Screenshot 20240511 143233 Word - L’orizzonte della notte di Gianrico Carofiglio Recensione

Una quarantenne benestante uccide con un colpo di pistola al cuore l’ex compagno della sorella gemella, che si è tolta la vita da poco. L’avvocato Guerrieri ne assume la difesa. Mentre i giudici sono riuniti per emettere la sentenza, lui rievoca, insieme alla vicenda delittuosa, anche alcuni fatti della propria recente storia personale, e si abbandona a molteplici considerazioni sul senso della vita, sul tempo che tutto trasforma e porta via, sull’amore, sulla giustizia. È L’orizzonte della notte, l’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio, per Einaudi, che offre anche, a margine, utili informazioni sul funzionamento del sistema giudiziario italiano, sulle indagini del PM, sulle investigazioni dell’avvocato difensore, sulle strategie difensive, sulle consulenze degli specialisti: tutto quanto notoriamente appassiona i voraci lettori di legal thriller. Ma questo, come si è capito, non è solo un legal thriller.
È anche un catalogo di intense riflessioni di stampo esistenzialistico e generazionale che l’autore affida al proprio personaggio. Nelle prime pagine se ne trova una molto poetica sulle aule vuote, abbandonate: «Quel posto diventa d’un tratto… diverso. […] L’odore di legno consumato e di polvere giace pesante nell’aria e tu ti chiedi perché fino a un attimo fa non lo sentivi e ora invece sì. […] La verità è che nell’aula piena certi segni sono invisibili». È l’aula della Corte d’assise che giudica sul reato attribuito alla cliente dell’avvocato Guerrieri. La descrizione di quel luogo e le impressioni ad esso connesse ci giungono familiari, anche se non siamo avvezzi ai tribunali. Quell’aula vuota ci ricorda un altro spazio, meno solenne, che si svuotava all’improvviso intorno a noi al termine delle lezioni, quando restavamo per ultimi a racimolare le nostre cose e ci guardavamo intorno come fosse la prima volta. Quel luogo finalmente ci si rivelava nella sua segreta essenza e cominciava a manifestarci caratteri prima trascurati: disegni osceni sulle pareti scrostate, iniziali di nomi propri incise sui banchi con la punta della penna, tratti nervosi di gesso sulla lavagna di ardesia. Era l’aula in cui avevamo appreso il teorema di Ruffini o la tavola periodica degli elementi, sbadigliando come il caos di Esiodo. Dopo il suono dell’ultima campanella, gli arredi abitualmente inerti e smorti emanavano odori, producevano vibrazioni, suoni, quasi voci. Erano vivificati e pervasi dallo spirito del luogo.
Immediatamente aderiamo al giudizio che Guerrieri esprime su certi tipi umani, che anche a noi sembra di conoscere. Anzi, che conosciamo e frequentiamo abitualmente. Quelli che non rispondono mai subito ai messaggi lasciando trascorrere ore o giorni: «Un modo per esercitare una piccola, meschina forma di potere». Ben detto, avvocato! Quelli che arrivano sempre in ritardo. Quelli che non ci ascoltano mentre parliamo, e ci costringono a ripetere più e più volte una certa informazione, mentre ci rovesciano addosso parole sorde. Al lettore viene voglia di correre ad abbracciarlo, Guerrieri. E di dirgli: “Non sai come ti capisco”. Poi c’è il disagio generazionale. Accorgerci che ormai quasi tutti i nostri colleghi sono più giovani di noi suona come un messaggio forte e chiaro: è tempo di andare, di lasciare spazio ad altri. E non solo i colleghi, per la verità. A un certo punto della vita siamo costretti a constatare che il nostro medico di famiglia è più giovane di noi, il fruttivendolo, il sindaco, quello fermo al semaforo davanti, sono tutti più giovani di noi…
C’è poi la cialtronaggine di chi riveste ruoli importanti: il pubblico ministero Consoli non conosce bene una norma basica del codice. «Capita, a dire il vero», è lo sconsolato commento di Guerrieri. Capita a tutte e a tutti di avere a che fare con persone preposte alla cura di interessi collettivi che sono solo degli inutili idioti con un ego grandioso. Magari più giovani di noi, per giunta! In più patiamo l’insofferenza per certe «formule stereotipate, tautologiche e insignificanti», che si rinvengono non soltanto negli atti giudiziari. Chiunque nel suo ambito pratichi espressioni ottuse e sclerotizzate non può che constatare la vacuità ipocrita delle consuetudini, delle forme, delle gerarchie del linguaggio settoriale. Guerrieri ha un’idea molto precisa di giustizia e conosce bene le storture del sistema, cui nel romanzo non troppo velatamente fa riferimento. Quando l’avvocato esprime il suo «disagio crescente per quel lavoro, per i suoi armamentari, per le sue liturgie sempre più macchinose» sembra il pupazzo di un abile ventriloquo…
