Francesca Santucci
L’ULTIMA PRINCIPESSA
(Liberamente ispirato alla figura di Ermengarda)
(Racconto terzo classificato alla settima edizione di
© Philobiblon, Premio Letterario Italia Medievale 2012
organizzato dall’Associazione Culturale Italia Medievale
https://www.italiamedievale.org/)
Bene il mio tempo trascorro in questo piccolo monastero fondato proprio da mio padre (che lo fece riedificare sui resti del precedente per riparare al grave torto di un suo antenato che, ancóra imbarbarito, gli aveva dato fuoco), alternando preghiera, lavoro, assistenza ai poveri e agli infermi, soprattutto dedicandomi con fervore allo studio e alla meditazione, dei testi sacri, degli autori latini, della filosofia e delle scienze naturali. Severa, ma non dura, la regola monastica, non data espressamente a noi sorelle, ma indicata e fedelmente seguìta; pochi e semplici gli obblighi: l’ora et labora (lo stemma del nostro monastero rappresenta proprio la Croce e l’aratro), la stabilitas loci (l’obbligo di risiedervi per tutta la vita) e la conversatio (cioè la buona condotta morale).
La pietà reciproca e l’obbedienza alla superiora, nostra amorevole madre spirituale, regolano le varie occupazioni, imperniate sulla preghiera e sull’esaltazione del lavoro nelle sue forme più varie, manuale, artigiano ed intellettuale, a seconda delle inclinazioni. Dedichiamo sette ore al lavoro e due allo studio, ma dopo il pasto del mezzogiorno abbiamo un breve periodo di ricreazione, durante il quale possiamo chiacchierare e passeggiare in giardino, non ridere o cantare ad alta voce, però, meno che mai le canzoni dei laici. Del resto, qui tutte noi è il raccoglimento che cerchiamo, e solo la preghiera (personale e guidata dai sei uffici liturgici che vengono celebrati ogni giorno) ed il lavoro possono offrirlo, tenendo sempre bene a mente queste piccole importanti regole: che l’ozio è nemico dell’anima, che tutte noi sorelle dobbiamo servirci l’un l’altra con affetto, che nessuna è dispensata dal servizio della cucina (se non per malattia, o per occupazione di notevole utilità da cui si possa ricavare merito maggiore), che a nessuna prenda piacere nel chiacchierare a lungo, e che chi arriva debba essere ricevuto come Cristo medesimo, affinché un giorno egli possa dire: Fui da voi e mi accoglieste come un ospite.
L’edificio non è angusto, le stanze sono costruite sui tre lati del chiostro, al pianterreno ci sono l’ospizio (per accogliere i pellegrini e i mendicanti ed offrire loro cibo ed ospitalità), l’oratorio (destinato alla preghiera e al culto), e la camera penitenziale. Al primo piano si trovano la sala capitolare (dove la nostra comunità si riunisce per alcune volte nel corso della giornata), il refettorio (dove viene osservato il silenzio, come del resto nella maggior parte della giornata), una grande cucina, il dormitorio, e le stanze usate per filare, cucire e ricamare. Tutte noi consorelle dell’ordine (siamo una ventina) dormiamo in un unico grande dormitorio, ma abbiamo anche delle cellette individuali, ove godere di un certo grado di solitudine e di silenzio per studiare e meditare; sono piccole stanze poste ai lati di un corridoio centrale dal quale se ne può vedere l’interno. I pasti sono generalmente due, in inverno solo uno, ma razioni extra sono distribuite nei giorni festivi. Consumiamo pane di mistura, a base prevalente di segale, oppure d’orzo; il pane bianco, cioè di puro frumento o grano, non compare quasi mai sulla nostra mensa, solo, eccezionalmente, in qualche giorno di festa, però abbiamo abbondanza di legumi (fave e piselli) che, seccati, sfariniamo e misturiamo con farina di cereali, e pure adoperiamo nella panificazione. Nel nostro orticello produciamo in abbondanza cavoli e rape, sedano, cipolla, aglio e lattuga, abbiamo anche qualche alberello da frutta, e coltiviamo pure erbe medicinali. Una mucca ed una pecora ci forniscono il latte, qualche gallina ci offre le uova, tra gli animali da cortile c’è anche un’oca, quasi mai mangiamo carne e pesce.I pasti sono semplici e frugali, ma abbiamo ciò che ci necessita, anche una vigna, che coltiviamo con tanto amore, perché l’umile vite è il simbolo del fedele che docilmente cresce all’austera, ma feconda di buone opere, scuola del Vangelo. Secondo l’insegnamento del vescovo Ambrogio:
Nulla è più gradito del profumo della vite in fiore, se è vero che il succo spremuto dal fiore della vite produce una bevanda che nello stesso tempo riesce gradevole e giova alla salute. […]Essa, ad imitazione della nostra vita, prima affonda la sua radice viva nel terreno, poi […] stringe tutto ciò che riesce ad afferrare con i suoi viticci quasi fossero braccia e, reggendosi, per mezzo di questi, sale in alto.
