di Francesca Santucci
O tempora, o mores!
O tempi, o costumi!
(Cicerone)
Zio Francesco da ragazzo amava cantare, ma soldi in casa ne giravano pochi e fu per questo che, quando manifestò la vena belcantistica, fu avviato, sì, agli studi privati ma, appena poi il maestro prospettò la vaga ipotesi che, crescendo, con lo “sviluppo”, avrebbe potuto perdere la bella voce che aveva, suo padre, uomo saggio e concreto, pensando pure che, di certo, suo figlio non sarebbe mai diventato un secondo Enrico Caruso (che in gioventù aveva lavorato come meccanico proprio nell’Arenaccia), non aveva esitato a ritirarlo dagli studi sentenziando: “so’ sorde jettati”!
E così smise le lezioni, ma in cuore gli restò sempre la passione per il canto e per la lirica, e per esibirsi si accontentava del balcone di casa sua.
Ed era nei pomeriggi d’estate, quando l’intera città si svuotava per l’afa perché tutti andavano a cercare refrigerio al mare, che si sporgeva dalla finestra, che dava sul cortile del casermone popolare in cui abitava, per prodursi, quasi sottovoce, senza spettatori importuni, se non qualche sparuto gruppo di piccioni sulle grondaie e qualche solitario gatto randagio disteso nella penombra a sonnecchiare, nella celebre aria pucciniana di Cavaradossi:
“E lucevan le stelle ed olezzava la terra, stridea l’uscio nell’orto, e un passo sfiorava la rena. Entrava, ella, fragrante, mi cadea tra le braccia… Oh dolci baci, o languide carezze, mentr’io fremente le belle forme disciogliea dai veli. Svanì per sempre il sogno mio d’amore… L’ora è fuggita e muoio disperato e non ho amato mai tanto la vita…”
Caterina l’ascoltava rapita cantare l’aria della “Tosca” e, in fantasie di bambina, pensava che era lui Cavaradossi, alto, aitante, con i capelli castani ravviati all’indietro in un codino che gli sfiorava la candida camicia sblusata aperta sul petto, pronto a ricevere di lì a poco la fucilata mortale, i luminosi occhi celesti che lanciavano un ultimo sguardo al cielo luminoso contro il quale avrebbe per sempre chiuso i begli occhi…
Poi suo zio partì, andò a cercare fortuna in America…
*
Francesco Quagliarella, detto Frank, ritornava al paese natio dopo vent’anni.
Era stato a Bruclìn, come dicono a Napoli, per cercare fortuna, ma non si può dire che l’avesse propriamente trovata.
Abbandonato il canto, si era arruolato nella polizia del posto ed aveva sempre svolto il suo dovere egregiamente, così egregiamente che addirittura era stato mandato in pensione in anticipo.
Integratosi perfettamente nel ruolo di difensore della legge, si era impegnato a svolgere sempre con coscienza il suo mestiere e, allorché si era accorto che nel corpo di polizia c’era più corruzione di quanta ne avesse mai potuto immaginare, si era detto: “Ma perché gli Italiani, i meridionali in particolare, devono passare per fetentoni quando invece nel paese considerato più civile del mondo la corruzione è ancora maggiore?
Ed allora, quasi come spinto da un desiderio di vendetta, aveva cominciato ad adoprarsi, tra mille difficoltà, perché nella città americana fosse fatta pulizia e perché in assoluto trionfasse il valore della giustizia.
E così si era messo a denunciare tutti i corrotti che incontrava sul suo cammino, a partire dai suoi stessi colleghi, semplici poliziotti come lui ma ammanigliati molto in alto, sostenuti dai vertici delle autorità a loro volta conniventi con la mafia locale ed internazionale.
