un racconto di Anna Manna
All’inizio non feci caso a quel suono flebile. Pensavo provenisse da qualche cellulare lasciato acceso nonostante il divieto scritto chiaramente sulla porta d’ingresso dell’Archivio. Ero affascinata dal soffitto, dalle grandi finestre sul cortile. Un luogo poetico, capace di incantare nel più assoluto silenzio. Mentre gli studiosi facevano vibrare la carta ad ogni giro di pagina di antichissimi libri. Mi abbandonavo a poco a poco a quella melodia di finissima carta, una vibrazione che entrava nell’anima e ne solleticava gli angoli più nascosti.
Mi incuriosiva ogni più piccolo rumore. Ne restavo prigioniera.
Poi chiaramente in modo inequivocabile mi sentii chiamare: ”Signora… signora…” Non capivo da dove provenisse il richiamo. Ero immersa in un enorme fascicolo polveroso che riscopriva pagina dopo pagina, rigo dopo rigo, la storia di moltissimi anni prima. Era un fascicolo del 1600.
Era una voce di donna. Ne avevo incontrate tante in quelle pagine. Una dietro l’altra si presentavano con le loro storie, semplici e complicate. A poco a poco m’ero affezionata a quelle mattinate a spasso tra i secoli. La polvere dei secoli! Mi difendevo dalla polvere rossa dell’inchiostro di china con cui erano scritti quei testi con guanti da chirurgo, occhiali e mascherina. Ogni tanto facevo una pausa nella lettura per non sensibilizzare l’occhio che lasciavo libero di vagare nel cortile di fronte a S. Ivo. Scoprivo, durante queste brevi pause, le meraviglie delle sculture sui cornicioni, le api scolpite nel chiostro, alla fine mi lasciavo avvicinare dai colombi, li blandivo con i biscotti della mia piccola merenda.
“Signora… la prego mi ascolti… qualcuno deve aiutarmi… saperlo adesso.. dopo tanto tempo lei è una donna può capirmi…”
Questa volta la voce era limpida, era riuscita ad imporsi alla mia attenzione.
Ne ero invasa, come contaminata. Mi entrava dentro, la sentivo addosso come la polvere rossa dell’inchiostro. Negli occhi, nella gola, nelle orecchie, lungo la schiena. La avvertivo quasi come un impercettibile brivido.
Per giorni continuai a sentirla, ad avvertire quel richiamo. Mentre prendevo l’auto, mentre ero a casa, mentre mettevo ordine nelle mie carte. Quella voce di donna mi reclamava, era più di un lamento, più di una richiesta.
Io non la temevo affatto, ma non le davo nemmeno credito. Attribuivo a quella voce il significato superficiale di fascinazione del luogo. Insomma legavo quel suono a mille cose meno che alla verità.
I miei tuffi nei secoli mi trasportavano lontano dalla mia vita e mi ritrovavo in epoche lontanissime da me. Diventai prigioniera di una sensazione strana, era come un’immersione in quella polvere rossiccia che mi inebriava, mi attanagliava le tempie. Con quella strana visione velata della storia , in quella evanescente prigione, mi rigiravo tra gli scaffali. Il passato ed i malefici del passato si impadronivano di me.
“Signora..mi dica per favore…mi spieghi chi mi amò di più? Chi mi pensò dopo, dopo la mia morte…per chi dunque finì il mio cuore di battere…quale dei due era degno di tanto amore, che per loro cessò di battere il mio cuore?”
Un giorno, a sorpresa mi avvertii mentre rispondevo :”Ma cosa vuol dirmi… si spieghi…”
“Mi chiamavo Donna Vittoria, sono vissuta a Manziana nel 1597, vissi bene tutta la prima parte della vita… poi i figli… un periodo con gravi problemi… mio marito… un gran signore della campagna romana, Messere Giovanni era stato un incontro d’amore… ma poi i troppi problemi… io ero come sfinita dalla vita… fino a lui… Messere Petruccio“
Forse ero entrata in contatto con un’anima del cinquecento? Non sapevo quale stramberia avesse invaso la mia anima, ma tra la voce che riusciva a parlarmi, ed i testi che ripetevano la storia di Donna Vittoria , mi ritrovai a Manziana, nella meraviglia della campagna romana. E vidi,vidi come se davvero, anch’io fossi vissuta lì. Scorrevano davanti ai miei occhi le serenate di Messere Giovanni alla moglie, la più bella del paese. Il matrimonio sfarzoso e ricco, la casa grande, ricca.
