di Alina Rizzi
(pubblicato nell’antologia CANTI DI VENERE- Pizzo Nero Borelli- 2005)
Dunque non te ne sei accorto. Possibile?
Indizi ne ho sparsi ampiamente e ad ogni occasione propizia. Forse sei distratto o forse troppo stupito per coglierli e interpretarli.
Da quanto tempo?
Vediamo, saranno ormai…
Due mesi soltanto? Avrei detto molti di più. Almeno sei, credevo.
Così si scopre che sono io l’impaziente, quella che nell’attesa ingigantisce i fatti, le parole e sopravvaluta gli sguardi. Sì, può essere, non nego. Non sarebbe neppure la prima volta. Resta il fatto che ancora tu non hai azzardato una mossa concreta, una carezza, figuriamoci un bacio. In pubblico, l’avrai notato, sono sempre io a farmi avanti, confidenziale e un po’ distratta, nel vortice di altri baci, abbracci, saluti. Tu invece, lì fermo in attesa, ben disposto senz’altro se non ho preso una totale cantonata, ma passivo, forse inibito dal pubblico di amici e conoscenti.
Da soli, comunque, è anche peggio.
Io non azzardo per non risultare aggressiva: guai le donne aggressive, si auspica dolcezza pur nella trasgressione, che altrimenti il maschio, povero, si destabilizza. E allora eccoti lì, con le mani sulle ginocchia, nell’abitacolo appannato che verso il tramonto diventa una cuccia e non ancora alcova – purtroppo.
Fermo. Parli e parli orgoglioso della tua eloquenza poi ad un certo punto ti fermi – prima o poi- e mi sorridi. Nient’altro.
Tocca a me, dunque?
E invece no, non ci sto.
“Allora a presto”, dico amichevole, e me ne vado.
Ma che rabbia aver sprecato un’altra occasione. Te ne rendi conto adesso? Bè guardami almeno, tanto sto andando via: non ti ispirano proprio niente gli stivali neri coi tacchi vertiginosi?
E va bene andiamocene, ognuno per la sua strada.
Contento?
Forse non tanto se poi, alla cena successiva, ti organizzi in anticipo per sederti al mio fianco, scansando poco galantemente l’amica giunta dalla città per l’occasione. E io, tua degna complice, non protesto affatto: allontano l’amica e mi prendo te, compagno di tavola, di bisbigli, di risatine sceme vibranti d’eccitazione.
Ecco, questo in verità mi è piaciuto da subito, dalla prima volta: sapersi isolare in mezzo al gruppo grazie ad un bisbiglio, ad uno sguardo. Ma che avremo poi da tramare in mezzo a tutti? Probabilmente niente, a parte il piacere che ci scambiamo senza neppure sfiorarci, che è però palpabile, concreto quanto un gesto.
“Il tuo compagno,” dice l’amica, “compagno, marito, o non so…”
La guardo allibita: ha creduto questo, dunque. Che fossimo legati da intimità quotidiana o elettiva.
Noi due?
“Veramente, è la seconda volta che lo incontro,” le specifico divertita.
Ma mi piace, mi piace molto questo fraintendimento: è segno che non mi sono illusa, che non ho inventato tutto se, dal di fuori, risultiamo abbaglianti.
Peccato forse cadere nel solito tranello: ora che ci guardo anche io dal di fuori, eccitatissima, ci vedo coppia brillante, acuta e misteriosa. Ci vedo letterari più che letterati, ed è un vecchio difetto, una debolezza del cuore che si trascina dietro senza sforzo, ma rovinosamente, anche la carne tutta. Ah sì, perché la carne adesso è ben sveglia e frizzante e di chiacchiere e sguardi ne ha già avuti abbastanza, fin sopra i capelli. Piuttosto allora, perché nei capelli non mi ci metti le tue mani, sfiorandomi un istante, almeno il tempo di scoprire il peso specifico delle tue carezze, e poi magari, l’intensità della pressione delle labbra, l’umidità intrinseca alla tua bocca?
E invece niente, niente ancora.
Non azzardi, da gran signore. Ebbene, grazie per il riguardo, ma adesso avanti, hai la mia approvazione. Ti sorrido, non lo vedi? Credi sia causale? Scusa, ma che bisogno avrei di bisbigliarti sul collo persino il menù che abbiamo in mano entrambi?