Guerrieri pensa che sia sbagliato sentirsi in colpa, il che non significa non ammettere l’errore e non provare a porvi rimedio, qualora sia ancora possibile. Ma non approva quelli sempre pronti a indossare il cilicio per autoflagellarsi. Lo si capisce leggendo un dialogo con il suo barbiere, Filippo. Certi intermezzi filosofici sono davvero stimolanti. La gran parte scaturisce dagli incontri con lo psicoterapeuta junghiano Carnelutti, che spiega a Guerrieri la necessità di saper riconoscere e accettare la propria Ombra. Uno psicoanalista non impartisce insegnamenti di vita, di solito. Carnelutti deroga a questo principio e regala al suo paziente e ai lettori un monito prezioso: «Tutti noi abbiamo due fondamentali doveri esistenziali […] Mantenerci in vita e in salute. Far sì che la vita sia degna di essere vissuta». La vita ha valore perché ha un principio e una fine: alla sconfortante constatazione dell’eternità del Nulla, Guerrieri oppone un commovente inno alla caducità delle cose.
L’avvocato è un nostalgico e il suo lungo elenco di cose perdute e ritrovate (nello scatolone dei ricordi), per noi boomer è straziante: i Salgari, i Topolino, certi 45 giri, un filarino (nella scatola non ci sta ma il suo ricordo esala da un’audiocassetta di musica classica), la foto con la mamma, uno zaino sdrucito, un quaderno di appunti dell’università. E poi altri ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza: gli sceneggiati televisivi (sceneggiati? Chi usa ancora questo termine?), il Cynar, il flipper, il Subbuteo, il mangiadischi, Tex, le fialette puzzolenti, il Pongo, le raccolte di figurine, la merenda con pane olio e sale (aggiungo una specialità di mia nonna: pane vino e zucchero. Quando mia madre dopo il lavoro veniva a riprendermi, mi trovava ebbra e felice). E poi ancora i formaggini Susanna, la Girella, le caramelle Rossana, il Boxer, il sogno del viaggio alle Hawaii… Guerrieri mostra un’indubbia permeabilità alle suggestioni del passato.
«L’imbarazzo, il disagio sono sempre stati i connotati della mia condizione esistenziale»: l’avvocato è un fratello, un amico, l’avvocato è uno di noi. Ci toglie le parole di bocca, anzi, ce le regala chiare, semplici, immediate, per dire finalmente chi siamo stati e chi siamo. E il suo rimpianto è pure il nostro: «Non avevo mai chiesto che mi raccontassero di loro quando sarebbe stato possibile, e d’un tratto era diventato troppo tardi». Come Guerrieri, sappiamo troppo poco dei nostri genitori, della loro vita prima di noi.
Leggiamo un pensiero imbarazzante che forse ci ha attraversato la mente tante volte in forma preverbale, alogica: in certe occasioni, ci sentiamo incapaci di opinioni davvero autonome, proprio come Guerrieri con l’arte. Il bisogno di appoggiare idee e giudizi a qualche auctoritas che immediatamente li legittimi è una tendenza riconosciuta. Una persona nota, un testo, un articolo di giornale possono bastare a gettare fondamenta di autorevolezza per qualunque teoria. A qualcuno basta il proprio gruppo/partito/ fazione/scuola di appartenenza, e guai a discostarsene.
Sull’uso/abuso di certi vocaboli, non possiamo non convenire con Guerrieri che la cronaca insistita di presunti eroismi è stucchevole, che l’uso retorico della parola “eroe” ci è venuto a noia e ci irrita. Eroe è solo chi «si espone al pericolo per una ragione nobile. Anche andando contro l’istinto di conservazione». E poi sentir chiamare “ragazzi” persone di mezza età, se pure noi lo siamo (di mezza età, non ragazzi), suscita imbarazzo. Nei ragazzi veri, un moto di bonaria ilarità, suppongo.
Bella e condivisibile anche la riflessione sulla scrittura come passione primaria: «Qualcosa che ti riempie la vita e le dà senso. Qualcosa per cui non vedi l’ora di tornare a casa la sera o di svegliarti la mattina. Qualcosa […] che riduce l’effetto del tempo che scorre, che a volte proprio lo sospende».
Condivisibili pure certe idiosincrasie, che riconosciamo come nostre: l’astrologia, i segni zodiacali, l’oroscopo… Sebbene a volte convenga mostrarsi concilianti: una ragazza «con un fisico da pubblicità dei costumi da bagno» val bene la lettura dei tarocchi.
Guerrieri rigetta il «pensiero magico» per il quale uno stile di vita sano garantisce un perfetto stato di salute: «Ammalarsi o non ammalarsi è un dannato fatto di fortuna, una maledetta lotteria». E rigetta pure «l’orribile retorica agonistica della malattia» per la quale chi è guarito ha reagito, ha lottato come un leone; chi non è guarito, dunque, sarebbe un debole o un codardo.
Un lettore molto attento può individuare qualche piccola smagliatura nel tessuto narrativo di questo romanzo, che tuttavia non compromette il coerente sviluppo della vicenda giudiziaria: “There is a crack, a crack in everything, that’s how the light gets in”, dice una canzone di Leonard Cohen citata dallo stesso Guerrieri. Ma questa recensione si è concentrata poco sul legal thriller. Per non guastare il piacere degli appassionati del genere con qualche improvvido spoiler. Ma anche per una precisa scelta di campo.
Quando Guerrieri cita tra i suoi brani preferiti Wish You Were Here e The Sound of Silence la mia consonanza con lui è perfetta e basta ad ammutolirmi, finalmente.
Cristiana Bullita

 

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