Il carattere di lui gioioso, godereccio, ma troppo concreto, troppo carnale, creò tra lui e la moglie come una distanza, una linea di confine che le ripetute maternità contribuirono a segnare più profonda. Poi le malattie dei figli, il duello che le aveva portato via il figlio più strampalato e ribelle, il dolore straziante per quella morte. E una tristezza improvvisa che l’aveva annientata. E poi lui… quell’altro uomo che l’aveva incantata come una fanciulla dopo quattro maternità. La riconsegnò alla giovinezza ed ai tremori del primo amore.
“Scusi signora…. stiamo chiudendo… forse ha lavorato troppo…”
Non era la vocina dei libri, era l’impiegata dell’Archivio. Mi ero addormenta sopra il librone aperto sui ghirigori della vita di questa donna morta tanto tempo prima.
Mi svegliai come ubriaca, mi vergognai delle stupide follie dietro i fantasmi dell’Archivio, e scusandomi con l’impiegata mi allontanai da quel luogo di studio e di magia.
Ma a casa, la polvere rossa sembrava perseguitarmi. Feci un a bagno caldo, ma la mia pelle continuava a luccicare di rosso. A tratti mi sembrava che io stessa fossi diventata un grande libro di storia dove leggere dietro ogni lembo di pelle mille storie. Mi addormentai con questo pensiero.
“Hèlene… mi aiuti… mi sveli finalmente la verità… fu quel doppio amore che mi uccise, il mio cuore non seppe reggere e forse per un colpo più forte smisi di vivere… ma poi… dico, dopo la mia scomparsa, chi continuò ad amarmi dei due…possibile che ho perso la vita per uno di loro che non mi amava… mi aiuti.”
Decisi di aiutare Donna Vittoria, mi intenerii a quella donna così innamorata dell’amore, da morirne. Era necessario fare ricerche, indagare sui libri, cercare di scoprire quale fu la vita dei due uomini dopo la scomparsa della donna. Ma era un’impresa difficile, non erano personaggi così importanti da lasciare tracce sui libri dell’Archivio. In alcune pagine di libri, inoltre, il tempo si era divertito a cancellare la frasi, erano ormai scarabocchi d’inchiostro rosso che non svelavano nulla. Anzi sembravano lanciare bagliori sinistri. Passarono giorni e giorni in cui non trovavi nulla. Sembrava di navigare in un oceano buio e silenzioso. Anche la voce di Donna Vittoria sembrava scomparsa.
Il chiostro nell’oscurità invernale si presentava, al mio sguardo allucinato, in tutto il suo fascino.
Tra le sue arcate mi sembrava di scorgere tre figure danzare : Donna Vittoria, Messere Giovanni e Messere Petruccio. Erano loro? Erano i fantasmi dei libroni che si davano convegno?
Ma come scoprire i loro sentimenti, dietro le carte, le date, i resoconti storici come scoprire i sentimenti, i moti dell’animo, le vere trame della psiche. Quando si legge un libro, una storia, si conoscono i fatti ,ma la trama sottile del cuore dove si nasconde, come stanare la verità dell’animo
dietro le carte e i certificati della vita?
Che compito difficile mi dava quella donna lontana, scoprire i sentimenti, misurali, pesarli. E che senso aveva dopo tanto tempo, dopo la morte? I sentimenti servono nella vita, per vivere insieme, dopo che senso ha interrogarsi. O forse durano, anche dopo i sentimenti? Sono più forti delle carte, dei certificati. Le carte appartengono al mondo, i sentimenti no. Sono forse di più, quel di più che non riusciamo a decifrare, che ci sfugge dalle mani. E’ per quel di più che Donna Vittoria era morta. Un eccesso di vita, un eccesso d’amore.
Mi aggrappai alle ricerche come ad una barca, un salvagente per troppe domande che si accavallavano nella mia mente. Ero diventata dipendente della ricerca. Una droga sottile che ti attanaglia, ti invade senza che te ne rendi conto. Mi avevano parlato di questo strambo pericolo, ma non avevo voluto dar retta ai consigli degli altri studiosi. Ogni mattina, dopo una colazione frugale, mi dirigevo di corsa all’Archivio. Avevo fame di ricerca, di notizie, di studio. Salivo di corsa le scale, non mi incantava più neanche il chiostro, che pure avevo tanto ammirato all’inizio dei mie studi. Un saluto breve agli impiegati poi, finalmente, l’immersione dolcissima nella storia.
