di Alina Rizzi
dall’Antologia “L’intimo delle donne” (Libreriamo publishing)
Quando fu sull’ambulanza, finalmente si sentì in pace. Per il momento, nessuno avrebbe fatto domande o avanzato richieste. Poteva chiudere gli occhi e restare immobile sulla stretta barella, con le mani allacciate in grembo come quelle di una salma pronta per l’ultimo saluto.
Lo scambio di battute tra paramedici e portantini le arrivava attutito. Ridevano, si aggiornavano sui programmi per la serata, ma lei poteva evitare commenti: nessuno se li aspettava.
Senza accorgersene iniziò a battere i denti.
“ Ha freddo, signora?” chiese l’uomo che le stava più vicino.
Gli altri ammutolirono, restando in attesa.
La donna tremava senza opporre resistenza, come fosse scollegata dal suo corpo.
Le sistemarono una pesante coperta sopra il foglio di alluminio in cui era avvolta. Alzarono il riscaldamento e si slacciarono i giubbotti.
Di tanto in tanto, uno di loro, le sollevava un braccio e contava i battiti del polso.
“ Siamo quasi arrivati” le diceva.
Lei apriva gli occhi, cercava di annuire, ma riusciva soltanto a piegare gli angoli della bocca senza sorridere. Galleggiando in un torpore medicinale, il suo corpo andava alla deriva, e con esso ansie, preoccupazioni e la sofferenza innominabile che l’aveva travolta nelle ultime ore. A quel punto anche le lacrime si erano prosciugate: ricordava di aver pianto molto ma non l’emozione con cui lo aveva fatto.
L’ambulanza si arrestò davanti all’ospedale.
Scaricarono la barella nel buio di una sera di febbraio e la spinsero attraverso il pronto soccorso in astanteria. Appena la donna avvertì la presenza di medici, infermieri, parenti altrui in attesa di notizie, serrò gli occhi con quel residuo di volontà che le era rimasto appiccicato addosso. Era un sollievo che nessuno le rivolgesse la parola dopo averla sistemata tra due tende tirate, oltre le quali bisbigliavano altri pazienti dell’ultima ora.
Desiderava addormentarsi, cedere al buio che aveva inseguito come una speranza. Invece qualcuno afferrò la barella e la sospinse in fretta nella sala medica, dove una grande luce tonda sparava dall’alto sul suo volto. Senza consultarla iniziarono i prelievi del sangue, l’elettrocardiogramma e la misurazione della pressione a intervalli regolari.
Aveva perso la nozione del tempo.
“ Mi sente, signora?”
Aprì gli occhi con fatica, senza rispondere.
Il medico aveva una cartella in mano e leggeva ad alta voce.
“ Venti capsule di Dalmadorm, quaranta compresse di EN da 1 grammo e dieci di Citalopram.”
La guardò in faccia.
“ E’ esatto?”
Lei annuì.
Si sentì i suoi occhi addosso: si trattava certamente di una silenziosa valutazione.
Forse di un giudizio senza appello. Poi l’uomo le prese una mano e gliela strinse. Fu a quel punto che qualcosa iniziò a tornare indietro verso di lei, col suo carico di inquietudine. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Strinse le labbra per non cedere. Non voleva assolutamente ricominciare a sentire, no e poi no.
“ Ora prepariamo la lavanda gastrica” disse il medico, cercando di essere rassicurante.
La vergogna la travolse come un’ondata mentre le emozioni tornavano con forza, accompagnate dal ricordo offuscato degli ultimi eventi. Il limbo in cui si era cullata per poche ore già si disfaceva, trascinandola di nuovo nella vita, suo malgrado.
Non c’era una ragione precisa, nessun fatto eclatante, che potesse giustificare quel dolore sordo e pulsante all’altezza del costato. La vita era quella di sempre, scandita da orari regolari, incombenze quotidiane, l’umana fatica di incastrare i doveri – molti – coi piaceri – rari -.
