Recensione
Il saggio di Leonardo Rossi, che propone un’originale lettura delle Benevole di Jonathan Littell, rappresenta anche l’occasione per l’avvio di un’ampia riflessione sulla letteratura che travalica il tema specifico, e che di certo troverà sviluppo altrove. La densità della trattazione, la profondità e l’accuratezza dell’analisi, l’estensione e la qualità delle conoscenze messe in campo dall’autore si accompagnano a una rara capacità di trascinamento del linguaggio, che non lascia indietro nessuno, neppure il lettore meno avvezzo alla critica letteraria e meno provvisto dell’armamentario concettuale specifico degli addetti ai lavori.
Il titolo offre subito una stimolante provocazione: “Dalla parte di Aue”. Che significa? Stiamo forse per leggere un’appassionata difesa del protagonista, reo di tante atrocità? Forse è il caso di ricordare il tema del romanzo pubblicato nel 2006: esso narra in prima persona i crimini efferati di cui l’ex SS Maximilien Aue si era reso protagonista o a cui aveva assistito con sordida complicità o gelido distacco nel corso della Seconda guerra mondiale. Stiamo per ascoltare quindi l’accoglimento della sua morale deformante? Niente affatto. La lettura di Rossi resta disincantata e integra. E tuttavia egli ha scelto quel titolo per il suo saggio. Forse sarebbe stato meno ambiguo un richleriano “La versione di Aue”? No, perché lo stesso romanzo di Littell già costituisce la versione di Aue. Il titolo del saggio si riferisce evidentemente al tentativo -riuscito- di esplicitare le strategie di seduzione che il protagonista mette in atto nei confronti del lettore/confidente/giudice. Come spiega l’autore, c’è in quel titolo l’idea di un coinvolgimento del lettore, condotto passo dopo passo nell’inferno di Aue, che forse è psicologico prima ancora che fattuale. Rossi cita esempi illustri di personaggi spietati e perversi in letteratura e nell’arte che risultano irresistibili perché visti attraverso gli occhi dell’autore che li partorisce e li ama; del resto «il personaggio è pur sempre emanazione dell’autore» e «come un figlio finisce nel tempo con l’assomigliare al padre». Tuttavia «sarebbe un errore grossolano confondere autore e personaggio»: proprio quello che Rossi non fa e anzi mette in guardia il lettore da facili e fallaci associazioni, e da accuse improbabili come quelle di revisionismo e di complicità che alcuni hanno mosso a Littell, neppure troppo larvatamente. Purtuttavia certe tangenze sono innegabili: impegno intellettuale, passioni, percorso formativo sembrano accomunare personaggio e autore. Aue, privo di un fermo nucleo identitario, è tutto e il contrario di tutto, è come il chiarore scialbo e intermittente di un’immagine nel riflesso di uno specchio. Taluni credono di vedere davanti a quello specchio lo stesso Littell: del resto il tema del doppio/gemello percorre tutta la narrazione. E capita talora che diventi doppio-rivale, «segretamente gemello, denigrato proprio perché se ne percepiscono i punti di similarità». Giuseppe Pontiggia scrive che «possiamo sopportare i nostri errori, ma non se li vediamo replicati negli altri». E se questi “altri” si chiamano Eichmann, Blobel, Korherr, Turek, sarebbe comprensibile tentare di neutralizzarli relegandoli nella “casella dell’inumano” e portando in salvo se stessi. Aue ci prova con un plateale autoinganno. Salvo però sostenere, in Minuetto, che «il disumano, scusate, non esiste. C’è solo l’umano e poi ancora l’umano». Se l’inumano non esiste, non è possibile collocarvi nessuno. La sua tesi è che orrori e crudeltà appartengano integralmente alla categoria dell’umano e che quindi anche le azioni e gli attori più spregevoli possano trovare una giustificazione e sperare in una riabilitazione. Nell’evocare forse consapevolmente Terenzio (Homo sum, humani nihil a me alienum puto), nell’ennesimo odioso tentativo di smarcarsi dalle proprie colpe chiamando in correità tutti gli altri, Aue sembra voler spezzare, anticipatamente e per convenienza, quella “casella dell’inumano” che, insieme a “rondò del pensiero” e a “perversione del logos”, rappresenta una delle chiavi interpretative che Rossi rintraccia e ci porge per una lettura più consapevole delle Benevole. Queste tre figure, quasi “tipi ideali” weberiani, consentono procedimenti di astrazione che, all’interno del magmatico flusso narrativo littelliano, forniscono dei modelli caratteristici, quadri interpretativi all’interno dei quali si sistemano agevolmente i fondamentali elementi contenutistici e formali del romanzo.
