di Maddalena Rispoli

Le nuvole si addensavano basse e minacciose sui tetti dalle tegole rosse di Borgalino e sembrava volessero scendere, con una sorta di rabbia mista a dolore sulle casette abbarbicate ai fianchi della collina che dominava la vallata su cui radici senza tempo si affondavano come in un sipario strappato. Si alzò all’improvviso un vento forte che sollevava da terra polvere e rimasugli di paglia sfuggita dai sacchi che i contadini avevano trasportato, il mattino, sulla groppa dell’asino sapiente di suo per la strada da percorrere e della sorte che la vita gli aveva riservato senza alcuna misericordia.
Il vicolo appariva deserto e mulinellante a mezz’aria se non fosse stato per Fra’ Cosimo che, imperterrito, con i suoi sandali di cuoio duro percorreva a passo svelto il selciato per recarsi alla Chiesa degli Agonizzanti dove era atteso per piangere un morto fresco fresco di giornata. Sembrava quasi un uccello con quel suo mantello marrone svolazzante sulle spalle e lo sguardo fiero e penetrante che fendeva l’aria come in atto di sfida. Egli passò davanti alla casa di Arcangelo Zappaterra e si ricordò che vi si sarebbe dovuto recare l’indomani di buona ora. Tanto valeva bussare subito. Gli aprì l’uomo che si mostrò sorpreso ma non tanto da non invitarlo prontamente ad entrare. Il frate scese i tre scalini che immettevano nell’unica stanza la quale mostrava nelle mura rugose e crepate la somiglianza più a una topaia fumosa che a una casa. Nonostante tutto però, si potevano notare pulizia e ordine che solo una mano femminile amorosa poteva dare: le tendine erano profumate di bucato, il tavolo di legno senza un filo di polvere, la tenda, che introduceva nel camerino di decenza mostrava rammendi travestiti da ricami per nascondere le toppe, il pavimento di mattoni rossi appariva come lustrato di recente, una pentola bolliva allegra sul fornello a carbone posto in fondo alla stanza. Maricchia si mise il fazzoletto sdrucito in testa e si precipitò a baciare con grande devozione la mano del Frate che però la scansò quasi infastidito.
La donna non se ne ebbe a male, tutte conoscevano il carattere scorbutico dell’uomo anzi di rimando gli offrì una seggiola impagliata che cominciava già a stempiarsi ai lati denunciando gli anni che trascorrevano rapidi e senza pietà; guardò il marito e le scodelle già pronte per la cena. Egli comprese al volo:
“Volete favorire con noi? Quello che c’è: pane e minestra di cucuzza, non è molto anzi comu si dici” Di sali minticcinni na visazza, conzala comu vua: sempri è cocuzza. (di sale mettine anche una bisaccia, preparala come vuoi:è sempre zucca) Lo sapete, povera gente siamo però onesti e puliti, Maricchia poi fimminona di casa è. Per lei la pulizia viene prima di tutto puru di mia!” Esclamò l’uomo con una punta di malcelato orgoglio.
Il frate sembrò quasi non ascoltare e ribatté con decisione:
“Le devozioni le dite?”
“Sissi, Voscenza. Poveri ma timorati di Dio siamo in questa casa!” Risposero in coro facendosi lestamente il segno della croce.
“Allora sono passato perché vi volevo dire che la Baronessa Altomonte ha bisogno di una donna pulita per preparare la villa di campagna ai pizzi di Giummello e di un uomo per sistemare il giardino. Io a voi due pensai, certamente cattiva figura non me la farete fare. Domani presentatevi a Palazzo per pigliare ordini e che la Madonna vi accompagni.”. Così dicendo si avviò alla porta tra una litania di benedizioni e ringraziamenti lamentosi che non finivano più. Uscì e sparì tra le stradicciole con la velocità di un lampo.
Ben presto il vento si cominciò a trasformare in pioggia dapprima sottile, poi sempre più sferzante e grossa e cominciò a danzare sul selciato con un tintinnio rapido e martellante. Era una pioggia buona, di quella che puliva le strade dai residui del passaggio delle pecore, dei buoi e dei cavalli sempre pronti a lasciare ricordi maleodoranti in terra. Sì, era decisamente una pioggia santa per i campi che pativano la sete ormai da troppo tempo a danno del raccolto, pena per i contadini che da sempre erano costretti a litigare con i padroni della terra avidi di riempire i loro magazzini senza alcuna fatica. Il buon Dio aveva voluto così: da una parte i comandanti e dall’altra i sottoposti, da una parte quelli che il cappello lo portavano in testa e dall’altra quelli che la coppola se la dovevano sempre levare, da una parte quelli che la schiena la tenevano dritta e dall’altra quelli che la dovevano tenere sempre china, da una parte quelli che potevano alzare gli occhi verso il cielo e dall’altra quelli che dovevano guardare la terra per ricordare che la loro vita cominciava e finiva in una zolla. In Viale Regina Margherita, non circolava anima viva, tutti si erano rintanati nelle case con una rapidità impressionante come se l’acqua piovana fosse stata bollente, pronta a ferire le carni.
