di Maria Antonietta Pirrigheddu

«Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?»
La risposta non piacque alla regina di Biancaneve, che conosceva bene l’attendibilità del suo servitore. E infatti, secondo alcune versioni della fiaba, la strega lo ruppe in cento pezzi: a volte la verità è davvero difficile da mandar giù!
Ma quanto sono affidabili, invece, gli specchi che inconsapevolmente interroghiamo tutti i giorni?
Non stiamo parlando di quelli che pendono dalle nostre pareti – anche se pure loro avrebbero molto da dirci, se riuscissimo a osservarli davvero. Parliamo piuttosto degli specchi che continuamente ci vengono incontro, travestiti in mille modi, dei quali non sospetteremmo mai un riflesso “magico”. Si tratta degli altri.
Sì, gli altri, il nostro prossimo, tutte quelle persone che incrociano la nostra strada e che senza nemmeno saperlo ci rimandano un riflesso della nostra immagine. A volte distorto, a volte talmente evidente che ci verrebbe voglia di… mandarli in frantumi.
Lo specchio è il giudizio che gli altri danno di noi. E viceversa.
Lo specchio siamo noi stessi… Quasi sempre diciamo degli altri, nel bene o nel male, quel che non possiamo dire di noi.
Due sono le sue facce: una riflettente, l’altra – più nascosta – oscura. Perché siamo riflesso e oscurità.
A pensarci bene, noi non mostriamo quel che siamo davvero: offriamo solo una superficie (e quindi un’immagine superficiale). Una facciata che subisce spesso delle variazioni, perché un momento ci sentiamo e appariamo in un modo e un istante dopo ci presentiamo del tutto diversi. Ah, l’incostanza!
Il problema sta nel fatto che a volte neanche noi sappiamo come siamo realmente: a furia di mostrarci per quel che non siamo, perdiamo l’identità. E’ uno sforzo continuo di sembrare migliori di quel che si è. Ecco le due superfici dello specchio. Poco è quel che si manifesta nella sua luce: siamo portati a nascondere sia a noi stessi che agli altri i nostri difetti e lacune, e implacabilmente li attribuiamo al prossimo. Chi inventò la metafora della trave e della pagliuzza sapeva quel che diceva.
Così, sebbene ci condizioni moltissimo (più di quanto vogliamo ammettere), il giudizio che si dà di noi ha assai poco valore, poiché dipende da quanto mostriamo, che non sempre corrisponde al vero modo di essere. Ci piace apparire in certo modo, ostentiamo di essere chissà chi, facciamo sfoggio di sapere chissà cosa… e magari proprio in questi aspetti veniamo più aspramente criticati.
Il timore che gli altri ci vedano per come siamo ci sconvolge. Eppure spesso il nostro vero io è molto più apprezzabile di quello che viene esibito. L’apparenza va sempre a nostro danno. Anche perché se ci presentassimo senza veli di falsità, sarebbe più facile incontrare qualcuno che possa darci una mano a migliorare, oppure che voglia prendere esempio dai nostri lati positivi. Ma se offriamo soprattutto illusione, a chi mai potremo giovare?
D’altronde, nella nostra sete di opinioni favorevoli, non ci rendiamo conto che quel che palesiamo di noi viene interpretato in modo diverso dall’uno o dall’altro, così che i giudizi saranno comunque i più disparati. Ciascuno osserva la realtà con occhi differenti!
Eppure non si può distinguere lo specchio dal suo riflesso: ci vediamo sempre come vogliamo vederci, nel bene e nel male, nonostante da qualche parte alberghi in noi la coscienza che le cose stanno in modo diverso.
L’immagine che abbiamo di noi stessi è spesso solo una supposizione. La sua inconsistenza – che vagamente percepiamo – ci conduce all’insicurezza, all’indecisione, al dubbio. La serenità, invece, ha bisogno della consapevolezza di essere.
