STONING IN (ON) THE WORLD
di Anna Rossi
dal Blog di Wanda Montanelli
Dai casi che hanno fatto scalpore, come quelli di Safya Husseini e Amina Lawal in Nigeria fino alla condanna alla lapidazione di Sakineh Mohammadi Ashtiani in Iran, il percorso che riconduce “la pena antica” alla “pena nuova” non si è mai interrotto.
Nelle pietrose contrade mediorientali la lapidazione costituisce una forma di linciaggio ed esecuzione sommaria di origini antiche.
La Bibbia riferisce vari episodi di cui si ricorda, più comunemente, quello di Santo Stefano, lapidato per blasfemia, e la contestazione di Gesù, contro il diritto di chiunque ad eseguire una simile pena, a favore dell’adultera “Chi di Voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei” – Giovanni 8:7-11 -. La lapidazione è di derivazione giudaica e ne troviamo traccia, per esempio, in Deuteronomio 22,23-25 o nei Cor. 24,4.
Dalla terra sassosa di Palestina, dove la rabbia popolare si esprimeva attraverso il linciaggio e la lapidazione, alla presunta introduzione di questa barbarie nei califfati medinesi, successivi al Profeta Maometto da parte del califfo Umar (6m.644), testo di riferimento / Hadith, volume 8, Libro 82, numero 810), la lapidazione risulta essere non un rimasuglio del passato ma una pena in espansione diffusa dagli integralisti.
In Iran, l’articolo 83 del codice Penale, chiamato legge dello Hodoud, prevede la pena di 100 frustate per coloro che, non essendo sposati, praticano sesso fuori dal matrimonio; per gli adulteri è prevista la pena per lapidazione.
Se l’Iran ha reintrodotto la lapidazione nel 1983, a seguito della Rivoluzione Islamica sciita, all’estremo nord dell’isola di Sumatra, il Parlamento di Aceh ha approvato nel 2009 le nuove norme “a interpretazione” della legge islamica, che prevedono la morte per lapidazione per chi tradisce il marito o la moglie.
In Arabia Saudita, dove non esiste un vero e proprio codice penale né un sistema giudiziario regolamentato, la situazione in concreto non è dissimile dal contesto tribale in cui i processi sono condotti in paesi come l’Afghanistan, lo Yemen, il Bangladesh, il Pakistan, la Somalia, il Sudan.
I processi sono segreti, gli imputati non hanno diritto ad un avvocato né vengono informati della condanna alla quale non vi è possibilità di appello. In Arabia Saudita il Consiglio Giudiziario Supremo, i cui membri vengono nominati dal Re, “riesamina” i casi capitali ed è ritenuto responsabile dell’applicazione della shari’a.
In Somalia, a causa della guerra civile, le strutture giudiziarie sono collassate fin dal 2000 e spesso i tribunali islamici, sorti a livello locale, sono fuori controllo statale e applicano pene come il taglio delle mani o dei piedi e anche la lapidazione.
Idem per il Sudan dove la rete dei tribunali islamici , creata dal fondamentalista sudanese Hassan el Turabi, sfugge al controllo del governo centrale e sentenzia in piena indipendenza.
Piccoli cenni questi che offrono un quadro chiaro che tradisce l’impossibilità di avere notizie dei casi di lapidazione che accadono in zone remote e lontane dalle grandi città.
Affinché il caso iraniano di Sakineh Mohammadi Ashtiani non sia strumentalizzato per fini di carattere politico, con oscuri rovesci di interessi internazionali che vanno oltre la condanna dell’Iran per l’applicazione della lapidazione (tortura e pena di morte), ho voluto ricordare il corollario di paesi, nel mondo islamico, che nell’assenza di informazione più assoluta affiancano questa realtà.
L’occidente è servito solo in minima parte dalla verità necessaria a capire quel che davvero muove le notizie. Le giuste campagne di sdegno internazionale verso la lapidazione lasciano spesso sul campo un nemico scomodo e non i colpevoli tutti.
