di Alina Rizzi
dalla rivista GENIODONNA – gennaio/febbraio 2012
Evadere attraverso le parole. Uscire dalle sbarre di una piccola cella per incontrare gli altri, raccontando in prima persona la propria storia, i propri malesseri, ma anche le speranze. Perché scrivere, forse maggiormente quando il contatto tra le persone è così difficile e limitato, può diventare una grande risorsa, un modo per occuparsi di sé, guardarsi dentro, aprirsi al confronto in cerca di un minimo di solidarietà.
A questo servono sostanzialmente le varie riviste dal carcere, poche cartacee e diverse in internet.
Perché dal carcere è davvero complicato far uscire opinioni e storie, e allora occorre che qualche volontario si dedichi generosamente alla raccolta di questo materiale umano e lo depositi nel mare accogliente del web, dove chiunque può tuffarsi per semplice curiosità o per autentico interesse.
Uno di questi volontari, Alessandro Zucchelli, laureato in pedagogia, artefice della rivista web “Zona 508” edita nella Sezione Femminile della Casa di Reclusione di Verziano, mi indica un percorso possibile, il suo.
“Quando ero “giudice onorario” in Corte d’Appello a Brescia, ho letto una lettera di detenuti che chiedeva più cultura in carcere. Così mi sono rivolto alla direttrice di allora, la dott.sa Manzelli (attuale direttrice di S. Vittore, a Milano) offrendo la mia disponibilità. La direttrice mi ha inviato ad ACT (Associazione Carcere e Territorio, fondata dal giudice Zappa – www.act-bs.com ) dove ho collaborato un anno per la cura del sito. Qui madre Mirella mi ha chiesto di cominciare ad avere attività in carcere, appunto a Verziano, dove c’è il carcere femminile di Brescia. Ho cominciato con cicli di conferenze di psicologia, e poi siamo passati al giornalino.”
Ma cosa spinge a toccare con mano questo mondo oscuro, di autentica “pena”?
“ Il carcere è un luogo dove si affrontano sfide enormi, quasi sempre perdenti, mettendo costantemente alla prova la propria maturità: per questo è stimolante ed entusiasmante. Un po’ come lavorare al Pronto Soccorso: i risultati non sono la regola, ma quando ci sono assomigliano al miracolo.”
E le detenute, che cosa si aspettano?
“Che le persone si accorgano che in carcere ci sono esseri umani uguali a quelli che ci sono fuori, per quanto riguarda l’umanità. Per loro è importante sentirsi utili per le compagne, verso un miglioramento della condizione carceraria in seguito al coinvolgimento del pubblico. Tutte le detenute che hanno scritto sul giornalino sono diventate attrici degli spettacoli “Qui al circo” e “L’isola di Verziano” (regia di Sara Poli, testi di Paola Carmignani) che hanno avuto il medesimo obiettivo: sensibilizzare il pubblico sull’umanità dei detenuti.”
Ascoltiamole, allora, queste storie di vite nell’ombra.
La vita di una persona che sbaglia pare una cambiale
Sono detenuta nella Casa di Reclusione di Venezia, non sono giovanissima, ho quarantacinque anni, sono madre di due splendidi bambini, e vorrei raccontare come il sistema giudiziario ti può chiudere possibilità che ti sei costruita con molta fatica, dopo un errore commesso nel lontano 1991.
Nel periodo in cui ero in detenzione domiciliare presso l’Istituto “Opera Don Calabria” ho cercato di aiutarmi, con l’appoggio di altre persone, a mettere un po’ di ordine nella mia vita sballata, fatta di falsità, sfruttamento, immaturità,squallore. L’input a ricostruire una vita sbagliata è partito da me, ma qualcosa che mi ha ancora di più convinta che ero sulla strada giusta è stato l’incontro che ho avuto con il mio attuale compagno. Un uomo che ha rafforzato con il suo amore la fiducia in me stessa…Volevo pagare il mio debito con la società e costruirmi una nuova vita. Ero determinata e non credo chiedessi molto. Una vita normale, ricomponendo non uno ma due nuclei famigliari, perché il mio convivente ha riconosciuto come suoi i miei due figli, che ora portano il suo cognome. Il motivo per cui sono salita al nord da sola era anche perché volevo riuscire a capire chiaramente se questo rapporto affettivo era una cosa seria, con basi solide.