Mi sfinisci di attese vane, eppure ormai, che ti voglio, è chiaro (azzardo sempre).
E’ chiaro per entrambi, intendo.
Poi ti chini leggermente verso il mio orecchio e citi: “per esempio c’è quel testo di Ipponatte(1): – Me lo sento come quello di un mulo… ah, se me lo succhiasse. –
Ti guardo.
“Duemilaseicento anni fa eppure mi pare ancora efficace, o no?”
Bè complimenti, mi hai lasciata senza fiato.
Mi volto e sorrido, benedicendo la presenza delle persone tutt’attorno nella sala. Da dove ti è venuta tanta intraprendenza? Credo di arrossire, non so più dove guardare. Mi hai dato ciò che volevo ma quando non me l’aspettavo, e ora che faccio? Passano i secondi, tu tranquillo, aspetti la mia replica.
Abile, abilissimo. Resto zitta col ritmo del sangue che ingigantisce nella testa e immagini rapide che si susseguono in forma di domanda: è questo davvero l’effetto che ti faccio? E’ così che stai ora, con me accanto, a sorriderti abbassando il viso? E’ già tutto così avanti? Tieni le mani dietro la schiena per bilanciare l’attrazione nei miei confronti? Così vistosa, poi?
Dio, potessi abbassare lo sguardo furtivamente, non so resistere. Immagino, con gli occhi spalancati nella penombra della sala, il tuo corpo che mi cerca, che si appoggia al mio e si strofina piano, che si discolpa oltre ogni ragionevole dubbio. Mi bruciano i palmi delle mani nell’impossibilità di allungarli verso i tuoi fianchi a controllare. Mi cedono le gambe invase da un languore che i tacchi alti e sottili non ce la fanno a sostenere.
Adesso ti dichiari! Proprio adesso che siamo in mezzo ad una folla, che non si può che bisbigliare, che ogni gesto sarebbe visto con sospetto e stupore. Adesso che non posso essere maldestra e imprudente, voltarmi, posarti le labbra sulla bocca e bisbigliare “sentiamolo forza, questo segreto che nascondi sotto la giacca impettita, provamelo all’istante il tuo dotto trasporto. Non chiedo altro…”
Invece ce ne stiamo uno accanto all’altra, sussequiosi negli abiti eleganti, a rimuginare vorticosamente sensazioni e palpiti. Che tipo! Chissà cosa ti aspetti. Hai detto chiaro e tondo che una donna sposata è senz’altro meglio: si evitano eccessivi coinvolgimenti, pensieri di fuga, improponibili richieste. Hai illustrato, in poche frasi, la perfetta avventura extraconiugale:
niente pranzo romantico ma camera d’albergo, poi erotismo sfrenato in ogni variante e declinazione. Giusto, altrimenti a che serve un’amante?
Però non siamo d’accordo su nulla e questo è allarmante. Io ti preciso, en passant, che pretenderei, all’occorrenza, una cena elegante, una stanza confortevole, molte chiacchiere, vino ghiacciato e sesso in tutte le varianti e declinazioni secondo l’estro del momento e in completa reciprocità, purché contornato di bisbigli, promesse, deliri, insomma tutto il repertorio della passione. Altrimenti che gusto c’è?
Ti vedo pensieroso, meditabondo. Fiuti il pericolo, è evidente, eppure sei tentato. Sei tentato soprattutto da ciò che ti trovi di fronte, a pochi centimetri di distanza, e dai miei racconti sgargianti di storie, avventure, incontri e trasporti. Ti piace la passione, non vorrai negarlo, ma come tutti ne sei atterrito. E a me – questo è il vero guaio – la fiuti addosso, come un odore, come un segno distintivo. C’entrano poco le mie scarpe rosse, le collane africane, la scollatura in pieno inverno, non barare. E’ ben altro ciò che hai intuito bisbigliandomi quelle mezze frasi, un po’ allusive un po’ provocatorie. E anche se ridi come di uno scherzo, a me non la racconti, caro: tu ci stai provando, ma con tale guardinga cautela da sembrare distaccato.