Un marito che usciva puntuale alle sette e trenta di ogni mattina per tornare dodici ore dopo.
Due figli in età scolare, maschio e femmina, che crescevano più in fretta di quanto avesse immaginato.
Aveva avuto un lavoro tempo addietro, che la teneva fuori casa poche ore per quattro mattine alla settimana. Niente di prestigioso: compilava moduli stampati in caratteri minuscoli per un’agenzia di assicurazioni. Con le due colleghe andava al bar per un caffè, intorno alle dieci del mattino e, in piedi al banco, si scambiavano aggiornamenti sulle vite private.
Poi era arrivata la crisi, quella con la C maiuscola. Aveva perso il posto di lavoro e dopo qualche mese anche le speranze di trovarne un altro.
Quei soldi le mancavano, perché erano suoi, utili per andare dal parrucchiere, a farsi la manicure o in libreria senza intaccare il conto in comune col marito. Non era cambiato granché nel suo tenore di vita, solo la possibilità di spendere senza dover annotare la motivazione.
Usò il tempo libero per dedicarsi con più partecipazione alla vita dei ragazzi, accompagnandoli agli allenamenti sportivi, al corso di danza, in chiesa e al cinema.
Rispolverò vecchie ricette accantonate: era così di moda mettersi ai fornelli.
Si iscrisse ad un corso pomeridiano di meditazione, una pratica che l’aveva sempre affascinata.
Insomma tentò di sfruttare i buoni consigli delle riviste femminili più vendute, sostenuti da esperti, lettere al direttore e testimonianze che si rimpallavano da un settimanale all’altro.
Ma non funzionava.
La maggior parte delle volte aveva la sensazione di essere estranea a se stessa, del tutto scollegata da ciò che faceva, intenta ad osservarsi mentre eseguiva quello che aveva programmato, piuttosto di dare spazio a ciò che desiderava.
Anche perché, gli unici desideri autentici che riconosceva, erano vecchi di anni, sepolti sotto una coltre di accadimenti imprevisti e progetti rimandati.
Viaggiare, per esempio, per collezionare luoghi del cuore da portare a casa dentro fotografie, cartoline, oggetti bizzarri.
O il mare in estate, e la luce e il calore che s’irradiavano per mesi, dopo, rendendo tollerabile il lungo inverno continentale.
Un vestito bianco aderente, a cui aveva rinunciato dopo aver preso quei chili che la rendevano più somigliante a sua madre di quanto avesse mai desiderato.
Poi andare al cinema la sera, invece di crollare in poltrona davanti alla tv, eseguendo piccoli lavori di cucito o altro, per sfruttare al meglio anche le ultime ore del giorno.
E non sentirsi così stanca, già alla mattina dopo aver aperto gli occhi, senza possibilità di ritrovare quelle energie che anni prima sembravano inesauribili.
Erano stati i figli a toglierle tempo e forza?
Sì, senza dubbio. Fare la madre è un lavoro per la maggior parte del tempo.
Aveva dedicato loro cure, attenzioni, giornate e notti intere. I loro bisogni erano sempre venuti prima, le responsabilità cresciute di anno in anno, le occasioni di fuga ridotte drasticamente. Suo marito, assorbito dal lavoro, non aveva commentato il suo cambio di taglia, non notava più una pettinatura diversa o un paio di scarpe nuove. Ma di questo non si stupiva: tutto rientrava nella consuetudine matrimoniale, erano effetti collaterali risaputi e diffusi. Perché aspettarsi altro?
Era stato il medico di famiglia a prescriverle il citalopram, giusto per ridarle un po’ di “tono”, aveva detto. Poi però aveva perso il lavoro e si era data da fare per cercarne un altro. Un po’ di ansia pareva contemplata e quindi anche le EN nella scatola bianca e gialla, per contenerla.
Dell’insonnia non disse nulla in famiglia. Il medico consigliò dell’attività fisica che lei era troppo abbattuta per affrontare. Fu più facile convincere un giovane farmacista a darle dei sonniferi di ultima generazione senza ricetta,
con la raccomandazione di non abusarne. I giovani sono così: hanno ancora fiducia nelle persone dall’aria dignitosa.
