a definire i nuovi valori comuni che dovevano fondare il nuovo patto sociale.
Dal 2 giugno alla Costituente
Grande festa delle donne quella delle prime elezioni politiche dopo la Liberazione. Tutti i giornali riportano i titoli e le foto di questo evento storico: nelle code per accedere ai seggi le donne, con l’abito buono della domenica e spesso con i bambini, sono la maggioranza più visibile. Vota infatti l’89% delle aventi diritto.
Nella Costituente entrarono solo 21 donne su 226 candidate: circa il 3,5% dei 556 deputati. Le amministrative che si erano tenute tra marzo ed aprile in più di sei mila comuni avevano visto eleggere duemila consigliere comunali con un’affluenza alle urne molto alta tra le donne e Rita Montagnana, dopo la campagna elettorale appassionata e difficile anche perchè il PCI temeva un voto reazionario da parte delle donne, scrisse la sua soddisfazione su Noi donne: “Le donne sono accorse numerose alle urne, nelle città e nei villaggi ed hanno votato come noi prevedavamo.” Alcune costituenti, come la Montagnana, la Merlin e la Noce, avevano iniziato a far politica nel vecchio stato liberale e con il fascismo erano state costrette all’espatrio, altre come la Iotti, la Spano, la Bianchi, la Delli Castelli erano giovanissime, nate quando il fascismo stava ormai dilagando.
Nadia Gallico Spano racconta. ”A noi, costituenti, toccava il compito di stabilire principi, di dettare norme e articoli: alle spalle non avevamo nulla, dovevamo prevedere e costruire il futuro… In altri paesi esistevano delle costituzioni che la guerra aveva sospeso e interrotto; si trattava di ripristinarle, aggiornandole e migliorandole. In Italia era diverso.. Ed è con speranza ed emozione che noi varcammo la soglia di Montecitorio, ma anche con un forte senso di responsabilità nei confronti delle donne. Avevano votato per la prima volta e per la prima volta delle donne le rappresentavano… La Costituente fu dunque veramente uno spartiacque nella condizione femminile del nostro paese.”
Tre schieramenti
“Naturalmente, il prestigio dell’assemblea derivava soprattutto dalla sua composizione: vi si trovavano i più bei nomi dell’Italia prefascista, quelli dell’antifascismo militante e della Resistenza, esponenti elevati della cultura, della storia, del diritto, delle scienze; c’erano i giovanissimi che si aprivano allora alla vita politica e infine le donne, alcune con una dura esperienza di lotta contro la dittatura, altre più giovani, tutte decise a battersi per una nuova condizione femminile. In quel giugno del 1946, quando entrammo in ventuno all’Assemblea Costituente, ognuna con la carica ideale e politica del proprio partito, eravamo coscienti che, elette in gran parte dalle donne, dovevamo rimanere fedeli al mandato ricevuto,rappresentare tutte le donne, e batterci per i loro diritti, introducendo nella Costituzione quei principi ormai maturi, specialmente nelle donne della Resistenza, e altri ancora da affermare, giusti, ma non per questo accettati come tali da una parte dell’Assemblea.” La Spano prosegue spiegando che in particolare le destre sono contrarie alle donne mentre la sinistra è favorevole con qualche reticenza personale mentre la DC lo è ma “con prudenziali temperamenti”. A questi tre schieramenti se ne aggiunge un quarto, trasversale ai partiti, che all’inizio non è chiaramente percepibile dai costituenti. Si tratta delle donne elette che rivendicano diritto al lavoro e parità salariale ma, oltre ad affermare i diritti delle donne, pongono i principi generali della parità e dell’uguaglianza che saranno espressi chiaramente soprattutto nell’articolo tre, con la formulazione sull’uguaglianza formale nella prima parte e di quella sostanziale nella seconda. Federici, Iotti, Merlin e Noce fecero parte della Commissione dei 75 insieme a Gotelli che si aggiunse qualche mese dopo, nella prima e nella terza sottocommissione dove si occuparono della famiglia e della condizione della donna. Nessuna fu mandata nei partiti nella seconda e quindi il Titolo II, l’ Ordinamento dello Stato, fu disegnato solo da uomini. Quando l’incontrai quarant’anni dopo, in un seminario chiuso organizzato da Alessandra Bocchetti per la Commissione Nazionale Parità presieduta da Silvia Costa, le chiesi perché avessero accettato di essere escluse dal luogo dove si decideva la carta del potere del nuovo Stato. Piccata sul vivo Nadia mi disse: “eravamo solo maestrine e con noi c’erano i più insigni costituzionalisti, come Calamandrei ad esempio, non ci sentivamo in grado di competere su quel piano. Ci interessava di più occuparci dei valori della nuova Repubblica e lo facemmo con molta autorevolezza tutte insieme, al di là delle appartenenze, mentre gli uomini che ci ascoltavano con rispetto” Ricordo ancora l’emozione di quel confronto e la sua fierezza nel rispondermi. Era piccola di statura, con i capelli grigi raccolti nello chignon che portava anche mia nonna, un vestito scuro e quegli occhi brillanti che colpiscono chi rivede spezzoni di filmati dell’epoca in cui lei è spesso intervistata. Quando avevo partecipato al seminario organizzato da lei a Montecitorio sul quarantennale della Costituzione, io ero assolutamente ignorante e le parlamentari che là avevo ascoltato mi sembravano far parte di una storia politica perdente che noi, femministe degli anni settanta, ci eravamo illuse di cambiare radicalmente dal di fuori delle istituzioni. Allora la mia urgenza era di farmi capire da loro, senza distinguere più di tanto chi era stata costituente e chi no, di riportare nelle istituzioni le istanze e la passione del neofemminismo. Quando mi confrontai con la Spano avevo già alle spalle la mia prima legislatura, con le luci e le ombre, gli entusiasmi e le sofferenze che lo scontro con la politica maschile nelle istituzioni mi aveva causato. Avevo anche imparato qualcosa di più sulla storia della nostra Repubblica che prima non mi aveva minimamente coinvolta né nella mia giovinezza quando la mia passione era l’arte, né all’Università dove i principi filosofici e le grandi domande sul significato della vita, del mondo e della storia mi avevano assorbito, né negli anni settanta dove avevo vissuto l’esperienza di essere madre insieme. Ora che so l’importanza fondamentale di non perdere la memoria
di Laura Cima
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