Mi trovai lavoro in un maglificio. Insieme arredammo la nostra modesta casa. Facemmo progetti per il futuro. Mi sembrava un sogno. Il mio passato si stava allontanando velocemente. Tutto sembrava si fosse fermato sul marciapiede della stazione di Napoli, da cui ero partita. Cominciammo a parlare con assistenti sociali, giudici del Tribunale dei minori, per organizzare l’arrivo di Chiara e Alex, i miei bambini.
Dentro mi sentivo rinata, conta molto essere mamma, compagna, amica. Ero artefice di ciò che veramente volevo. Un sogno. Ma come tutti i sogni che al risveglio svaniscono, il mio il 17 aprile del 2001 si infranse.
I carabinieri vennero in fabbrica, erano le 10.30, avevano un mandato di cattura. Ero sconvolta, non riuscivo a crederci, continuavo a chiedere: “Siete sicuri?”.
Sono di nuovo in carcere. Il reato è del 1991, ogni giorno mi chiedo perché. Certo, il mio rapporto affettivo di coppia permane, ma devo ricominciare da capo… i servizi sociali, il Tribunale…
Mi sento sempre rispondere di avere pazienza, che tutto si aggiusta. Chi realmente mi vuole aiutare si trova sempre porte sbarrate, ostacoli insormontabili. Ho sbagliato, ho anche pagato. Ho fatto quattro anni di carcere in passato e con questo sono già cinque. Mi pare una cambiale. I creditori vengono a riscuotere proprio quando con molta fatica stavo integrandomi…
Anna Maria, luglio 2002
Sorveglianza e punizione
Belluno: carcere di alta sorveglianza e secondo altre voci carcere di punizione. Definizione non del tutto esatta. Si finisce spesso a Belluno per punizione, per avere infranto le regole da un’altra parte, ma a Belluno ci si finisce anche per caso, per essere stati arrestati nel suo territorio e per sfollamento. Quando io sono arrivata lì, eravamo in 4 detenute. La sezione è piccola, suddivisa su sei celle di cui una considerata di isolamento; 4 celle piccole di tre metri per due e quaranta, più una cella doppia. La prima impressione era di essere catapultata nel passato. Sì, perché a Belluno l’orologio sembra sia restato fermo. Come allora, la mia prima carcerazione di 20 anni addietro, quando ti scontravi solo con violenza fisica e psicologica, quando eri condannata all’inattività.
A Belluno è così: niente corsi professionali, niente volontariato, niente di ricreativo, niente di niente. Nessuno scambio di parole che non sappiano di detenzione, di ristrettezza, di malessere. Solo cancelli, sbarre, telecamere, porte elettroniche e ogni parola viene ascoltata. La privacy è inesistente, neppure le telefonate ai tuoi cari puoi farle con intimità: il telefono è situato in mezzo alla sezione, accanto al tavolo delle agenti, e nonostante si allontanino mentre parli, non possono non sentire, e lo stesso vale anche per chi sta in cella e può udire ogni parola, nel caso in cui fosse interessato, ma questo difficilmente accade, perché a nessuno interessa nessunissima cosa, si vive apaticamente riempiendosi di psicofarmaci, che vengono distribuiti generosamente, e questo non solo a Belluno, ormai si usa così ovunque. C’è anche chi si taglia, chi dà fuoco al materasso, chi sbatte porte, chi urla. Un’esperienza di disagio, di angoscia e di ansia. Ma nessuno sa più ascoltare, nessuno sente. E chi sente si gira dall’altra parte o alza il volume del televisore. Se poi c’è qualcuno che ascolta veramente e vorrebbe accorrere, non gli è consentito. Il cancello del blindo si blocca e, impotente, sei costretta a fermarti, provi a chiamare, ma pure questo è vietato…
Christine, ottobre 2003
Emiliana, una detenuta di tre anni
Emiliana ha appena compiuto tre anni, e quello è stato un gran brutto giorno. Il giorno che ha ricevuto l’annuncio di dover “essere dimessa” dal carcere. Dunque c’è qualcuno che può non voler uscire dal carcere, ed essere costretto a farlo: una bambina di tre anni, per esempio, perché per lei il carcere è vivere con Maria, sua madre, e uscire significa essere staccata da lei inesorabilmente. E infatti è appena arrivata una carta del Tribunale, che ha decretato quello che Maria temeva più di tutto: l’affidamento della figlia a un istituto o a una famiglia italiana.