Prima con le buone e poi con le cattive, con amichevoli consigli dati quasi per caso dai compagni di lavoro, con le intimidazioni ricevute dai mandanti mafiosi, con le promesse di facili promozioni (sempre sdegnosamente rifiutate) provenutegli dalle più alte autorità della polizia, con una serie di trasferimenti nelle sedi più distaccate della città, con numerose medaglie prontamente conferitegli per il coraggio e il valore dimostrato, con il miraggio di una bella carriera che lo avrebbe condotto alle cariche più importanti (se, ben inteso, avesse smesso di pestare i piedi a…),infine con un vero e proprio attentato che aveva seriamente messo in pericolo la sua vita, era stato costretto ad andarsene in pensione.
E così, dopo quasi quarant’anni, il nostro eroe ritornava a casa, nella città natale che aveva sempre avuto nel cuore e della quale non aveva mai smesso di seguire le vicende: Napoli.
La sua fama, però, anche per merito dei giornali locali ed esteri che ne avevano messo in risalto il valore, lo aveva preceduto, sicché era atteso non solo dalla famiglia, ma da tutta l’Italia.
Arrivò all’aeroporto di Fiumicino in pomeriggio inoltrato e, con l’aiuto dei poliziotti, riuscì abilmente a schivare l’ inevitabile ressa di giornalisti e fotografi che l’attendevano al varco, e a raggiungere la stazione. Voleva correre a Napoli, dalla sua famiglia, poi, certo si sarebbe concesso anche alla stampa, ma dopo, non adesso.
Come chi torna dalla guerra ne aveva di cose da raccontare, e le avrebbe raccontate tutte. Guai a chi gli avesse parlato male dell’Italia, del sud, di Napoli, guai a chi gli avesse detto che nel suo paese non si viveva bene, c’erano i disservizi, si rubava…una volta, forse, ora no, ora tutto era cambiato, c’era democrazia, lavoro per tutti, il reddito pro capite era elevato e il denaro circolava, circolava, e tutto funzionava perfettamente…
Appena entrato nello scompartimento la sua attenzione fu catturata da una vecchia cartina geografica dell’Italia incorniciata in un legno scuro usurato dal tempo; con un dito sfiorò le località di confine tra il Lazio e la Campania, seguì il percorso del semicircolare golfo di Napoli, penetrò nell’entroterra, allargò verso la zona vesuviana, ed infine, in un abbraccio ideale, approdò al magico cerchietto nero che segnava il nome della sua città.
Pensò:
– Napoli, sto arrivando!-
Nel treno semivuoto che lo riportava a casa Frank si sentiva rilassato come non gli succedeva da anni; si lisciò la barba che si era lasciata crescere lunga ed incolta, poi i capelli che gli scendevano fin sulle spalle e tra i quali spuntavano numerosi fili bianchi, guardò il suo volto riflesso nel finestrino del treno e promise a se stesso che, appena arrivato a casa, esauriti i saluti commossi e le prime confidenze, asciugate le inevitabili lacrime che da più parte sarebbero state versate, dopo aver cenato un tipico pasto lauto ed abbondante, innaffiato da un buon vinello locale, la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata proprio quella di levare via tutta quella peluria che, ostinatamente, aveva lasciato crescere per segno di protesta contro una società ipocrita e corrotta come quella americana.
Aveva voluto assomigliare ad un vagabondo, ad uno senza patria né casa, perché aveva creduto che l’America, il paese civile per eccellenza, sarebbe stata la sua nuova patria e la sua nuova casa, e si era adoprato perché entrambe fossero pulite, ed invece era stato costretto a ritirarsi.
Una brusca frenata del treno lo riscosse dai suoi pensieri e dal risentimento che ancora covava dentro di sé. Si sporse dal finestrino e vide i macchinisti scendere, poi li sentì informare i pochi passeggeri che c’era un improvviso guasto al locomotore; bisognava attendere per le riparazioni, almeno un paio d’ore; se intanto qualcuno voleva scendere per sgranchirsi un po’ le gambe…
Nel silenzio della sera incombente, turbato solo dai cri-cri dei grilli solitari e dal gracidare delle
rane negli acquitrini, Frank pensò che sarebbe stato piacevole fare due passi, ma prima doveva telefonare ai suoi per tranquillizzarli del ritardo.