Piantata su un poggio accarezzato dai raggi del sole, la nostra vigna ci regala uve saporose, dalle quali ricaviamo una quantità di vino sufficiente per i nostri fabbisogni interni: per la celebrazione della Messa, per preparare medicamenti, per offrire degna ospitalità, miscelato, a seconda dell’impiego, con acqua, miele, spezie o sostanze aromatiche. E possiamo anche berne a tavola: infatti la Regola stabilisce che possiamo consumarne ai pasti una modica quantità, un quarto a testa. Usiamo il dolce nettare anche in uno dei più intensi momenti liturgici dell’anno, quando la sera del giovedì santo ripetiamo il gesto evangelico della “lavanda dei piedi”: allora si prepara in cucina dell’acqua calda che portiamo all’ingresso del chiostro centrale, dove ha inizio il rito sacro con il canto dei salmi. La badessa si china a lavare i piedi di noi monache, dalla più anziana alla più giovane, secondo l’ordine monastico, poi li asciuga e li bacia. Dopo vengono chiamati i chierici della vicina canonica che fanno il loro ingresso nel chiostro vestiti dei paramenti sacri, con le fiaccole e i ceri accesi, l’incenso e l’acqua santa. Il sacerdote legge il brano del Vangelo con la narrazione del gesto compiuto dal Signore (Giovanni 13,1-6) e tutti insieme ci rechiamo in processione a commentare il brano letto nel refettorio, preparato con tre lunghi tavoli ricoperti di bianche tovaglie ricamate. La badessa fa portare due brocche di vetro contenenti l’una una pozione con acqua e miele, l’altra del vino puro, color vermiglio come il sangue del Salvatore; poi, aiutata dalla priora e da un’altra suora anziana, versa le due bevande nei bicchieri delle consorelle, che le baciano la mano quando mesce loro il vino.
Ogni sorella ha un suo compito, cuoca, sarta, falegname, fabbro, speziale, filatrice, tessitrice, ricamatrice (abilissime sono le consorelle a preparare tovaglie d’altare, drappi quaresimali, veli da calice, raccontando, con i colorati intrecci dei fili, storie sacre, meraviglie dei Santi, considerando noi anche i ricami edificazione religiosa), mansioni svolte con cura perché accettate con amore, giacché l’obbedienza non è un peso, essendo imposta in nome di Dio giusto e sapiente.
L’attività principale permane la coltivazione della terra, ma, oltre al lavoro agricolo, coltiviamo pure lo spirito, perciò, quando i buoi riposano all’ombra dell’albero, ci appartiamo nel luogo più luminoso e tranquillo del monastero, lo scriptorium, e ci esercitiamo nella scrittura, eseguendo anche lavori di trascrizione di antichi manoscritti. Curve sui grandi fogli di cartapecora, pazientemente ricopiamo i libri, scrivendo con penne d’oca i bellissimi e nitidi caratteri latini. Ci sentiamo le copiste del Signore, e, obbedendo a Lui, simili a fari di luce in un mondo imbarbarito, nel torbido d’una vita sconvolta e avvilita, dove gli uomini violenti e scaltri si dibattono fra gli intrighi di potere, serbiamo i monumenti del sapere umano insieme con le regole del viver civile, trascrivendo amorevolmente le opere letterarie dell’età classica che le vicende turbinose dei secoli hanno risparmiate, mantenendo contatti ideali con la tradizione culturale dell’antichità, tramandando soprattutto opere inerenti all’agricoltura, all’arte e alla scienza, le tre massime espressioni della civiltà.