Tutta me stessa nella polvere rossa della leggenda, i mie occhi, la mia pelle. Avvertivo un pizzicore nelle mani, ma non davo importanza, anzi quel solletico mi spingeva a toccare più profondamente le pagine i libri. Quasi le carezzavo. Volevo che quella sensazione si centuplicasse, mi danzasse dentro, fino a sentirmi una cosa sola con il passato.
Fu allora che di nuovo sentii la voce di Donna Vittoria. Anzi la vidi seduta accanto a me.
Era un fantasma? Un’allucinazione? Era la droga della ricerca?
Non mi importava assolutamente nulla di cosa fosse. Era un sensazione bellissima e me la tenevo anche se fosse stato il sortilegio di un implacabile illusionista.
Era seduta vicino a me, con dignità. Il volto, bellissimo, il seno fasciato da abiti antichi, le mani inanellate.
Silenziosa e composta. Ma il viso aperto al dialogo, la bocca dischiusa come a sorbire l’aria della vita. Supplichevole e dignitoso insieme. Forse fu questa miscela che la perse, questo fascinoso richiamo capace di cancellare tutto il resto la spinse verso una vita nuova, la distaccò dalla sua famiglia, la spinse verso il salto, tra le braccia di un’altra storia.
La osservai con timore, con meraviglia, con stupore.
“Non temere, bella signora, non vengo a farti male anche se ancora profumo di morte.”
“Cosa cerchi ancora tra i vivi, perché non riposi in pace tra la tua gente?”
“E tu cosa cerchi nel passato, perché vieni a studiare ciò che è finito, ciò che non esiste più. Perchè ti accendi di cose e storie passate?”
Mi sentii processata nell’anima e respinsi le sue indagini: “Sono qui per motivi di studio, non altro.”
“Io sento altro, sento la tua passione che s’intrufola nei libri, sento le tue malie, le sirene della tua vita, i richiami del mondo che ti scaldano.”
“Vuoi parlare di me, sei venuta dalle nebbie per processarmi ?”
“No, no, scusami signora. Io sono qui accanto a te per chiederti aiuto. Accanto a te e non ad altri perché tu ami questi libri, questi certificati, questi documenti. Soltanto tu sei capace di far risorgere la vita. Il tuo studio è passione… il tuo desiderio è il contrario della morte, per questo solo per questo a te e non ad altri studiosi mi rivolgo”
“Il desiderio è l’opposto della morte, di cosa dunque ti stupisci. Ho già sentito a teatro questa frase. Mi colpì allora e mi colpisce adesso. Ma a te il desiderio fu fatale, ti annientò.”
“No non fu il desiderio. Quando incontrai Messere Petruccio mi dimenticai di tutto, di tutte le difficoltà, di tutte le pene. Un figlio perso in un duello, un altro partito lontano dietro a scorribande, una figlia cieca. Il cuore di una madre non può reggere. Ma io ressi, ressi a tutto.”
“Ma non hai retto il desiderio, ti uccise.”
“No, bella signora. Ascolta dopo quell’incontro, dopo il primo incontro che mi turbò moltissimo, la storia si tinse di tenerezza, di comprensione. Lui, capì le mie sofferenze e la sua baldanza, la sua tracotanza si cangiò in tenerezza, comprensione. Io gli fui grata, quella tenerezza mi legò più di mille amplessi. Decidemmo con uno sguardo soltanto che ci sarebbe bastato quell’incontro d’anime.”
Ma fu allora, a quel punto che cominciai a sentirmi male.”
“Dopo la rinuncia?”
“Ma non fu una rinuncia, fu una evoluzione armoniosa, ma allora quando fu certo che non avrei commesso sbagli, fu allora che cominciai a sentirmi male.”
Stanca e sporca di polvere mi sembrava di sprofondare nel librone aperto davanti a me.
Il libro è enorme, vecchissimo. Le pagine sembrano come incollate le une alle altre. C’è uno strappo nel centro della pagina che s’allarga come una forza magica che invade il libro e lo mangia, lo rode.