Comunque il suo sonno non era migliorato, anzi, si era affollato di incubi feroci e surreali, dai quali riemergeva prostrata come da fatti reali.
“Il solito mal di testa? “ chiedevano i figli alla mattina, rassegnati.
Lei annuiva cercando di minimizzare. Non poteva turbarli con la verità, meritavano una vita serena e una madre rassicurante, presente tanto quanto il padre era assorbito dal suo lavoro.
Ciò che meritava lei non se lo chiedeva mai, non era abbastanza importante e comunque non prioritario.
Quella domenica di febbraio marito e prole erano andati a una partita di calcetto: il maschio giocava, padre e sorella tifavano in tribuna.
Lei era rimasta a casa: odiava lo sport, che le concedessero almeno due ore di quieta solitudine.
Aveva in mente di leggere, riposare, farsi una tisana. E respirare. Invece, si trovò immobile in mezzo al soggiorno, a fissare gli oggetti che la circondavano senza quasi riconoscerli, come appartenessero ad una stagione lontanissima e ormai persa. Le si strinse lo stomaco: come poteva rimediare? Avvertì d’un tratto un grande silenzio. Avrebbe fatto bene a sfruttare l’occasione per fare qualcosa di gratificante, ma cosa? Dove erano finiti i suoi interessi e le sue passioni? Cosa le restava dopo il quotidiano lavoro di cura della casa, dei figli, del marito? Si sentì sola e vuota.
Era stata una donna, aveva sperimentato emozioni e desideri, aveva fatto progetti, ma poco era sopravvissuto di quel periodo. Ora conosceva bene i limiti entro cui era programmato e circoscritto il suo futuro. C’erano priorità fondamentali, pratiche ineludibili, pochi imprevisti.
Chi mai l’avrebbe più guardata con l’enfasi entusiasta di un innamorato?
Chi l’avrebbe baciata sulle labbra col fiato corto di desiderio?
Si sarebbe spogliata ancora, intimidita e sorpresa, per un uomo impaziente?
Le domande si rincorrevano sempre più numerose, invadendole la testa come una nebbia.
Stringeva i denti, tentando di resistere. Il respiro si era fatto frettoloso, riconosceva il panico e l’oppressione che invadeva ogni spazio vitale. La morsa nel petto era divenuta dolorosa, la tagliava in due. Mentre i pensieri si agglomeravano
in una massa scura e pulsante, il corpo s’irrigidiva. Doveva interrompere subito quella discesa sfrenata. Ingoiò un paio di ansiolitici e rimase in attesa, seduta sul bordo del divano. Aveva dolori nelle ossa, nelle articolazioni, nei denti.
Odiava la vita monotona e banale che conduceva. Non era così che si era immaginata soltanto dieci anni prima. Quella non era lei. Prese la scatola degli antidepressivi e ne mise in bocca qualche pastiglia. Le rimasero incastrate in gola. Si alzò, afferrò la bottiglia d’acqua dal tavolo e bevve un sorso, poi un altro. Mise in bocca altri ansiolitici perché era evidente che non stavano funzionando. Voleva riposare. Dormire sembrava l’unico modo per far cessare i pensieri.
Prese alcuni sonniferi. Doveva solo aspettare qualche minuto, avrebbero fatto effetto.
Nell’attesa si cullava avanti e indietro, muovendo il busto secondo un ritmo interno, un metronomo della sofferenza.
Il tempo rallentava.
Non avrebbe avuto la forza di affrontare le facce dei suoi famigliari, doveva prima riposare.
Prese altre pastiglie facendole sgusciare dall’involucro di plastica nella mano, senza contarle. Le mandò giù con l’acqua.