La vita scorre tranquilla, pura, nelle occupazioni e nella contemplazione del Signore, lontana dalle tentazioni e dalle disperazioni del mondo … eppure io non nacqui per essere monaca, ma per essere regina, invece fui l’ultima principessa della mia stirpe; ma dolorosa è la storia che mi portò dal castello al convento.
Ingenua fanciulla, quasi ancóra bambina, figlia di un principe ambizioso e bellicoso che voleva estendere i suoi dominî con la forza, andai sposa ad un uomo potente e fiero, che maturava lo stesso progetto di mio padre, per cui prima mi volle e poi mi rifiutò.
Nemici erano i due popoli ai quali appartenevano, entrambi discendenti da una medesima tribù guerriera, insediatasi con la violenza in due diverse terre straniere, ma che ora volevano regnare sovrani sulle stesse terre. Pur avendo dirozzato i loro costumi, dandosi leggi scritte, convertendosi alla fede cattolica e sviluppandosi anche artisticamente, non esitavano a ricorrere all’illegalità, agli arbitri e alle crudeltà per realizzare i loro intenti; del resto, quelli erano tempi torbidi, di guerre, saccheggi, faide interne, di morti per veleno o per pugnale, per motivi di territorio o di religione. Per pacificare i contrasti intervenne la madre del mio futuro sposo, regina saggia e autorevole, che propose una spartizione delle terre contese ed un matrimonio di pace, fra suo figlio e me.
Ricordo ancóra con l’intatta emozione il giorno in cui il mio futuro sposo venne a conoscermi.
Pensai che era bello, alto di statura, le chiome folte, gli occhi celesti grandi e vivaci, il naso importante, l’aspetto autorevole e dignitoso, l’eloquio chiaro e preciso, il corpo robusto temprato dall’equitazione e dalla caccia, ma anche dal nuoto, disciplina nella quale non c’era nessuno che lo superasse. Sobrio nel cibo, moderato nel bere, amava la cultura e l’arte, la musica e il canto, padroneggiava il latino e molte lingue straniere, con passione coltivava le arti liberali e leggeva testi religiosi.
I suoi modi erano gentili ed affabili, ben lontani da quelli rudi e un po’ bruschi di mio padre, ciononostante riuscirono ad accordarsi civilmente quando chiese la mia mano. Ignoravo del tutto i suoi sentimenti nei miei riguardi, ed un po’ tremavo al suo cospetto, ma mi rasserenai allorché, concluso il trattato di maritaggio, contratti gli sponsali e fissate le nozze, per un attimo sfiorò la mia mano e mi parve di sentire un tremito anche da parte sua mentre mi sussurrava: Avete in viso una tale freschezza da vincere al paragone i gigli e le rose!
Giovane, timida, remissiva, docilmente seguii la trattativa, ma la mia fantasia si accese al pensiero delle nozze con un uomo così bello e potente che tanto mi piaceva, e al pensiero che la nostra unione sarebbe stata foriera di pace fra i nostri popoli in inimicizia da così lungo tempo. Presto una corona di regina avrebbe cinto la mia fronte, e fieramente l’avrei portata, adoprandomi col mio sposo perché la pace duratura regnasse in quel mondo ancóra così barbaro e feroce.
Finalmente giunse il giorno delle nozze. In presenza di testimoni e parenti, riuniti per l’occasione, fui consegnata al mio sposo da mio padre, insieme alla dote, ad un mantello e ad una spada.
Il matrimonio si svolse in grande allegria, con mense ben apparecchiate per un generoso banchetto che sarebbe durato per ore, allietato da danze e canti e lodi in onore degli sposi. Erano presenti quasi tutti i componenti delle nostre famiglie, nobili, dame, cavalieri, dignitari, ambasciatori, abbigliati in modo raffinato, in un turbinio di vesti colorate: le donne con abiti ricamati arricchiti di ganci, fermagli, bottoni, fibule, spille, collane d’oro; gli uomini con tuniche, sopravvesti e mantelli sfarzosi, in armi, con i segni della guerra, lance e spade, ammesse, però, solo nel recinto reale, dove fu celebrata la cerimonia con rito cristiano.