La storia di Maria, albanese, va un po’ di pari passo con quella di Giuliana, italiana: erano detenute insieme nel carcere della Giudecca pochi mesi fa, solo che Giuliana i figli li aveva fuori, affidati alla sorella, e Maria l’unica figlia se l’era portata dentro.
Ma c’è un’altra differenza tra queste due donne, ed è quella che forse peserà di più: Maria è albanese, e tutto allora per lei è e sarà più difficile. Ora Giuliana è fuori, il suo è uno dei pochi casi di applicazione della legge sulle detenute madri, che le ha permesso di vivere a casa, in detenzione domiciliare, per accudire i figli. Per Maria invece è arrivato quello che più temeva: il compleanno più brutto, tre anni, la fine di quello strano periodo in cui un bambino può essere carcerato…
Ma come è stata, la carcerazione di Emiliana? Una vita sempre e solo con donne: agenti, detenute, suore, l’assenza pressoché completa di figure maschili. Alla sera, quando le agenti chiudevano la porta blindata della cella, c’erano le urla perché a Emiliana non piaceva essere rinchiusa. Se succedeva poi che la madre alzava troppo il volume della televisione, la bambina le diceva: “Abbassa, che se no viene l’agente e ti sgrida”. E poi le piaceva imitare i gesti di tutti quegli adulti che aveva intorno: anche lei aveva imparato a fischiare e gridare “Terapia!!!” quando lo faceva la suora, che ogni giorno passa e distribuisce le gocce tranquillanti alle donne che non ne sanno fare a meno perché stanno troppo male.
Poi, è successo quello che doveva succedere: è arrivata una carta, qualcuno ha dovuto staccare la bambina dalla madre e decretare la fine della sua carcerazione. Ma per la madre la “scarcerazione” della figlia ha finito per essere la condanna a una pena aggiuntiva, una separazione con davanti solo l’ignoto.
Alcune donne della Giudecca, 2002
Vita da ladre
Vengo da una famiglia che ha sempre faticato molto: i miei genitori lavoravano nelle campagne per la raccolta della frutta o dei pomodori.
Io avevo solo 15 anni quando ho fatto la famosa fuitina, con quello che ancora oggi è mio marito, se così posso chiamarlo, perché ha sempre vissuto alle mie spalle, e io per vivere e per allevare i miei figli sono sempre andata a rubare, perché i soldi non bastavano mai e la famiglia diventava di anno in anno più numerosa.
Ho avuto il mio primo figlio all’età di 15 anni, e dopo ne ho avuti altri 9, in tutto 5 maschi e 5 femmine: a trent’anni ero già madre di 9 figli e l’ultima l’ho avuta a 34 anni. Avevamo naturalmente tutti bisogno di mangiare e di vestirci e mio marito, oltre a non lavorare, mi picchiava per niente. Mi sono sempre spostata da casa a molta distanza, per andare a rubare, e sempre sola e in treno. Mi ricordo di tanti anni fa, quando uno dei miei figli era molto piccolo e io mi feci 4 anni e mezzo di carcere, una condanna lunga per me, dato che per furto non mi ero mai fatta più di 6 mesi, a volte 10 giorni, a volte 3 mesi, ma condanne così lunghe non ne avevo avuto mai. E fu molto dura perché con me avevo mio figlio di otto mesi e anche allora ero qui alla Giudecca.
Mio marito andò solo in quel periodo a lavorare, perché senza di me non avevano da mangiare, né lui né i miei figli, ma lui non mi ha certo aiutato qui in carcere, anche allora me la sono cavata da sola.Questa è la vita del ladro.
Lidana, agosto 2000
Tutto è cominciato quando avevo solo tredici anni
A tredici anni, al mio paese, ho conosciuto LUI. LUI che ha dieci anni più di me, ed era bello, ricco e forte. Io pensavo di essere stata baciata dalla fortuna solo per averlo conosciuto, e dopo che lui si era dichiarato innamorato, mi sentivo non una principessa, ma una regina. Vivevo per lui, nella mia mente c’era solo lui. Solo ora, a distanza di tempo, il ricordo di quei momenti mi fa paura.
Praticamente mi sentivo totalmente dipendente e pensavo che senza di lui sarei morta. A quattordici anni mi sono sposata e sono andata a vivere a casa sua. E il sogno continuava.