Lo speziale sollevò le tendine di merletto del salotto buono e guardò con scarso interesse lo spettacolo che gli si offriva davanti agli occhi: un cielo scuro che si abbassava rapidamente sugli alberi in movimento a causa del vento e grosse nubi pregne di pioggia pronta per essere scaricata con violenza sul mondo sottostante. Pensò che forse gli uomini erano stati malvagi e dovevano essere puniti per la loro cattiveria scontando tutti i peccati in un paese in cui dilaniarsi con le chiacchiere era dovuto e trascorrere giornate inutili era passatempo per coloro che, baciati dalla fortuna , erano nati ricchi.
“Alfonsina” chiamò con voce baritonale.
Subito si materializzò la serva di casa biascicando un: “Cummannati, Voscenza”.
“Lesta, cappeddu, mantò e vastuni” Comandò.
“Cu ssu tempu nesci, Vossia?” (con questo tempo esce, vostra signoria?). Litaniò Alfonsina.
“ Muta, scimunita!” Di rimando fu la risposta. Indossato il tutto e sbattendo la porta, l’uomo uscì in quella che ormai era una tempesta in piena furia: gli alberi del Viale si urtavano gli uni con gli altri con una violenza che sembrava volesse spezzarli come grissini, il vento sibilava quasi ad assordare ed entrava nelle narici con una forza che mozzava persino il respiro, ai lati della strada si erano formati dei ruscelletti in piena che provenendo dalla parte alta del paese dove già diluviava, trascinavano con impeto fogliame, rami e tutto ciò che trovavano sulla loro via facendo ribollire il tutto insieme a fanghiglia raccolta per ogni dove, i cani erano spariti come gli uomini, ognuno imbucato in un riparo insieme al terrore che si portava indosso.
Lo speziale svoltò l’angolo della via che si apriva alla sua destra e, dopo una breve salita, bussò con il pomo del bastone alla porta che mostrava una forte vecchiezza; dall’interno si udì una voce squillante:
“ Cu è?”
“Apri, Sarina ” rispose l’uomo ma la sua voce fu portata via dal vento. Appena la donna ebbe aperto, assieme allo speziale entrarono le forze della natura tutte quante scatenate con la medesima violenza.
“Voscenza, cu ‘stu malu tiempu. S’accomodasse, asciugatevi, pigliate ristoro cu ‘na picca di brodu caudu.” Esordì la donna visibilmente sorpresa ed emozionata per la visita fuori programma, cercò di riassettarsi la vestaglietta che mostrava il corsetto ben ripieno di un seno sodo e molto abbondante, talmente abbondante che traboccava quasi dalla stoffa che lo abbracciava.
“Quale brodo e brodo, per te venni in questa sera di lupi. Eri davanti agli occhi miei con un’insistenza impossibile, mi chiamavi ed io non potevo più resistere a stare lontano” Intanto con una sorta di febbrile eccitazione, si era impadronito del corpo di lei e, spogliandola, la baciava sul collo, sulle braccia, sul seno, lasciando dietro ad ogni bacio una scia di saliva che brillava ai guizzi del fuoco, identica a quella delle lumache che strisciano e segnano sul loro percorso. Non poté attendere oltre e si buttò sul pavimento trascinandola con sé con una frenesia che montava sempre più e non si raffreddava anzi incalzava facendolo sbuffare come un mantice di fucina.
Essa lasciò fare docile e sottomessa, come sempre, offrendo la sua carne ai desideri del padrone che parlava, parlava di cose sconnesse e senza senso.
“Regina ti voglio fare, un castello ti comprerò, gioielli, servitù, tutti ti dovranno riverire…”.
Non riuscì a terminare la frase perché uno scricchiolio, dapprima lieve poi sempre più violento si udì sopra le loro teste. Sarina urlò ma lo speziale preso dalla sua furia ormai incontrollabile le tappò la bocca con la mano continuando fino a quando lo scricchiolio non divenne un tonfo e si abbatterono sui due stesi sul pavimento legna, tegole, travi, calcinacci e quanto si trovava sul tetto che la forza della tempesta aveva scardinato e distrutto come un fuscello.
Rimasero lì, inchiodati così com’erano, lei sotto e lui sopra, nudi come due rami alla caduta delle foglie, privi d’innocenza e pieni di voglie ancora inespresse negli occhi. L’indomani furono trovati e tutto il paese inorridì per la fine dello speziale che era morto nelle mani di una fimminazza, l’esecrazione fu generale ed il parroco evitò la funzione in Chiesa e la terra consacrata alla donna artefice di tanta tentazione e dannazione per l’uomo che non aveva resistito al peccato di lussuria, punito dalle forze divine in quanto i due si erano accoppiati in terra come bestie mentre se lo avessero fatto in camera da letto si sarebbero salvati poiché lì il tetto aveva resistito. Non avendo eredi, tutti i beni dello speziale andarono alla Chiesa come segno di riparazione seppur tardiva ed ebbe la sua tomba nel Cimitero del paese mentre Sarina finì in terra sconsacrata in una buca priva persino di croce.

Maddalena Rispoli

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