Le Benevole è un romanzo ponderoso, di più di novecento pagine. Risuona nella mente il monito insolente e iperbolico di Manganelli: «Un romanzo è quaranta righe più due metri cubi di aria». Anche quello di Littell può risultare a tratti pneumatico, specie in certi snocciolamenti di cifre e dati. Eppure Rossi lo difende appassionatamente, anche nelle sue parti più faticose e impervie, come Minuetto (in rondò), in cui, tra l’altro, Aue affianca Eichmann e si confronta con lui sui problemi logistici dello sterminio degli ebrei. Lì si coglie effettivamente un vuoto, che tuttavia ha la funzione di far comprendere la circolarità senza via d’uscita del pensiero di Aue, l’ottusa inerzia dei suoi ragionamenti, che, avvitandosi su se stessi, riportano sempre al punto di partenza: ecco il “rondò del pensiero”. Quello sterile minuetto diventa alibi per la codarda passività e per la paralisi etica del protagonista.
Rossi ci fa notare che il lettore delle Benevole è continuamente e abilmente distratto, depistato dai repentini cambiamenti di argomento e dai sofismi di Aue. I discorsi autoassolutori del protagonista si basano spesso su falsi sillogismi e su dolosi smottamenti lessicali e semantici che Rossi chiama “perversione del logos”.
Aue è un po’ quello che Debenedetti aveva detto di Mattia Pascal, un “personaggio in disponibilità”, un antieroe alienato da se stesso, pronto a mettersi al servizio di fini altrui. In Aue non c’è purtroppo alcuna idea universale per cui consumarsi, e il tentativo di riversare sul caso cieco e primordiale la responsabilità delle proprie scelte e non scelte è inutile e ipocrita. Forse addirittura Aue, quasi fosse un hegeliano eroe della storia, s’illude di realizzare i fini di un’astuzia della ragione di cui si sente strumento inconsapevole e quindi incolpevole: prospettiva certo confortante e liberatoria quanto menzognera.
Aue irretisce il lettore attraverso una cultura solida ed esibita e attraverso un’intelligenza intrigante e manipolatoria, alla ricerca di un’empatia da alienati. E quanto più il lettore è ingenuo e inesperto, tanto più per Aue è facile catturare la sua complicità (su questo punto dissentiamo da Azar Nafisi, citata da Rossi). In più, la sua critica alla televisione e alle chiacchiere sterili recluta automaticamente il lettore tra i feroci avversari dell’heideggeriana esistenza inautentica, e favorisce la sua autopromozione sul piano ideale della fiera opposizione alla vita borghese. Il disprezzo della borghesia, poi, è un luogo comune nato con la cultura romantica: il borghese è miope, avido, limitato, ottusamente operoso, al contrario del genio, che è distinto, raffinato, eccentrico, interessato solo alla poesia e all’arte…
Rossi osserva come, nelle Benevole, «personaggi, frasi, affermazioni che in realtà sono cruciali nella comprensione dell’opera» si trovino riposti in un «luogo appartato», e siano buttati lì come per caso, esattamente come nel sogno, secondo la nota analisi freudiana, l’accento slitta dall’elemento principale ad altri secondari per far apparire il primo inessenziale. Il sogno sembra assumere un’importanza fondamentale nell’opera di Littell. A volte si ha l’impressione che si vogliano confondere i piani del sogno e della realtà, e che il più autentico risulti proprio quello onirico.