Il mio sposo, su una camicia di finissimo lino, indossava una tunica bianca orlata di seta che, morbida, scendeva sui calzoni, sulle spalle un mantello azzurro, sospesa al fianco una spada ornata di gemme, sul capo una corona aurea a sbalzo con incastonate pietre preziose. Io indossavo un abito lungo di seta violetta con l’orlo ricamato di fili d’oro e d’argento, un mantello rosso trattenuto da una grande fibula a disco in oro, filigranato come gli orecchini a cestello, ed una collana con pendenti pure d’oro. Due spilli d’argento trattenevano sul mio capo un velo di broccato, sopra il quale era adagiata una coroncina d’oro cimata da otto perle.
Generosi i doni, degni di un re e di una regina: pregiate stoffe, tazze, calici, bacili e coppe di finissima fattura, gioielli di alta oreficeria, una croce in oro racchiusa in una custodia di cristallo, ricami su lini con fili d’oro e d’argento, ventagli, ornamenti, artistiche scatole di avorio, lame di Damasco e di Toledo, una cassapanca intarsiata, cofanetti istoriati, persino reliquie e oggetti votivi. Ma i doni più cari al mio cuore furono quelli a me donati dal mio sposo: il giorno del fidanzamento una collana a maglia ritorta a formare un “nodo d’amore”, una spilla d’oro e perle tempestata di rubini, e l’anello con incisa la frase Sono un pegno d’amore, serbatemi; nel giorno del matrimonio, invece, una fede d’oro tempestata di diamanti e rubini, una coroncina d’oro e una crocetta aurea con gemme e smalti.
Tutto fu tutto perfetto quel giorno, anche il canto, che il mio sposo aveva fatto comporre per me da un musico, i cui versi più belli così recitavano:
Dame, quant je devant vos fui
Et je vos vi premierement,
Mes cuers aloit si tresaillant
Qu’il vos remest quant je m’en mui.
Donna, quando vi fui dinanzi, la prima volta che vi vidi,
trasalì allora il mio cuore, così forte
che rimase con voi, quand’io partii.
Al termine della cerimonia, salutato il corteo nuziale, partimmo per raggiungere la mia nuova dimora. Lungo ed estenuante fu il viaggio a cavallo, fra luoghi impervi ed ostili, a me sconosciuti ed estranei; infine giungemmo che era l’imbrunire. Vidi il castello stagliarsi confusamente contro il cielo nebbioso: un poderoso maniero dalle massicce mura difensive, possenti torrioni cilindrici, torri merlate alte e svettanti. Sorgeva su un’altura, circondato da un profondo fossato, scavato nella roccia, sul quale si protendeva il ponte levatoio che metteva in comunicazione il portone d’ingresso con l’esterno; in alto il mastio, incorporato in un’ala del castello, una torre più alta delle altre, per raggiungere la quale bisognava percorrere varî attraversamenti, che permetteva di osservare a distanza l’avvicinarsi del nemico.
Fermammo i cavalli e discendemmo. Alzai lo sguardo e sul portone d’ingresso vidi sospesa una spada, dovetti passarvi sotto: ecco, da quel momento sarei stata ufficialmente sottoposta all’autorità di mio marito.
Ad accogliere, poco dopo l’ingresso, una grande sala, la sala d’armi, stanza centrale dell’intero castello, dove ricevere gli ospiti, imbandire banchetti ed amministrare la giustizia. Da questa sala, attraverso stretti passaggi e ripide scalette, si accedeva agli altri locali, le camere da letto, gli alloggi dei servi, le cucine, debolmente illuminati da piccolissime finestre, malamente riscaldati da qualche caminetto.