Perciò dovremmo porre qualche domanda a quella figura che appare nel nostro specchio personale: chiederle cosa c’è oltre la superficie, nell’interiorità; tentare di scoprire quel che non trapela dal riflesso. Chiedere a lei cosa siamo, e perché siamo così; Interrogarla su ciò che vorremmo essere. Perché in fondo sappiamo che non è la sembianza che conta.
Dovremmo renderci conto che anche il nostro specchio è uno strumento magico, come quello della regina di Biancaneve, e provare come lei a interpellarlo. Potremmo riuscire a scoprire qualcosa della nostra bellezza, e non solo di quella esteriore. Ma quante volte, guardando la nostra immagine, non ci riconosciamo?
Il consenso altrui arriva quando riusciamo ad essere noi stessi. Ma per ottenere tutto ciò, per ottenere che possano vederci per ciò che siamo, è necessario che noi per primi giungiamo alla verità. Se non siamo capaci di identificarci da soli, cosa possiamo pretendere dagli altri?
Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia… Lo specchio infatti, come tutti gli oggetti magici, è soggetto ad alcune leggi che spiegano come usarlo e, contemporaneamente, ne svelano l’utilità.
La prima di queste leggi invita a considerare che cosa, nel nostro prossimo, ci irrita e ci disturba. Possiamo essere certi che ciò che degli altri suscita la nostra rabbia è qualcosa che ci dà fastidio di noi stessi, e che magari non vogliamo ammettere. In pratica vediamo con stizza e critichiamo con durezza nel prossimo ciò che non riusciamo a tollerare di noi stessi. Un meccanismo difficile da ammettere e da applicare, che però sussiste anche se lo neghiamo. Le leggi universali, infatti, non hanno bisogno del nostro consenso per essere valide.
La seconda Legge ci invita a considerare le nostre reazioni di fronte alle critiche altrui. Se ci sentiamo offesi e oltraggiati, se la critica ci ferisce, è opportuno chiederci quale sia il punto dolente in noi che è stato toccato.
Ma se reagiamo con un sorriso o un’alzata di spalle, se non ce ne sentiamo sfiorati, ci troviamo di fronte alla terza Legge: non si tratta di un nostro problema, ma di un problema della persona che ci sta di fronte. E’ l’altro che sta proiettando su di noi ciò che lo irrita di se stesso.
L’ultima Legge riassume le altre tre, ma ha un aspetto più benevolo. Ci ricorda che riusciamo ad apprezzare e ad amare nel prossimo ciò che in qualche modo è già presente nel nostro modo di essere, ciò che già abbiamo scorto in noi almeno in nuce. Così nell’altro ci riconosciamo, proprio come in uno specchio, perché riflette ciò che davvero siamo. E in quel momento sentiamo di essere un tutt’uno con lui, almeno per un breve scorcio di tempo.
Si dice che infrangere uno specchio porti sfortuna, addirittura sette anni di guai.
Sarà solo una diceria nata quando questi oggetti costavano tanto, e romperne uno era un gran danno? Forse no. Perché dietro questa superstizione si cela, come al solito, un barlume di saggezza.
Lo specchio, se integro e terso, rivela la nostra più alta essenza: è attraverso il riflesso esteriore che si può manifestare nel mondo la Radice dell’anima. Rompere lo specchio, perciò, significa mandare in frantumi la nostra parte migliore; quella che, dopo essere stata costruita e ripulita con fatica, rifletteva la luce. E’ l’ingresso nell’ombra, l’abbandono di qualcosa di prezioso. Uno specchio in frantumi rimanda un’immagine interrotta, frammentata e distorta. Non mostra più i Mondi Alti che portiamo dentro.
Ma c’è sempre la possibilità di aggiustarlo, di porre fine ai guai… dopo sette anni di pellegrinaggio alla ricerca del perduto Sé. Ovviamente i sette anni sono anch’essi simbolici: rappresentano quel periodo – più o meno lungo – che impieghiamo a ricomporci e a riconoscerci nuovamente. Il tempo necessario a ritrovare quel che di luminoso dimora in noi.

Maria Antonietta Pirrigheddu
www.lunadivetro.it

Categorized in: