La leggenda di Kunta Kinte spiegata da Uriel

Esistono dei luoghi comuni che sono duri a morire, specialmente nella mente dei settantisti. Per il settantista ci sono sempre due fazioni, “A” e “B”, una delle quali ha ragione e l’altra ha torto. Ma se anche la fazione che ha ragione avesse dei torti, sarebbe sempre… colpa di quella che ha torto.
Uno degli esempi di questa dialettica é quella della schiavitù dei negri negli USA (molto buffamente, il maggior numero di schiavi fini’ nel sudamerica, che veniva spopolato e riempito nuovamente di gente presa dall’africa e da altri posti.)(1)
La tesi dei settantisti fu la seguente: tutte le colpe sono dei bianchi, tutti i costi furono dei neri, solo i bianchi si arricchirono, i neri ci rimisero e basta.
A sostegno di questa cosa uscì un libro, negli anni 70, dove si narrava l’immaginaria storia di un certo Mandinko di nome Kunta Kinte (Borghezio sa inventare nomi africani migliori, ma Alex Haley non conosceva Borghezio), il quale racconta di quale vita felice conducesse nel suo villaggio (un pelo arcaico, sì, ma e’ tutto folklore) quando improvvisamente arrivarono i bianchi a rapirlo per farlo schiavo.
Questo evento, il rapimento, é la summa di tutta una leggenda creata negli anni 70 da un movimento di personaggi “radicali”, i quali volevano dire alcune cose, fra le quali “la colpa e’ tutta dei bianchi”.
Peccato che le cose non stessero esattamente così.
Nessun nero fu rapito dai bianchi in africa per essere portato nel nuovo mondo. Essi furono comprati.
Essi furono comprati significa che esisteva ed era fiorente un mercato degli schiavi in tutta l’Africa, mercato che era in grado di soddisfare la richiesta interna PIU’ la richiesta enorme del mondo colonlaie.
I neri che partivano dall’africa per le americhe erano gia’ schiavi, schiavi per via delle leggi che vigevano nella totalita’ delle nazioni africane dell’epoca. I bianchi andavano a comprare gli schiavi nei mercati ove essi venivano venduti: la riduzione in schiavitù e la cattura dello schiavo NON erano affare dei bianchi.
Non ci fu, insomma, nessun Kunta Kinte catturato e rapito da una pattuglia di bianchi in giro per l’africa, Kunta Kinte fu ridotto in schiavitu’ dai suoi connazionali (per questioni di guerre tribali, per questioni di casta, per questioni di debiti, per millanta ragioni insite nelle culture tribali locali) e poi, semmai venduto ai negrieri bianchi.
Il suo destino sarebbe stato migliore se anziché venire venduto ad un negriero africano? Non si sa, la cosa certa é che il PIL delle colonie fosse superiore al PIL africano se ragioniamo nel breve termine.
Nel lungo termine, Kunta Kinte ci ha guadagnato: se osservassimo i discendenti di Ubongo Malingo (nome qualsiasi quanto Kunta Kinte), catturato lo stesso giorno di Kunta Kinte e venduto allo stesso mercato di schiavi, probabilmente non otterremmo nessuno che abbia potuto emanciparsi, studiare, diventare uno scrittore di successo.
Indubbiamente, il sistema schiavista americano era un sistema infame, quanto tutti i sistemi schiavisti. Era un sistema basato sulla razza, esattamente come lo era il sistema schiavistico africano, con la differenza che anziché di razza si parlava di tribù.
Allo stesso modo, un discorso di risarcimenti é piuttosto fumoso: é vero che gli schiavisti bianchi ci hanno guadagnato, ma é vero che gli schiavisti neri, in Africa, ci hanno guadagnato.
In poche parole, non é impossibile che i discendenti del vicino di casa di Kunta Kinte abbiano in tasca i soldi derivati dalla vendita di Kunta Kinte al mercato.
Ora, tutto questo di per sé non é una novità. Che non ci siano mai state razzie di schiavi in Africa, ma solo acquisti di schiavi, é testimoniato dai brogliacci delle compagnie coloniali come quella olandese, francese, inglese, svedese. Del resto attribuire solo alla domanda di schiavi la paternità del fenomeno é assurdo: non ci furono (o furono pochissimi in percentuale) schiavi dall’India, nonostante fosse una colonia inglese, non ce ne furono dall’Indocina e da tutte le altre colonie.