Ci sono però musulmani che sostengono che il Corano condanni apertamente la lapidazione e che la stessa non sia affatto una pena islamica. A tal proposito va ricordato un ex membro del Consiglio supremo della Magistratura in Iran, l’Ayatollah Dr. Seyed Mohammad Bojnourdi, il quale, intervistato, ha affermato che punizioni così crudeli danno un’immagine distorta dell’Islam (cosa che di fatto avviene) tanto da indebolirlo e da creare un effetto di riluttanza soprattutto fra i giovani.
Credo che il punto chiave della situazione sia la violazione dei diritti umani. Sia la tortura che la pena di morte, applicate nella lapidazione, non possono ridursi ad un caso o ad una questione nazionale (ricordo anche che la maggior parte delle lapidazioni è subita da donne) ma vanno ricondotte al perenne controllo di qualsiasi tipo di libertà e nel caso delle donne a qualsiasi tipo di emancipazione delle donne stesse.
Parlare dei diritti delle donne nel mondo è la storia più lunga dell’umanità.
La donna non ha diritti sia come madre che come sposa in moltissimi paesi e le conquiste occidentali appaiono quasi un miracolo, nonostante i problemi di discriminazione che tutti conosciamo anche in occidente.
La vessazione continua, infatti, che il corpo femminile subisce attraverso la propaganda pubblicitaria “liberata” è spesso oggetto di contestazione e nel contempo non offre quell’immagine appunto “liberata” della donna soggetto dell’evoluzione umana.
Il male di tutti i mali resta “lo stupro”, il signore indisturbato dei crimini contro l’umanità. L’elenco impressionante di donne stuprate, che l’era moderna veste anche di un abito bellico dalla sostanza antica e brutale comune solo all’uomo, esprime la radice malvagia di un’insana relazione tra i generi.
Le pietre che uccidono sono espresse dunque anche dai sassi avvolti nelle mani di chiunque non ha il coraggio di lasciarle cadere in terra e riconciliarsi con l’umanità. Altre pietre uccidono con la stessa forza anche se non figurata colpendo la bellezza dell’infanzia e marcando lividamente l’anima di dolore e sofferenza.
Dalla violenza sessuale alla lapidazione la strada a ritroso conduce dritti nella caverna. L’uomo della caverna sperimenta, non conosce, ha sentore del pericolo e colpisce per primo come può. L’uomo della caverna è la sintesi dell’incapacità a cogliere il messaggio di vita oltre la mera sopravvivenza fisica. Secoli di storia, intrisi di bellezza e malvagità, non hanno ancora permesso al destino umano di fare la differenza e di riappacificarsi con l’universo.
“Essere donna oggi è più pericoloso che essere soldato, in guerra come in pace” A pronunciare queste parole è il generale Patrick Cammaert, ex capo delle forze di peacekeeping dell’ONU, intendendo così lo stupro come strumento militarmente efficace, una sorta di arma bellica in grado di determinare tanti conflitti.
Gli antichi e i nuovi drammi della storia umana devono essere sdoganati alla consapevolezza. Occorre lavorare ad un modello di “uomo nuovo”, un essere umano compassionevole e capace, un essere dal battito pulsante verso il vero e la gioia, un essere che si innalza al di sopra di tutto perché in grado di riconoscere le radici del suo male oscuro che lo rendono spesso peggiore di una qualsiasi bestia.
La protesta globale contro l’abuso, la tortura e la pena di morte rappresenta il seme della riconciliazione con l’alito vitale.
Le donne possono cambiare il corso della storia dell’umanità. I loro ventri generosi cullano la vita che verrà e che darà loro la forza di resistere all’ostinazione mortale di chi teme, più che mai, il confronto e il futuro.
Come un Satana che aumenta la dose di malvagità davanti alla bellezza del bene così una parte di umanità scimmiotta il satanico sistema in difesa del potere.
La verità è che sia l’uno che gli altri sono molto preoccupati. Hanno guardato nel futuro, hanno cercato accuratamente in “quel futuro”, ma di loro nessuna traccia.
La natura elimina ciò che non serve e rafforza chi la sostiene.
All’alba del nuovo mondo il “nuovo uomo” smetterà di soffrire e di far soffrire.
Io ci credo e voi?
Anna Rossi
Responsabile Relazioni Esterne Onerpo
Docente di Business English – Facoltà di Scienze Sociali- Roma
Li, 06 settembre 2010
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