“Guardi sembra un ricamo… il tempo mangia la verità della carta… lo riduce a polvere…
Le pagine sono corrose, la carta è diventata poltiglia, filamento, polvere.”
All’improvviso nel libro si apre come una voragine di carta. Le due donne sono coperte di polvere, una polvere che le inghiotte. Cadute entrambe nel baratro del tempo.
“Ho paura, ho paura di svelare il tempo, di scoprire ciò che non debbo scoprire… Donna Vittoria mi lasci, mi lasci nella mia epoca… non si possono far rivivere i fantasmi…”
“Siamo tutti polvere, polvere nella polvere… mi aiuti, soffi con la sua forza di vita su questa tempesta di polvere e mi sveli la verità”
Nel centro del libro come in una gabbia ottica due figure piccole si muovono con circospezione. ”Chi sono? Cosa succede adesso?”
Donna Vittoria come colta di sorpresa: “Siamo noi… io e Messere Petruccio… noi… oddio ancora mi emoziona… noi nella miniera… quando andai a trovarlo nella miniera.”
“Come osasti andare da lui”
“No, mi mandò mio marito… dovevo acquistare un partita di ferro… ma trovai il fuoco del mondo ad aspettarmi.”
“Cosa avvenne? Cominciavo ad essere trascinata dalla storia, dalle parole di donna Vittoria, dal ricordo di quest’uomo strano.”
“Nulla, non avvenne nulla… ma lui mi portò fino al fondo, vicino al fonditore, mi spiegò il funzionamento di ogni meccanismo e attraverso le sue parole io fui ferro, fuoco, lava .Io diventavo quel ferro, io diventavo quel fuoco… io diventavo un’altra donna… con una forza una energia sconosciuta.”
“Era una sensazione fortissima…”
“Era il soffio di un’altra vita che mi penetrava… ma invece di soggiogarmi mi dava forza.”
“E dunque fu quest’accavallarsi di emozioni che fece male al suo cuore…?”
“Sì , sì così scrissero nelle carte dell’ospedale… e così. Ma chi dopo mi amò, chi mi pensò anche dopo?”
Mi trovarono di nuovo addormentata sul librone, prigioniera di quella richiesta.
Per giorni e giorni cercai di distogliermi da quella domanda insidiosa che mi spingeva a sfidare il tempo passato.
Poi presi coraggio e iniziai una ricerca a tappeto, incrociata , spulciando tutte le carte dell’Archivio.
Nulla, silenzio, nessuna nota, nessun nome che potesse ricordare la vita di Donna Vittoria. I due uomini sembravano cancellati dai libri. Cominciavo a pensare che il dubbio di Donna Vittoria era l’unica realtà da accettare con pacatezza senza scomodare l’eternità.
Archiospedale, Manziana Busta 965, Busta 980, continuavo a consultare tutti i documenti ma niente, niente.
Poi come una staffilettata quella noticina: un certificato di morte di una certa Donna Vittoria, bellissima donna di Manziana, morte per opera di malevolo veleno. Ed accanto come un commento, un resoconto del funerale. E mi ritrovai davanti il dolore di Messere Giovanni, e di Messere Petruccio al quale fu ordinato un monumento funerario di ferro. Al padrone della ferriera e padrone del cuore della moglie!
Non mi riusciva di capire nulla, ma una cosa era certa Donna Vittoria non era morta di crepacuore, per troppo amore ma per veleno.
Ma chi l’aveva avvelenata!?
Non ebbi il coraggio di svelare alla vocina questa scoperta. Il fantasma restò esente da questa contaminazione della verità. La tenni soltanto per me, e del resto certe verità possono essere accettate soltanto di vivi. Almeno le illusioni dei defunti bisognerebbe rispettarle.
La domanda non era più chi l’aveva amata di più, ma chi l’aveva uccisa.
Il marito, il nuovo amore. Il dolore di entrambi era composto nelle carte ma chi poteva scandagliare i loro animi.
Ma a chi serviva quella morte? E perché fu tenuta nascosta la verità. Uno dei due avrebbe dovuto capire il senso di tutto e mettere in subbuglio tutto per farla venire a luce e condannare il colpevole. Invece niente, nelle carte della questura di allora nessuna denuncia, niente. Soltanto quel monumento funerario implacabile, enorme.