Quando sarebbero rientrati lei sarebbe stata addormentata. Voleva evitare spiegazioni. Rinunciava a discorsi di qualunque tipo. Non le importava niente di quello che si aspettavano da lei. Basta. Era stanca di sentire male, stanca di essere triste, delle lunghe veglie notturne, stanca di parole sempre uguali.
Da tempo nessuno la faceva ridere, forse per questo le si erano formate due rughe profonde ai lati della bocca: tutto il suo volto pareva sprofondare verso il basso.
Non sarebbe mai più stata bella. L’immagine di sé che conservava apparteneva al passato, ad un’altra vita.
Piangeva senza accorgersene, con lo sguardo perso nel vuoto, inseguendo il tumulto dei pensieri.
Le lacrime cadevano sulle mani strette in grembo che lei non asciugava.
Si muoveva soltanto per ingoiare altre pillole insieme all’acqua che le faceva scorrere giù nello stomaco più in fretta.
Ma non succedeva niente, non si addormentava.
Cosa doveva espiare ancora? Non c’era proprio verso di trovare pace?
Dalle sue labbra filtrava un gemito da animale ferito, un verso inarticolato e sconosciuto.
Si piegò in due sul divano, stringendo le ginocchia al petto, dove sentiva male, dove il respiro di spezzava.
“ Mamma” mormorò sotto voce, vincendo la nausea per ingoiare altri farmaci.
Le scatole vuote erano sul pavimento. La luce era calata nella stanza, già si allungavano le ombre del tramonto. Poi qualcosa iniziò finalmente ad allentarsi dentro il suo corpo e nella testa. Le immagini sfuggivano. Gli occhi rimanevano aperti e vuoti mentre nel volto immobile.
Con fatica cercò di alzarsi per raggiungere il telefono.
Scivolò sul tappeto.
Ora le gambe erano deboli, i movimenti incerti e pastosi.
Presto sarebbero rientrati i suoi figli e l’avrebbero trovata lì a terra.
Che ricordo avrebbe lasciato di sé nei loro cuori ancora piccoli e fragili?
Con uno sforzo si allungò verso il tavolo e afferrò il telefono.
Non ci vedeva bene ma riuscì a comporre il numero a memoria.
Il respiro ora si era fatto lento. Presto avrebbe dormito.
“Sono io, mamma” disse, quando dall’altra parte rispose una allegra voce di donna.
Non sapeva cosa aggiungere, non riusciva a mettere insieme le parole, sentiva le palpebre pesanti.
“Sto male” biascicò.
Sentì gridare, sentì che sua madre chiamava il padre, che gli diceva di prendere l’altro telefono e chiamare il 118. E intanto ripeteva domande concitate, le raccomandava di stare sveglia, di mettersi due dita in gola per vomitare.
Lei non riusciva a rispondere, non ne aveva neppure voglia. Niente sembrava più molto importante, se non affidare i figli all’unica persona di cui poteva fidarsi, immaginandoli al sicuro.
“Prenditi i bambini, mi dispiace” disse.
Si abbandonò a terra. Senza più ansie, senza più dolori.
Il tumulto che aveva vissuto si era placato finalmente. Era la quiete dopo la tempesta.
Non si muoveva, stava bene così.
Notò le pantofole rosa abbandonate in un angolo. Pensò che erano ridicole, provò vergogna, ma solo per un attimo. Tutto scivolava via ormai. Aveva finito di angosciarsi. Era davvero stanca.
Precipitò dentro l’efficienza della sala medica del pronto soccorso sbattendo gli occhi come un animale notturno sorpreso in mezzo alla strada di notte, accecato dai fari di un’automobile in corsa. Il tempo, oggettivo e implacabile,
riprese a scorrere. Le settanta pastiglie ingoiate le furono cavate fuori con la forza.
“ Tra poco potrà rivedere la sua famiglia” sussurrò un’infermiera dallo sguardo buono, aiutandola a distendersi sui cuscini.
Lei voltò la testa, consapevole che non era così semplice sfuggire al proprio destino.
Poi chiuse gli occhi, rassegnata.
Alina Rizzi
Costruzioni Variabili
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