Ma ben presto, dopo pochi mesi, lui mi ha proposto di venire in Italia per fare un giro. Dentro di me era la luna di miele tanto desiderata.
Una notte partiamo, io, lui, un suo amico e la moglie del suo amico, saliamo su un gommone con molte altre persone a bordo. Arrivata in Italia scopro che lui aveva già preso una casa in affitto per noi quattro.
Dopo qualche giorno ho notato qualcosa di strano nel suo comportamento con me, e ho cominciato a parlare di questo con la moglie del suo amico. Ed è stato allora che lei mi ha spiegato brutalmente che se io ero in Italia era solo per lavorare come prostituta, e che lei mi doveva insegnare il mestiere.
Io ero piccola, innamorata, e pensavo che fosse uno scherzo, però mi vergognavo a parlarne con lui, e comunque pensavo di essere sicura che lui non volesse. Però piano piano ho cominciato a capire che, se anche mio marito di questo non mi parlava direttamente, era quello che pretendeva da me. La sua amica continuava ad insistere per insegnarmi come comportarmi, ed io mi sentivo sempre più pressata e angosciata.
Sono passati due o tre mesi, e poi lei ha iniziato a darmi queste “lezioni”. Vivevo un incubo e speravo sempre: domani sarà diverso. Ma una sera quella donna mi disse che dovevo cominciare a lavorare. ERO TERRORIZZATA.
Mio marito, senza parlare, ci ha accompagnate in auto sul posto. Siamo scese, lui è andato via… Così è iniziato il mio calvario. Dopo una settimana mi hanno lasciata da sola in strada… Non potevo chiedere aiuto alla mia famiglia perché lui mi minacciava, ho tentato di scappare ma lui mi ha ripreso e dopo è stato peggio.
Sembra assurdo dire una cosa del genere, ma il mio arresto è stato anche l’inizio della liberazione da questo inferno. Dopo due anni di sofferenze e riflessioni ho una certezza: quella vita non la voglio più fare.
Laura, giugno 2002
Dall’Ucraina in Italia, a fare la schiava di uno “zio italiano”
Il mio nome è Olga, sono nata in Ucraina. A diciassette anni sono andata a Mosca per studiare, ho frequentato una scuola tecnica e poi mi sono sposata. Mio marito era un uomo buono, lavorava forte e con lui stavamo benissimo, io e i nostri due bambini. Il suo lavoro stava al primo posto, al secondo posto stavano i bambini e al terzo io. Cinque anni fa ebbe un incidente, e io rimasi sola con una figlia di nove anni e un figlio che dipendeva ancora da me. E questo a Mosca nel 1995, dove nel frattempo da tre anni o più regnava l’anarchia e la vita diveniva di giorno in giorno più difficile.
Mia sorella nel frattempo conosce un italiano, un certo Mario. Ed è grazie a lui che ho ricevuto un visto e immediatamente mi sono ritrovata in Italia.
Un giorno infatti Mario mette per me un annuncio breve su un giornale italiano: “Donna tranquilla, 38 anni, cerca calore e attenzione, richiede poco. Non parla italiano”. Arrivano 150 risposte. Mario le seleziona. Gli chiedo di scegliere un uomo maturo, preferibilmente con una casa in campagna. Spero che un uomo un po’ vecchio, all’infuori di un po’ d’atmosfera, di aiuto nell’orto, un buon pasto e una casa pulita, non pretenda tanto. Alla fine la scelta di Mario cade su un uomo di 60 anni, robusto e con occhi penetranti. Desta fiducia. Vado con lui, con quello che io chiamo “il mio zio italiano”…
Il primo mese che viviamo insieme scorre veloce. Spero che voglia ospitare a casa mia anche mia figlia. Il periodo di prova è proseguito bene, lui mi accompagna anche alla polizia per regolare la mia presenza in Italia. Dopo, essendo in regola, faccio la visita dallo specialista, il quale mi assicura che devo mangiare di più, sono troppo magra.