Donna Vittoria mi aspettava tranquilla ogni mattina, sulla stessa sedia. Ma io facevo le ricerche lontano, in una stanza diversa. Fino a quella richiesta improvvisa.”Signora resti in archivio di notte.
Forse di notte riusciamo a trovare qualcosa… Forse il buio, così simile alla mia dimensione può svelarci di più”
Accettai questa macchinazione non saprei dire perché.
Così mi intrufolai nel bagno dell’archivio e mi apprestai a passare la notte tra quelle mura magiche.
Notte incantata a S. Ivo, tra quelle carte polverose, tra le stelle nel cielo del chiostro, immersa in un silenzio totale.
Poi li vidi, due uomini che parlavano con concitazione. Quasi stringevano un patto.
Erano loro, Messere Giovanni e Messere Petruccio. Evocati dalle mie malie, si erano incarnati nell’immagine più odiosa possibile: l’immagine di un accordo tra i due. Li sentii parlottare.
“Lei deve sbagliare, possibile che non riesci a farla sbagliare?”
“Non riesco perché…” Tra i due il vero dramma era nel cuore di Petruccio.
Così indeciso, quasi balbettante. Che più si asteneva dall’inganno e più doveva confessare a se stesso un sentimento verso la donna.
“Ma non puoi prendere l’eredità senza che lei sbaglia?”
“No, no come te lo devo dire ?!C’è una clausola nel testamento dei genitori: il marito ne verrà in pieno possesso soltanto se la donna si macchierà di colpa, ad esempio un adulterio, un tradimento. Sei in mio potere Petruccio, se non riesci ad ingannarla, ti distruggerò”.
Forse anche per una donna del duemila era una scoperta troppo crudele. Mi tappai le orecchie, non volli sapere, sentire di più.
Chi dei due si macchiò di quella odiosa colpa: Messere Giovanni, ormai rovinato negli affari, per ereditare la dote cospicua della moglie o Messere Petruccio incapace di circuirla perché innamorato ma obbligato dalle minacce a concludere comunque la situazione. Ma perché non dirle, confessarle tutta la verità.
Non si può sfidare il tempo, la morte, il segreto delle morti può rivelare una realtà ancora più amara.
Ed io mi sentivo schiacciata da cosa? Da una noticina su un a busta dell’Archiospedale. Che pure poteva non significare nulla. Magari non era la stessa donna. Forse era un errore. Restava a battere nelle mie tempie, soltanto quella parola veleno. Un veleno che s’era impossessato di me, che avevo osato sfidare il mistero dei secoli.
Mi accostai a Donna Vittoria nella sua sedia vicino al libro. Ero in apprensione e le mentii. ”Nulla, non ho incontrato nulla in questa notte infernale nell’Archivio .Non si possono svelare i segreti del mondo, così su poche carte sgualcite, senza poter sapere, approfondire. Chi sono io per sfidare l’eterno?”
“Io resterò così sola col mio veleno?”
La frase mi scosse fino al gelo dei nervi:
“Quale veleno, di quale veleno parli?”
“Fui io a chiedere di avvelenarmi, ad una infermiera, quando seppi che sarei rimasta malata, che avrei rappresentato per entrambi un peso .Che era finita ogni illusione, ogni dolce inganno.
L’eredità erano pochi spiccioli, avevo speso tutto per salvare mio figlio dal duello, ma inutilmente. Avevo speso tutto per salvare la figlia dalla cecità.
Ma chi dunque dei due mi pianse di più?”
Ma ormai ero lontana, lontanissima dall’Archivio, lontanissima da Donna Vittoria.
La luce dell’alba nell’archivio illuminava la verità del giorno. I segreti dei fantasmi si rinchiudevano per sempre in quelle carte. Dove non avrei mai più cercato nulla.
Nessuno può scardinare l’eternità, capire i risvolti di poche note di inchiostro rosso su fogli ingialliti dal tempo. Ero libera dalla fascinazione di quel viaggio diabolico che ti trascina agli inferi senza svelarti il senso di nulla.
L’alba mi aspettava fuori.
Roma era bellissima e Piazza Navona odorava già di pasticceria.
Le statue sprizzavano un acqua scrosciante, limpida che mi sembrò lavare tutta la polvere della notte.
Anna Manna
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