Lo schiavismo si concentrò laddove c’era offerta di schiavi, e non soltanto a seconda della domanda. Fu l’offerta, e non la domanda, a concentrare lo schiavismo sull’africa.
La novità consiste nel fatto che, come capita spesso, sfruttatori e sfruttati, non stanno sempre divisi perfettamente fra due barricate.
E’ possibile fare un’analisi di mercato dal punto di vista della domanda/offerta?
Cosa sarebbe successo, cioé, se sui mercati africani degli schiavi non ci fosse stata un’offerta di milioni e milioni di schiavi africani?
Il “what if” nella storia e’ abbastanza difficile, ma possiamo fare due ipotesi:
Una crescita del valore della manodopera agricola nel sul degli USA, con conseguente immigrazione dall’europa o da altre zone del mondo, come successe coi cinesi ai tempi della corsa verso il West.
Un afflusso di schiavi da altre zone del mondo, ammesso di trovarne , e ammesso di poterli usare senza sanguinose rivolte
Una delle domande cui si risponde poco riguardo allo schiavismo americano é “perché ci furono così poche rivolte”.
Uno schiavismo tutto sommato più tenue, come quello Romano, causava rivolte su rivolte. L’intera storia di Roma ne é costellata, da quella di Spartacus a quella di Heliopolis; in Sicilia vi fu una rivolta di schiavi che durò 40 anni di fila, per tutto il medioevo le classi servili si ribellavano e si rivoltavano in continuazione, unendosi ai moti ereticali.
Solo negli USA fu possibile portare milioni di africani con un numero di rivolte limitatissimo e sporadico, con un carattere di limitatezza eccezionale.
La ragione di questa quiescenza é molto semplice: gli africani venivano comprati quando GIA’ schiavi, cioé con vincoli culturali che li sottomettevano essi stessi alla schiavitù.
Tale cultura non era presente in altri luoghi; é vero che anche in India esistono le caste e in tutto l’oriente esisteva la schiavitu’, c’e’ pero’ da dire che non esistevano I MERCATI degli schiavi, e quindi non esisteva un business gia’ formato e strutturato.
In Cina, Indocina, India e altri luoghi sarebb stato DAVVERO necessario andare a rapire la gente e ridurla in schiavitù, secondo meccanismi sociali e culturali che NON erano propri di quelle culture, cui probabilmente quei popoli NON si sarebbero assoggettati o avrebbero cercato di ribellarsi, vedi alla voce “Boxer”.
Diversa era la questione dell’Africa.
L’africano che arrivava negli USA pensava già a se stesso come schiavo, lo era già in patria, lo era secondo le proprie usanze e secondo la propria cultura. Una catena culturale posta nella madre patria, che permise di ammassare milioni di schiavi senza avere un centesimi delle rivolte romane, e faccio notare che i romani reprimevano le rivolte in maniera -assai più crudele-.
Per questa ragione non si ribellava: era già convinto di essere uno schiavo, ed era già impregnato della cultura che lo voleva schiavo. Kunta Kinte era già stato fatto schiavo dalla sua gente, e quel che é peggio, pensava che le cose dovessero andare così. Finire in mano ai bianchi era solo una logica conseguenza, una conseguenza dell’essere schiavo.
Questo é il motivo per il quale rifiuto di porre attenzione a tutte quelle dialettiche tipo black panther, o roba simile, per le quali se i negri sono negri allora é tutta colpa dei bianchi.
I bianchi hanno sicuramente approfittato del fatto che i negri fossero negri; essere negri, però, era un lavoro tutto loro.
Lavoro che svolgevano con entusiasmo e dedizione.
Scritto da: Uriel – http://www.wolfstep.cc

(1)altrettanto buffamente non ci sono movimenti come quello di M.L.King in sudamerica, dove il meltpot ha raggiunto livelli mai visti in alcun altro luogo. Con ogni probabilità il movimento pro-black statunitense deve essere considerato un effetto collaterale di una cattiva integrazione, e non un fenomeno storico a sé.

Giovanna Canzano

da Altra Calcata

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