Cercò la valigia per prendere il cellulare… la valigia… non trovò la valigia… mentre realizzava cos’era successo, intanto che dormiva, poco prima, sorprese lo sguardo divertito del bigliettaio che aveva osservato il suo armeggiare, che, continuando a trafficare con i biglietti, così rilevò:
– V’hanno arrubbato ‘a valigia? Capita. E’ normale. Sporgete denuncia, ma tanto… Chisto v’ho fanno sotto all’uocchie!-
Frank sospirò e discese. Si diresse al telefono della stazione: non c’era la linea. Cercò una cabina all’esterno della stazione, la trovò, ma sul telefono pendeva un cartello con la scritta: ”fuori servizio”. Ne scoprì un’altra: qui addirittura mancava il ricevitore.
Con lo sguardo cercò un bar nei dintorni, ma scoprì solo un lungo viottolo deserto che si snodava grigio contro il tramonto infuocato nell’entroterra napoletano.
Schermando gli occhi con la mano guardò ancora e gli parve di scorgere, là, in fondo, una cascina semidiroccata ed una figura umana, forse un contadino… aveva tempo, poteva raggiungerlo e chiedere a lui di fargli fare una telefonata …Esitò solo un istante, poi s’incamminò in quella direzione.
-Buona sera, paisà. My name Frank Quagliarella, policemen, songo neapolitano, io eroe…prima cantante…retorno a Napoli. ‘O treno s’essere guastato. My mother, mammema, stacere in pensiero. Io telefonare. Tu avere thelephone? Io telefonare a casa.
-Ma tu cche lengua parli?…Io te capisco e nun te capisco.– rispose il villico.
Frank aveva passato troppi anni in America e, come tutti gli italiani all’estero, si era un po’
disabituato all’idioma d’origine, sicché trovava qualche difficoltà a comunicare correttamente, però, alla fine, riuscì a far capire all’uomo che, tra l’altro, non è che si esprimesse meglio di lui, che cercava un telefono.
Telefonate dint’ ‘a cabbina d’ ‘a stazione.- gli consigliò il contadino.
– Essere rotta.-
– Ce sta chell’ata cabbina.- suggerì ancora.
-Non ci essere bar qua attorno?- domandò ansioso l’uomo.
-S’adda ire dint’o paese… ma è luntano… Telefonate cu’ ‘o cellulare…-
– Ma io non tenere più cellulare. M’avere arrubbata a valigia.- rispose avvilito l’altro.
Ed allora il contadino, rozzo, incolto e analfabeta, che viveva nella campagna abbandonata, fuori del centro abitato, che aveva sempre e solo coltivato la terra, lontano dai circuiti della vita metropolitana, estraneo al resto del mondo quasi quanto un extraterrestre, ma che però la televisione la vedeva ed aveva subito riconosciuto il Quagliarella, tenendo ben stretto il forcone col quale, mentre parlava in quello strano linguaggio, con uno sconosciuto che comunicava con un linguaggio altrettanto strano, continuava ad aggiustare le sue balle di fieno, esclamò:
-Ma comme, tu sì stato in America, sì n’eroe, t’hanno date pure e medaglie, e si accussì fesso ca te fatto arrubbà ‘a valigia e ‘o cellulare?-
Frank Quagliarella, l’uomo coraggioso, l’eroe che non aveva esitato a mettersi contro politici e mafiosi, di fronte a quello strano individuo che lo rimproverava si sentì completamente disarmato.
Dopo aver balbettato in tono di scusa, “Sì, me excuso, io essere stato fesso…” ritornò sui suoi passi, perplesso (ma vuoi vedere che l’Italia, Napoli e il sud non sono cambiati?), rassegnato ad aspettare che il treno ripartisse.
Francesca Santucci
(dal libro “Napoli di ieri”, edizioni A.L.I. Penna d’Autore, 2005)
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