Che mi vuoi dunque, è appurato. E siamo pari.
Non resta che uscire dall’empasse sorprendendoci.
Tu con le tue citazioni da Grecia antica e sconcia io con un gesto di carnale amicizia.
Detto fatto.
Mi riaccompagni all’auto dopo l’ennesima cena tra amici, chiacchiere e vino rosso e lì, sotto le fronde umide falciate dai fari delle automobili in corsa oltre il parcheggio, mi avvicino e ti poso un bacio sulle labbra. Ma un bacio non un buffetto. Un bacio con la bocca umida che assaggia delicatamente le tue labbra e non ha fretta di ritrarsi. Un bacio col capo obliquo, gli occhi chiusi, i palmi della mani che aderiscono al tuo petto tanto che, attraverso il tessuto, io possa percepire distintamente quel fremito improvviso oltre la camicia e la pelle, quel fremito di dentro.
Zitto, so già tutto: allargherai le braccia e compiaciuto mi lascerai fare, mostrandoti stupito ma anche lusingato. Innocente ma partecipe. Coinvolto ma mai – mai!- responsabile.
Così vagheggio in pochi istanti tra il pensiero e il gesto e invece…
Invece sei davvero tu, quello degli sguardi, dei bisbigli, delle risate e delle battute oscene. Sei proprio tu, che pontifichi di sesso ed erotismo e poi zittisci se ti recito un verso. Sei quello che si è messo la giacca dopo aver saputo che ho un debole per gli uomini eleganti, quello non ama la formalità ma mi invita a cena. Voglio dire: sei la sostanza non l’inganno.
Così mi abbracci con forza, rispondi al mio bacio aprendomi le labbra, cerchi la mia lingua come un predatore. Mi succhi il respiro piegandomi la schiena, mi stringi nel tuo personale delirio, con la mano che corre a sfiorarmi la gola, le spalle. E già fai scendere la spallina del vestito e ti prendi il mio seno nelle mani. Stacchi le labbra per baciarmi proprio lì, ancora incredulo, febbricitante, e poi ritorni alle labbra. Scivoliamo sul cofano dell’auto prima che a terra.
E dire che eri tanto composto.
Ora hai mani intraprendenti, il corpo che freme, gli occhi liquidi di impazienza. E mi chiedi di seguirti in un luogo più consono, se non altro appartato.
Cosa credi ti risponderei io? Davvero, cosa immagini?
Non ne hai idea?
E’ ovvio, dal momento che non ti sei ancora deciso a riaccompagnarmi all’auto una sera, nel dopo cena che è divenuto estivo ormai, e io non ho potuto che fantasticare su questo bacio frondoso.
Un altro mese e mezzo e non so più cosa augurarmi. Sono impaziente, questo l’hai capito, ma ti sogno ancora, ad occhi aperti e in pieno giorno, e dal modo in cui rispondi al telefono quando ti chiamo, con l’entusiasmo di chi ha memorizzato il numero, sospetto che per te sia vero lo stesso.
Sai che faccio allora?
Ma sappilo subito: quando io voglio, voglio davvero.
Ora ti scrivo.
… per informazioni: Alina Rizzi – http://www.segniesensi.it
(1) Nota redazionale:
Ipponatte, in gr. Hipponax, poeta giambico greco (VI sec. a.C.). Dalla nativa Efeso passò, forse esiliato, a Clazomene, dove trascorse il resto della sua vita misera e tormentata. Dei due libri di giambi, scazonti o coliambi (coliambo s.m. gr. Cholós, zoppo e íambos, giambo. Trimetro giambico in cui la sostituzione dell’ultimo piede con un trocheo provoca un’aspra rottura del ritmo ascendente del verso come se questo all’improvviso zoppicasse, donde il nome. Il verso, la cui invenzione è attribuita a Ipponatte, è chiamato anche IPPONATTEO o SCAZONTE), che gli attribuivano gli antichi, sono giunti a noi ottanta frammenti circa, caratterizzati da un crudo e vigoroso realismo e ispirati a sentimenti di odio e di vendetta contro i suoi nemici e, in particolare, contro gli scultori Bupalo e Atenide, che l’avrebbero raffigurato brutto e deforme.
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