di Antonia Chimenti
Dal punto di vista storico la parola ”olocausto” evoca un tragico episodio di follia politica che portò alla persecuzione e allo sterminio degli Ebrei.
Il ricordo viene costantemente rinnovato attraverso celebrazioni ufficiali, studi approfonditi, pubblici dibattiti, divulgazione di massa, alla televisione, al cinema, nella stampa, nell’editoria, a scuola e nelle famiglie.
Il fenomeno è tangibile soprattutto qui, nel Nord-America, dove la comunità ebraica ha assunto posizioni di leadership in vari ambiti.
Tuttavia esiste un altro tipo di olocausto sottile, sotterraneo, capillare e progressivo: l’olocausto dell’intelligenza, del pensiero; in altri termini l’olocausto di ciò che caratterizza l’essere umano.
Questo olocausto comincia in famiglia nei rapporti interpersonali -marito/ moglie, genitori/ figli-, e si estende successivamente alle comunità più allargate, ivi compresa la scuola, dove generalmente si mira a formare delle “teste ben piene” piuttosto che delle “teste ben fatte”.
I margini lasciati alla riflessione, all’elaborazione personale sono sempre più ristretti nella scuola e nella vita.
“I ritmi dinamici della vita moderna” sono un confortevole alibi per cedere il posto a deliranti operazioni collettive, che celebrano ciò che esiste già, avvallano la realtà alla rinfusa, senza distinzioni di valori, a scapito di ciò che potrebbe rappresentare un miglioramento. Se nelle relazioni interpersonali vige la regola del “chi piu`sa deve tacere”, nella società vige quella del “politically correct”.
In questo contesto non desta meraviglia il fatto che la genialità sia “punita”, sia considerata una malattia da curare, per ricondurla agli standards. Un’esemplificazione è fornita dalla diagnosi effettuata “a posteriori” sul “cervello” di Michelangelo, il quale, secondo l’opinione di un eminente scienziato, sarebbe stato affetto da “autismo”.
Perchè? Perchè si dedicava in maniera esclusiva alla sua unica passione: l’arte.
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