di Letizia Lanza
Il non-senso dell’esserci. Così vorrei definire la quidditas più vera della nuova raccolta poetica benassiana (I Fasti del Grigio, Edizioni Lepisma, Roma 2005. Divisa in Libro primo – Il Guinzaglio, Permesso non retribuito, I Fasti del Grigio; Libro secondo – L’assedio, mette insieme i testi composti tra il 2000 e il 2004, durante il periodo che l’autore ha vissuto a Torino).
Un non-senso talmente (pre)potente, pervasivo, crudamente esibito che – paradosso fin troppo facile – diviene concentrato densissimo di senso, in grado di viversi (imporsi) e autonullarsi al medesimo tempo.
Tantissimi gli esempi possibili: dal fulmineo L’incontro («”Ma in fondo” si chiese il vecchio randagio / guardando il guinzaglio / “ne sarà valsa la pena?”», p. 16), alla sequenza allucinata dei brani che compongono la sezione Permesso non retribuito (sopra tutto il primo: «Eccola qua / a starnazzare il primo buon giorno / la pendola / la bollatrice metereologa di senso / l’acuto oroscopo della fatica / quotidiana. Il tornello / su cui timbro il pigro contagocce / l’azzurro cartellino / lo straordinario notturno / della giornaliera inconcludenza», p. 21) ad Io sto nei margini – sorta di sbrindellato “Manifesto” del giovane artista romano: «Io sto nei margini / nello spazio che non c’è / e guardo le finestre aperte / bluastre e i monitor / e i tetti accendere il / controluce / poi accendo la pipa e sto da solo / e non rispondo a chi dice di chiamarmi» (p. 25).
Un senso, evidentemente, intriso del male di vivere: il ponos esiodeo del quotidiano (costretto, si badi bene, già nella prima parola della silloge: «Bisogna», p. 13) – che anche materialmente, carnalmente, attanaglia (e sfibra e spegne) un numero infinito di uomini e di donne ai quattro lati del pianeta (ed è già un minor male, considerate altre spaventose realtà di miseria e di degrado!).
Così, per esempio, taluni provocatòri, lucidissimi brani: «Ma sì, cancella tutto, non salvare / deframmenta, svuota / libera la memoria di chi rimane: / qui si lavora ghisa / (trucioli ed olio accumulati al bordo / delle fresatrici / dei fasti del grigio) / e si montano tappi / ma io compilo gli elenchi / i numeri dei volti dei morti / nell’armadio della stanza / il lavoro del becchino» (p. 28); «C’è una metrologia dell’anima / un calibro per ogni umore. / Non so cosa ci sia al fondo / dei corridoi lunghi / tra il bianco e nero delle macchine: / si narra del piano Marshall / (un’etichetta nera con la data e il numero di serie) / e dei fischietti rossi / ma c’è chi dice di amplessi grassi / rubati su tavolacci di legno / e mozziconi spenti nei cassoni / rottami, scarti, bicchieri sporchi di caffè – / è una sala prova del coraggio / di affondare nella ghisa tenera / come lama nel burro» (p. 30). Oppure, di un lessico scarnificato all’osso ma, contemporaneamente (come quasi sempre, del resto) sofisticato: «Non ci ridaranno nulla, questo è certo / come il treno che si raggomitola / al bordo della vita: / un collo di bottiglia, appena / dove la cera balla con Debussy / la danza rossa arabescata della notte» (p. 39).
Ecco allora, pregnanti quanto lapidarie, le considerazioni di Dante Maffìa sulla sezione di apertura: «Si entra subito in un’atmosfera straniante, in un’aura d’inappartenenza che ci pone al cospetto del grigiore vissuto in tutte le esplosioni delle piccole intimità. Ed è propio da qui che nascono le suggestioni che favoriscono il lievito minimalista a diventare cronaca di un piccolo delirio errabondo, misfatto del senso che rincorre altri sensi nel momento in cui la realtà si pone dentro e fuori di se stessa per farsi connubio o muro, asprezza o grigio, appunto» (p. 6). Di analoga maniera – ed è sempre il prefatore che parla – nella successiva sezione «avvertiamo l’attualità di Benassi, ne sentiamo i brividi che s’infrangono sulle piccole cose, su un gesto, su un risvolto appena percettibile, su una sfumatura. Così possono trionfare I fasti del grigio, quell’apodittico grido non gridato in cui un pentagramma di annotazioni deflagra in singhiozzi lirici subito spenti da accorti rimbalzi imperniati sulla realtà consueta-inconsueta» (p. 7).
Si giunge quindi al Libro secondo – un gruppo di dieci componimenti (alcuni già usciti nella rivista on line «Senecio») che s’ispirano a un immaginario remotissimo, si legano cioè al mondo ormai franto, squarciato del mito, all’epos così detto omerico.
Un cumulo di macerie, insomma. E tuttavia, al di sopra (a dispetto) di esse la voce del poeta riesce a levarsi più libera, meno compressa, meno soffocata – o forse solo meno contrastata, essendo comunque salva l’adamantina inossidabilità di fondo? – dalle devastanti urgenze dell’oggi.
Poiché alfine – e lo esplicita Benassi – di questo si tratta: di «una ferita lineare / che non rimargina sul volto / di un naufrago – il mio / che affronta con gioia / l’ultimo naufragio» (p. 54).
Commenti