Per colazione posso prendere solamente un caffè. Fa più freddo adesso, non ci sono più frutti, i polli che ha sono piccoli, ma fanno abbastanza uova. Le uova grandi si vendono, le piccole le mangiamo. Quando ne cuocio due, lui ne prende uno e lo butta tra i polli che l’hanno fatto, e quando voglio versarmi ancora una tazza di caffè, non mi da il permesso: “Costa troppo”…
Quando esce di casa, il giorno dopo, vado a cercare il formaggio. Non riesco a trovarlo da nessuna parte. La fattoria è grande, ci si può nascondere qualsiasi cosa facilmente. Trovo solamente una confezione di polvere su cui è stampato un teschio, e nello stesso armadio trovo anche una pagina di un vecchio giornale polacco. Per me, che vengo dall’Ucraina, è facile leggere il polacco. Vedo lui a figura intera. Una delle sue donne polacche racconta quali incubi ha vissuto e avvisa le altre di non avere fiducia in questo mascalzone.
Vivo come uno zombie, non so dove cercare, non so cosa devo fare. Ho fame e sono ammalata. Se mi gettassero un pezzo di pane sul pavimento lo mangerei come un cane. Ma questo non succede.
Quando gli chiedo qualcosa da mangiare, mi dice: “Levati dalle scatole. Ci sono tante altre straniere”.
La fame è una sensazione terribile, ma ancora più spaventoso è che vuole sempre fare all’amore. Le poche volte che lui mi lascia fare la doccia esige di toccarmi e di fare altre porcherie. Mi vergogno a subire queste cose, mio marito non mi ha mai chiesto cose del genere. Mario, invece, mi spiega che sono una straniera e se racconto quello che lui fa nessuno mi crederà, e aggiunge “Basta che dica che mi hai rubato soldi, e andrai in carcere”.
Siccome mangio troppo poco e dormo poco, divento insensibile. Per la prima volta ho pensato ad una corda. Non posso ritornare in Russia ed essere di peso ai miei figli, è meglio se m’impicco qui. Ma ho paura. Piano, piano, metto un po’ di veleno nel caffè e nel brodo. Per lui questo brodo è così gustoso che ne mangia tutti i giorni una mezza pentola. Le sue unghie diventano blu. I suoi capelli cadono. Un giorno si stende sul divano e dopo poco inizia ad uscirgli una schiuma bianca dalla bocca e gli occhi gli si rovesciano indietro. Ho avvisato la vicina di casa. Ora mi trovo in carcere.
Olga, giugno 2000
Ragazze tossicodipendenti che entrano in carcere
Nel carcere femminile della Giudecca, a differenza di tante altre carceri, esiste l’infermeria che dispone di un medico addetto solo ai tossicodipendenti. Per poterti prescrivere il metadone a scalare, il medico deve accertarsi che, anche in “libertà”, seguivi un programma terapeutico con il Ser.T. Chi non seguiva questo programma invece del metadone riceve una terapia farmacologica che l’aiuta a superare la crisi di astinenza.
Mi trovo qui da circa otto mesi, sono entrata prendendo il metadone a scalare, dopodiché mi hanno aiutato con la terapia farmacologica. Fortunatamente sono in una cella con delle persone che hanno avuto più o meno la mia stessa esperienza e che hanno così potuto comprendermi ed aiutarmi.
Prima di entrare in carcere ho tentato di fare un percorso terapeutico, ma penso che per farlo bisogna essere fortemente motivati, perché in comunità ci sono regole molto rigide da rispettare. Ci sono degli orari, delle pause in cui fumare. In genere danno quindici sigarette al giorno ma, ad esempio, se non le fumi tutte devi restituirle, per evitare che si facciano scambi. Puoi bere in tutto due caffè al giorno.
Ci sono addirittura comunità in cui ti portano a livelli estremi di sopravvivenza, dosando il quantitativo di cibo, limitando l’uso dello zucchero e permettendoti di bere il caffè solo la domenica mattina, ma penso che questi siano pochi casi estremi.
In comunità poi ci sono tre regole fondamentali: niente droga, niente sesso, niente violenza.
Non si possono avere segreti, perché durante i gruppi, in un modo o nell’altro, ti fanno rivelare ogni cosa e poi capita che ci siano le classiche “infamate”, da parte degli utenti, con gli operatori. Ora, che penso di avere una buona motivazione, sto aspettando di entrare in una comunità in affidamento.
Federica, aprile 2000
La nostra ignoranza della lingua è anche ignoranza dei nostri diritti
Ancora prima che apriamo bocca, ci dicono: “Parla italiano!” e, quando proviamo a parlare, loro ci dicono: “Prima impara meglio e poi parla”. Ma a dover imparare meglio l’italiano siamo in molte, alla Giudecca, tanto è vero che c’è chi dice: “Io, qui, mi sento come all’estero”, e sono parole di un’italiana “purosangue”. Lei ha ragione, perché, in questo carcere, la popolazione è composta per il 60% di stranieri. È una bella varietà e mescolanza: i diversi modi di vivere rendono possibili vantaggiosi scambi culturali.
