Nelle culture in cui i nomi sono accuratamente scelti per i loro messaggi augurali o magici, conoscere il vero nome di una persona significa conoscere il modo di vita e gli attributi che caratterizzano l’anima di quella persona. E il motivo per cui il vero nome è tenuto spesso segreto è di proteggere colui che quel nome porta affinché possa avvantaggiarsi del potere del nome.
Le parole dunque possono tutto. Le parole hanno potere medianico. Così l’ho conosciuta, Pina Majone Mauro, attraverso il potere del nome, attraverso le parole di mia madre, sua compagna di liceo. Di lei mi diceva che scriveva versi ed io me la figuravo proprio così: forte, tenace, generosa, orgogliosa, com’è effettivamente e come siamo noi donne del Sud. Ma non basta. Dopo la morte di mia madre, nella libreria di casa, ho scoperto il suo primo volume di poesie, Spessori. Cosa c’è di meglio che entrare in contatto, prima con la poetessa e poi con la donna? Così le lettere, impazzite sulla lavagna della conoscenza e guidate dalla mia immaginazione, hanno disegnato velocemente il ritratto di una donna: era come se già l’avessi conosciuta.
Non lasciatevi sviare né dalla solitudine, una stravolta solitudine (“Io ti ringrazio/in questa strana notte d’essere sola), né dal silenzio, quel mio silenzio, più volte ripetuti nelle raccolte: Pina Majone muta in poesia la sua intoccata solitudine, vuole uscire dallo spazio angusto della Calabria, assonnata talvolta, far sentire la sua voce, comu-nicare, “guardare in faccia la gente”, capirla, vuole “FRATERNIZZARE”. La sua poesia canta ed esalta quel punto di contatto di due esseri che s’incontrano per un attimo, prima di riprendere ognuno la linea della propria vita, punto che metaforizzato diventa l’immagine della tangente.
Nella poesia di Pina Majone, molto spesso, le metafore rimandano alla geometria. Spesso si parla di obliquità come di qualcosa che non va nella giusta direzione e devia per un’altra “Oblique al sole voci” e “oblique omogeneità mi tornano”.
Sono presenti immagini di trasversalità intesa come precarietà: “Trasversale alla mia ipotesi/di dare un senso ai sogni/una corda tesa sbandiera la sua precarietà” e di perpendicolarità – “Strisce di luce nel vuoto/in perpendicolare all’infinito” ad indicare ciò che diretto, non soffuso, che colpisce l’oggetto e lo mette in luce in modo che lo si possa capire.
Dichiara la Poetessa, durante un’intervista: “La retta è il simbolo dell’infinito, non comincia da nessuna parte e non finisce da nessuna parte, la semiretta comincia da una parte, ma non finisce dall’altra, il segmento inizia e finisce: è la dimensione dell’uomo. I concetti di forza centripeta – il di fuori viene dentro di me – e centrifuga – quello di me che si proietta verso l’esterno e l’infinito sono molto presenti in me. Della matematica e della geometria ho amato tantissimo la trigonometria, che tratta di coni, seni, coseni e tangenti”.
Vorrei soffermarmi in particolare su questa metafora. La parola “tangente”, che deriva dal verbo latino tangere, significa “toccare”; in geometria indica una retta che ha un punto in comune con una linea curva. E’ la metafora dell’incontro.
Indicative, a mio avviso, sono la dedica: “A Carlo e Jenny…la stessa tangente/ci sfiorò del sole/e si accese di luci il mio esilio” e la poesia “Mi chiedo se almeno nei sogni…” (p. 31) dove “Nell’orbita isoscele della banalità”, “s’appiattiscono i pensieri/in mille direzioni senza senso”.
Nell’”ottusa angolazione”, poi, che è che il punto d’osservazione della vita, di postazione della lotta, “di soddisfatta stupidità/calato nell’altrui geometria/mi chiedo se almeno nei sogni/qualche volta ricordi/d’essere stato uomo”.
L’altrui geometria è la ricerca, nella vita degli altri, di fuga dall’insensatezza di un vivere che è condannato dalla Poetessa nella sua espressione di ottusità e stupidità. La geometria è il disegno, il grafico, su cui è programmata la vita.
Aggiunge la Poetessa: “Sono gli arrampicamenti, le cose che non capisco. La geometria propone teoremi che vanno dimostrati. Certe cose di acchito negli altri non le comprendo: il funambolismo, il voler proporre se stessi con mezzucci, con parole mezze dette e mezze non dette. Devo trovare i dati, proporre il teorema, sviluppare la tesi e dimostrarla, dandomi delle ragioni. Le incongruenze degli altri sembrano discorsi sem-plici e accettabili e invece nascondono un teorema che va dimostrato. Sono troppo razionale e devo rendermi conto delle cose fino in fondo. “Le geometrie” le chiamo anche “alchimie” e “funambolismi”. Voglio provare a me stessa che ho capito il teorema”.
Tutta la lirica di Pina Majone Mauro, e non solo quella di Spessori (basti pensare a Equazione, p. 13, della raccolta La mia Isla Negra per non fare che un illuminante esempio), ruota intorno a metafore attinte alla geometria. “E non era una materia che amavo a scuola”, confessa ancora sorridendo la Majone, “Forse è rimasto un amore non corrisposto, ho amato la matematica, ma la matematica non ha amato me”.
Ma non è questo il punto. Il punto è lo scopo dell’Arte e della poesia. Si fa arte per trovare l’ordine psichico, per questo s’indaga fino in fondo la poesia, in quanto opera di ricomposizione di se stessi.
Se è vero, come dice Pina Majone, che il Poeta è un vento caduto, un’anomala creatura, un diverso, condannato alla solitudine, è tramite la poesia che partecipa del mondo ed entra in contatto con gli altri, fraternizza, nel segnale di una speranza nascosta, ma presente. Pensiamo all’uso ripetuto dell’aggettivo verde e al richiamo continuo all’erba, “può crescere l’erba/anche sull’asfalto delle solitudini”, (Spessori, p. 43). Nel-la stessa lirica si può trovare il richiamo al colore verde e all’erba.
Anzi l’erba rappresenta una dimensione, quella dell’immaginazione, di un cielo ancora possibile. E non afferma, infatti, la Majone che “la tinse di verde/l’andirivieni dell’acqua” e non ci implora di raccoglierla se vediamo nell’erba i suoi “occhi/arrampicarsi sugli steli/convinti della magia/di conquistare il cielo/…”.
E noi siamo pronti a raccogliere il messaggio fortemente umano di questa grande poetessa con la quale possiamo affermare – come John Donne – che ogni morte di uo-mo ci diminuisce perché noi facciamo parte dell’umanità.
L’inviolata e stravolta solitudine della Poetessa si trasforma in poesia. Con toni alti essa esprime la partecipazione, l’empatia, il desiderio di continuare a lottare contro l’indifferenza, il disamore, il morire dei sogni.
L’importante è incrociarsi, sfiorarsi, sognare; essenziale è la geometria, sembra dire Pina Majone, perché il contrario sarebbe essere “forme improbabili”, sarebbe l’inaridirsi dell’erba.

Fausta Genziana Le Piane

(1) Spessori, Temesa editrice, 1987, rispettivamente: Intermezzo N° 1, p. 13; Risonanze, p. 34; Puoi dunque sotterrare p. 36; Evanescenza, p. 40; Non salire sui treni dell’esilio, p. 15; Una cosa non sai, p. 38; Spessori, p. 43; Un caso voluto, p. 62; La quarta luna, p. 33.

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