Talvolta Aue mostra di patire una sorta di “disforia di classe”: mescolato alla «gente rozza» (i suoi commilitoni delle SS, la sua padrona di casa), o alla «gente che si sfogava, si divertiva, godeva della propria forza» (nella piscina dove conoscerà Hélène), quell’uomo dall’«aria di un intellettuale un po’ complicato» soffre il senso di una non appartenenza. Che pare confermata dal suo aristocratico nominalismo: «Si crede ancora alle idee, ai concetti […] forse non esistono idee, forse solo le parole esistono davvero». E con Gorgia intuiamo che esistono in noi radicalmente distinte dalle cose che vorrebbero esprimere. Già nel risvolto di copertina del saggio di Rossi si legge che la parola è «la vera protagonista» del libro, «con il suo potere misterioso e terribile». Rossi cita Omero e Dante come esempi di parola portatrice a un tempo di verità e menzogna, in quanto connotata da ineliminabile duplicità. Ancor prima di Dante, si potrebbe appunto nominare Gorgia, sofista siceliota, in cui addirittura si smarrisce ogni criterio di verità e l’unica cosa che conta rimane la potenza del linguaggio e la sua forza persuasiva. La parola che “persuade” e “illude” svela i suoi sottili poteri, di cui lo stesso Aue è pronto ad approfittare (emblematica, al riguardo, è la strategia di seduzione di Partenau). Così egli spera di trascinare il lettore in una dimensione di relativismo morale in cui, non esistendo una verità e un modello di comportamento assoluti, tutto dipende solo dalla prospettiva di chi giudica. Su questa stessa questione viene convocato, per antitesi logica e per contesto storico, Primo Levi. Egli difende l’assolutezza di certe categorie: esiste e persiste una differenza ontologica tra bene e male, tra verità e menzogna, tra vittime e carnefici. Aue invece sostiene la storicità e la relatività del bene e del male come categorie etiche e giuridiche. Il confronto tra i due è e resta insostenibile.
Rossi si avvale, nell’analisi delle Benevole, del raffronto con numerosi testi letterari universalmente noti, che incastona sapientemente nella struttura del saggio come Aristotele gli astri purissimi nelle sfere celesti. Con acume analitico mai disgiunto da passione, l’autore mostra le innegabili filiazioni, i suggestivi rimandi, i vistosi omaggi che attestano la continuità del romanzo di Littell con la grande cultura occidentale. Ad esempio, con i capolavori di Grossman e di Lermontov, ma anche di Chrétien de Troyes, di Boiardo, di Ariosto, di Flaubert, di Dostoevskij, di Joseph Roth, di Malaparte, di Beckett. In particolare con questi ultimi due, Rossi ha fatto da apripista, da perspicace pioniere nelle terre inesplorate delle più audaci connessioni culturali. In Malaparte, infatti, riconosce «uno dei punti di riferimento più forti delle Benevole», mentre collega la maschera dei personaggi beckettiani alla maschera di Aue, individuo senza identità, fantoccio, Papiersoldat.
Ciò che più colpisce nel romanzo di Littell, che Rossi opportunamente rileva e ribadisce, è il reiterato e smaccato tentativo di sovvertire la realtà dei fatti e d’inquinare l’onesta ovvietà della loro interpretazione. In più occasioni Aue cerca di confondere vittime e carnefici, di annullare le differenze, di equiparare le parti. Certe manipolazioni sporcano talvolta anche la storiografia, dando forza e slancio a ben noti intenti revisionistici e rivalutativi. Il saggio di Rossi rintuzza le intenzioni di Aue disinnescando l’ordigno retorico e mistificatorio.
È implicita nel testo di Rossi anche una riflessione su memoria e storia. La storia, che è collettiva e nutre ambizioni di totalità e oggettività, fornisce alla memoria, sempre individuale, parziale, soggettiva, un quadro interpretativo d’insieme in cui collocarsi.
Il saggio di Rossi, nell’offrire una chiave di lettura irrinunciabile per un testo importante e difficile come quello di Littell, si rivela uno strumento prezioso di conoscenza. Il suo contributo alla riflessione sulla parola che seduce, persuade, convince, affascina è decisivo, ma nel saggio troviamo ben altro. Sperimentiamo la potenza della parola esperta, competente, cioè la sua, che, mentre suscita riflessioni significative anche in persone non specialiste di critica letteraria, garantisce a tutti intenso e proficuo intrattenimento.
Cristiana Bullita
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