La linea imperiosa e severa dei torrioni, la forza titanica delle mura, tutto edificato per opera di una cieca volontà di potere e di dominio, m’incutevano timore, e per un attimo rabbrividii, ma poi mi riconfortò la certezza di rappresentare un dolce simbolo di pace in quel mondo per tanta parte ancóra rozzo. Allora, fiduciosa, andai incontro al mio destino, illudendomi di poter conquistare l’amore del mio sposo, amandolo a mia volta, essendogli fedele, governando onorevolmente la famiglia, soprattutto procreando, assicurandogli, così, degna discendenza., ignara che ben diversamente sarebbe andata la mia vita. Creatura innocente, avrei pagato per gli interessi degli altri, il mio sogno d’amore si sarebbe infranto contro un’amara realtà: dopo una breve parentesi di gioia, sarei divenuta una sposa umiliata e offesa senz’ alcuna colpa. La nostra unione era stata benedetta dal Sacramento, si preannunciava foriera di pace, e perché diventasse perfetta bisognava solo attendere la nascita del primo erede, segno della benedizione del Cielo. Non c’erano impedimenti, entrambi eravamo forti, giovani, in buona salute, ma l’erede non arrivava. La madre del mio sposo, che avevo conquistato subito con l’innocenza del mio sguardo e dei miei ragionamenti e le mie maniere timidi e gentili, cercò di aiutarmi in tutti i modi, somministrandomi vari medicamenti, ascoltando le indicazioni dei medici di corte e di altri venuti da lontano, anche i suggerimenti di guaritrici del posto, persino quelli di una sanatrix la cui fama aveva scavalcato i confini: tutto invano. Intanto da più parti premevano sul mio sposo affinché mi ripudiasse, perché ancóra non gli davo un figlio, ma in realtà per spezzare l’equilibrio creatosi fra le nostre genti. E fu così che – non seppi mai se a malincuore o perché disamorato di me – il mio sposo mi ripudiò. Appresi, poi, qualche mese dopo, che avrebbe avuto presto un’altra donna al suo fianco.
Ricordo ancóra l’ultima giorno trascorso nel castello che mi aveva avuta padrona onorata e sposa dignitosa. Tornai sull’altura che domina la valle, avventurandomi solitaria fuori dal muro di cinta, per congedarmi da quel paesaggio che un giorno aveva fatto da lieta cornice al mio stato d’animo di sposa novella, felice e piena d’illusioni. Salutai i boschi, il fiume, il lago, i monti, le vallate feconde ed i pendii verdeggianti e fioriti, un tempo scenari luminosi per la mia luminosa vita sprofondata, ora, nella più cupa tristezza. Mi congedai dai ricordi felici dei mesi trascorsi spensierati nel castello, angosciata solo quando il mio sposo era lontano a combattere, nel mio cuore non mi congedai da lui; anche se mi aveva ripudiata, ed il suo rifiuto mi faceva fremere d’indignazione, ancóra ne ero innamorata.
Tornata nella dimora paterna pensai che sarei morta di dolore, troppo grande erano la malinconia, il dolore, lo struggimento per il mio sposo perduto; per un po’ fui malata, rifiutai il cibo, consumandomi in una sorta di languore, ma poi, mentre intorno gli eventi incalzavano, mentre il mio mondo crollava, si fece strada in me una strana forza che, chissà, forse mi proveniva dalla tempra guerriera delle antiche donne della mia gente, e decisi di reagire. Chiesi ed ottenni da mio padre di ritirarmi in monastero: mi parve, quella, scelta di libertà e d’indipendenza, il mio rifiuto di vivere in un mondo violento nel quale non mi ritrovavo era atto di ribellione, non di viltà. Lì, avrei potuto riflettere, meditare, studiare, essere utile agli altri, soprattutto in quel piccolo monastero, in un’angusta cella, avrei potuto coltivare la dimensione spirituale che non aveva trovato respiro negli spaziosi castelli in cui fino ad allora avevo vissuto. E quando, poi, mi accorsi, incredula, di aspettare quel figlio tanto desiderato, ancóra maggiore fu il mio bisogno d’isolamento, desiderosa solo di proteggerlo dalla violenza del mondo. D’accordo con le consorelle, tenni celata la gravidanza, ma la creatura (era un maschietto) che diedi alla luce fra le sacre pareti, dolore al dolore, sfortunatamente non visse che poche ore.
Molti anni sono trascorsi, ormai, da quando abbandonai i clamori del mondo secolare: mia madre non c’è più, mio padre, sconfitto dai suoi nemici, ha concluso i suoi giorni lasciandosi morire in un convento dov’era trattenuto a forza, anche mio fratello, riparato all’estero, non c’è più, la mia gente è stata vinta, il mio mondo è crollato, eppure io vivo serena, perché vivo in pace e sono sposa in Cristo. Ma non dimentico mai nelle mie preghiere di chiedere perdono al Signore per i miei peccati e per i peccati del mondo, invocando per tutti, sempre, la libertà e la pace.
Confessu so ad me senior Dominideu et ad mat donna sancta Maria … de omnia mea peccata ket io feci … Me accuso de lu corpus Domini, k’io indegnamente lu accepi … Pregonde la sua sancta misericordia et la interecessione de li suoi sancti propter mea peccata et omnia peccata mundorum…
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