Peccato che non ci siano stranieri tra gli impiegati, qualche operatore che parli almeno una tra le più diffuse lingue straniere e che si occupi in particolare dei nostri problemi e del nostro reinserimento nella società. Tutte siamo d’accordo che la lingua si trova al primo posto nella lista dei nostri problemi. Non poter mai parlare nella lingua madre, per le straniere, che non sono circondate dai connazionali, significa solitudine e solo questo. Abbiamo spesso l’idea di non far parte di niente.
È difficile esprimere i propri bisogni e difendere i propri interessi, quando non si ha padronanza della nuova lingua, come la si ha della propria.
Il canale di comunicazione è impreciso e porta al malinteso fra italiani e stranieri. La nostra ignoranza della lingua è anche ignoranza dei nostri diritti, mentre i doveri impariamo a conoscerli a nostre spese. Per fortuna abbiamo una splendida insegnante d’italiano, che ci insegna e aiuta con inventiva e grande pazienza. Lei è la nostra salvezza: “Se impari la lingua, comincerai a sentirti più sicura”.
Marianne, novembre 2000
Scrivo, dunque esisto
Alle tre del pomeriggio alla Giudecca ci sono le donne in coda: è il momento in cui si ritira la posta. Una boccata d’aria fresca, che arriva dal mondo libero. Ma anche da quello “ristretto”. Sì, perché ci sono prima di tutto corrispondenze tra detenuti e persone esterne, e poi ci sono, naturalmente, le corrispondenze da detenuti a detenute, persone che non si conoscono, ma si cercano perché hanno qualcosa di importante in comune: il carcere.
Io ho avuto una corrispondenza con un detenuto, e tutto è cominciato quando mi è arrivata una lettera da uno sconosciuto. Succede sempre che c’è qualcuno che dà il tuo nome, un’amica, una compagna di cella. La prima lettera che ho ricevuto, io non ne sapevo nulla. Era stata una ragazza che è uscita poi, e non me lo aveva detto. A scrivermi era un uomo, è difficile che da carcere a carcere ti scrivi con una donna. L’uomo spesso cerca un punto d’appoggio in una donna, a volte scrive un po’ per scherzo, o per esercitare la fantasia, oppure per un reale scambio d’opinioni, un confronto con qualcuno che può capirlo, perché conosce bene la condizione in cui si trova.
Emilia
BOX: PER CONOSCERE E COMPRENDERE
Se siete interessate alle problematiche di chi vive in reclusione, o anche al volontariato in carcere, potete consultare in internet alcuni siti molto interessanti. Per esempio: www.ristretti.it offre un vasto panorama di corrispondenze, maschili e femminili, da carceri disseminati in tutta Italia. E molti articoli, nonché istruzioni per mettersi in contatto con i coordinatori delle organizzazioni di volontariato. Poi www.ildue.it è la rivista ufficiale on line del carcere di San Vittore, dove si organizzano anche corsi e percorsi creativi per i detenuti, con docenti venuti dall’esterno. “Ragazze fuori” è il nome della rivista realizzata nella Casa a Custodia Attenuata femminile di Empoli, molto impegnata anche in spettacoli teatrali.
BOX: DONNE IN SOSPESO
E’ attualmente alla terza ristampa il libro DONNE IN SOSPESO, raccolta di testimonianze femminili provenienti dal carcere della Giudecca. Duecentocinquanta pagine di lettere e racconti, che parlano di figli, sesso, uomini, affetti interrotti, corpi e teste dolenti. Ma anche di speranza, perché scrivere è anche un modo di prendersi cura di sé. Il libro è prenotabile all’e.mail redazione@ristretti.itIndirizzo e-mail protetto dal bots spam , deve abilitare Javascript per vederlo oppure allo 049-654233. Per riceverlo è sufficiente una donazione di 10 € all’Associazione di volontariato penitenziario “Granello di Senape”, perché i ricavati verranno destinati a progetti di reinserimento delle persone detenute.
Alina Rizzi
(dalla rivista GENIODONNA – gennaio/febbraio 2012)
http://www.segniesensi.it
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